interpretazione
Il termine copre una molteplicità di usi, tutti più o meno riconducibili a un procedimento di decodifica di un testo (per es., della Bibbia), di un simbolo o anche di un comportamento al fine di individuarne il significato. In senso restrittivo, con il nome di ermeneutica (➔), la nozione di i. è stata al centro della filosofia di Heidegger e Gadamer.
De interpretatione (gr. Περί ἑρμηνείας) è il titolo latino di uno dei trattati di Aristotele raccolti nell’Organon nel quale lo Stagirita tratta del discorso significante, delle parti del discorso (nome e verbo) e del modo in cui esse si congiungono per dar luogo a proposizioni o giudizi dichiarativi che possono essere veri o falsi, pervenendo quindi a formulare la definizione dell’affermazione come «il giudizio che attribuisce qualcosa a qualcosa» e della negazione come «il giudizio che separa qualcosa da qualcosa» (De interpretatione, VI, 17 a 25-6). In questo senso il termine indica sostanzialmente l’insieme delle caratteristiche che sono alla base dell’espressione linguistica del pensiero (delle «affezioni dell’anima») e del rapporto tra linguaggio (suoni della voce e simboli) e realtà. La dottrina aristotelica avrà un’ampia influenza nella logica medievale, sia per la distinzione dei giudizi universali e particolari in affermativi e negativi, presente anche nei Primi analitici, sia per la formulazione del cosiddetto principio di bivalenza, secondo cui ogni giudizio è vero o falso, benché nel De interpretatione Aristotele individuasse una possibile eccezione al principio nei giudizi relativi al futuro (futuri contingenti), come «domani ci sarà una battaglia navale», che non è né vero né falso.
Un uso più ristretto e più specifico del termine i. si ha a partire dalla filosofia di Peirce, uno dei fondatori della semiotica, la teoria generale dei segni. Per Peirce il processo di i. si articola secondo un rapporto triangolare tra oggetto, segno e interpretante (➔ semiotica). Sarà poi Morris (Lineamenti di una teoria dei segni, 1938; Segni, linguaggio e comportamento, 1946) a fornire una sistematizzazione della semiotica come disciplina che si articola in tre dimensioni: la sintassi (che riguarda la combinazione dei segni tra loro), la semantica (che riguarda il rapporto tra segni e oggetti) e la pragmatica (che considera i segni in relazione ai soggetti che li interpretano). Indubbiamente, quest’ultima appare la parte più pertinente relativamente alla nozione di i., in quanto, pur nel contesto di un approccio comportamentistico qual era quello di Morris, implica un aspetto attivo da parte dell’interprete che decodifica i segni attribuendo loro un significato. La sintassi era peraltro già stata esplorata nell’ambito del neopositivismo, in partic. da Carnap (Sintassi logica del linguaggio, 1934). Successivamente lo stesso Carnap, che accettò la sistematizzazione compiuta da Morris, avrebbe avviato un approccio semantico al linguaggio (Introduction to semantics, 1942), ma solo in quella prospetti- va formale (➔ oltre: Interpretazione e logica) che Morris intendeva appunto ampliare in una più comprensiva visione pragmatica del problema del significato e dell’interpretazione.
Sin dagli anni Trenta del sec. 20°, Wittgenstein si sarebbe radicalmente opposto agli approcci formali e strettamente denotazionistici alla teoria del significato, inaugurando un tipo di indagini in cui ha un ruolo determinante il concetto di interpretazione. La teoria del significato del cosiddetto secondo Wittgenstein (Ricerche filosofiche, post., 1953) si basa sulle nozioni di ‘regola’ e ‘gioco linguistico’: comprendere un proferimento linguistico (che può essere un enunciato dichiarativo ma anche un comando, una preghiera, un’ipotesi, ecc.) significa per Wittgenstein interpretarlo sulla base delle norme e dei contesti sociali entro cui il proferimento acquisisce un significato, piuttosto che ricondurlo, secondo la teoria denotazionistica (una «rappresentazione primitiva» del funzionamento del linguaggio) da lui stesso elaborata nel Tractatus logico-philosophicus (1918), agli oggetti e agli stati di cose che lo renderebbero vero. Atteggiamento analogo Wittgenstein (seguito poi da A.I. Melden, Peters, P. Winch, von Wright) mostra verso il comportamento non linguistico (anch’esso ricondotto a una forma di linguaggio) quando sottolinea l’aspetto interpretativo, in base ai contesti pubblici e alle regole implicite in una comunità, dell’attribuzione di significato a gesti e azioni (si pensi, per es., al gesto di alzare la mano: soltanto in base al contesto e alle regole che vigono in una comunità esso può essere interpretato come l’atto o l’intenzione di chiedere la parola). Un approccio pragmatico al linguaggio simile a quello wittgensteiniano è rappresentato dalla teoria degli atti linguistici di Austin e Searle e dalla teoria della conversazione di Grice, per le quali l’analisi del significato va inquadrata in una prospettiva comunicativa e interpretativa in cui la dimensione denotazionistica del linguaggio costituisce solo uno dei vari aspetti. Oltre che a Wittgenstein e ai teorici degli atti linguistici, si devono soprattutto a Quine e a Davidson le riflessioni più influenti relativamente all’i. nell’ambito della filosofia analitica. Con il celebre esperimento mentale della traduzione radicale, Quine (Parola e oggetto, 1960) mira a problematizzare l’acritica accettazione dei significati come entità mentali o astratte associate agli enunciati, entità che enunciati sinonimi di lingue diverse avrebbero in comune (in ciò Quine manifesta delle affinità con l’antimentalismo wittgensteiniano). Con il caso di un linguista che debba tradurre una lingua completamente sconosciuta Quine ha messo in evidenza che l’attività di traduzione (esempio estremo di attribuzione di significato e di attività interpretativa) è governata dalle presupposizioni logico-linguistiche e ontologiche del linguista, che proietterebbe il suo schema concettuale sul linguaggio da tradurre con un certo margine di arbitrarietà che non esclude la compilazione di dizionari incompatibili tra loro ma tutti compatibili con il comportamento osservabile (tesi dell’indeterminatezza della traduzione radicale). In questa prospettiva i significati non sarebbero entità da scoprire, ma comportamenti da interpretare, e verrebbero tendenzialmente preferite quelle traduzioni o i. che rendono il parlante quanto meno dissimile dall’interprete («l’insipienza del nostro interlocutore, oltre un certo limite, è meno probabile della cattiva traduzione» costituisce, al proposito, la celebre osservazione di Quine). Questa assunzione metodologica, per la quale il traduttore o interprete presuppone che il parlante abbia un insieme di credenze logiche e ontologiche non dissimili dalle sue, è nota come principio di carità ed è stata ulteriormente accentuata da Davidson, che ha elaborato una teoria dell’i. intesa come teoria del significato (Verità e interpretazione, 1984) basata sulla definizione di verità di Tarski oltre che sulle indicazioni di Quine (➔ anche significato).
Secondo la formulazione originariamente proposta da Tarski negli anni Trenta del Novecento (correntemente nota come teoria dei modelli), in logica si intende per i. l’assegnazione di denotati o estensioni, appartenenti a un prefissato dominio di oggetti, ai termini descrittivi di un linguaggio o di un sistema formale (un individuo a un termine singolare, un insieme di individui a un predicato monadico, e, conseguentemente, un valore di verità dall’insieme {Vero, Falso} a un enuciato). Un’i. che rende veri gli enunciati e gli eventuali assiomi del linguaggio viene definita modello.