Interpretazioni del Risorgimento
Le prime interpretazioni del Risorgimento risalgono agli stessi anni dell’unificazione e a quelli immediatamente successivi. Frutto per lo più di personalità direttamente impegnate nelle lotte politiche risorgimentali, esse ebbero i pregi e i difetti che di consueto caratterizzano le opere storiche di uomini di partito, animate da grande tensione politica, ma afflitte da preconcetti, schematismi ideologici, intolleranza per le posizioni degli avversari, quindi per lo più deboli nelle basi strettamente scientifiche e sostanzialmente incapaci di comprendere appieno, nel caso del Risorgimento, l’intima essenza dei grandi contrasti ideali sui quali l’Italia fu costruita. Questo vale tanto per gli scrittori di parte moderata come Luigi Carlo Farini, Giuseppe La Farina, Luigi Zini, Nicomede Bianchi, quanto per quelli di parte democratica come Giuseppe Ferrari, Carlo Cattaneo, Luigi Anelli, Carlo Pisacane, Giuseppe Gabussi, quanto per quelli di parte reazionaria e antiunitaria come Cesare Cantù. Fiorì anche, all’indomani dell’unità, tutta una letteratura agiografica, volta all’esaltazione acritica del Piemonte, della monarchia, dei moderati, ma anche di Mazzini, di Garibaldi e della parte democratica priva oggi di sostanziale interesse culturale e scientifico. Ad avviare una revisione di natura strettamente storiografica delle vicende risorgimentali fu Carlo Tivaroni, un ex garibaldino, anticlericale, di antica fede democratica, ma ormai pienamente inserito nel quadro istituzionale dello Stato monarchico. Tra il 1888 e il 1897 in un’opera in 9 volumi (Storia critica del Risorgimento italiano), egli effettuò il primo tentativo scientificamente fondato di una rievocazione delle vicende risorgimentali che si ponesse al di sopra delle parti in lotta, facendo giustizia degli eccessi e delle unilateralità della letteratura agiografica e celebrativa. Fu il primo tentativo di comporre su un piano squisitamente storiografico il dissidio tra conservatori e democratici; esso però non riuscì a rendere pienamente conto dell’acutezza dei contrasti e dell’antiteticità dei programmi dei due schieramenti. Autentica miniera di notizie, l’opera del Tivaroni risentì dell’ancora limitata base di documentazione e soprattutto rimase sostanzialmente priva di una forte idea centrale.
Un forte nucleo politico-ideale fu invece presente, e a tratti anche prevaricante, nell’opera di Alfredo Oriani (La lotta politica in Italia: origini della lotta attuale, 476-1887), pubblicata nel 1892, accolta sulle prime molto freddamente da parte del mondo politico e da giudizi drasticamente negativi da parte di quello scientifico. Tuttavia, a partire dal 1908, essa ebbe un grande successo di pubblico e nello stesso anno incontrò una valutazione non negativa da parte di Benedetto Croce che vi rinveniva una capacità non comune di padroneggiare e collegare una grande ed eterogenea varietà di fatti storici in una prospettiva cronologica di lungo periodo. Oriani vedeva la storia d’Italia dalla caduta dell’impero romano fino all’unità dominata da una lotta ininterrotta tra tendenze centrifughe federaliste e tendenze centripete unitarie. La soluzione raggiunta nel 1861 aveva dato luogo a un risultato mediocre, frutto non di una grande rivoluzione di tipo francese, né dell’azione di una forte monarchia militare come quella prussiana, bensì di un compromesso tra due impotenze, quella della rivoluzione, che aveva avuto bisogno della monarchia, e quella della monarchia, che aveva avuto bisogno della rivoluzione e della Francia napoleonica. L’antitriplicismo e l’auspicio di un imperialismo africano, in opposizione alla mediocrità in cui si era adagiata la vita politica italiana dopo l’unità, facevano di Alfredo Oriani un antesignano del nascente nazionalismo.
Gli anni compresi tra il 1895 e il 1915 videro anche la comparsa di una serie di opere che cominciarono a scalfire la visione imperniata sul ruolo egemone della monarchia piemontese, della diplomazia e della direzione dall’alto del movimento nazionale. Francesco De Sanctis già nel biennio 1872-74 aveva cominciato a guardare senza preconcetti ideologici al Mazzini agitatore e tenace educatore etico-politico. All’inizio del nuovo secolo H. Bolton King riprese in modo sistematico il discorso sul cospiratore genovese (Mazzini, 1902; Storia dell’unità italiana, 1909-10), ponendo in evidenza come il nucleo centrale della sua opera fosse di natura religiosa e come proprio ciò gli avesse dato la fede e la forza per divenire il più grande ispiratore dell’unità italiana. Bolton King percepì con notevole acume e lucidità il nesso che aveva legato la volontà di riscatto politico della penisola all’aspirazione a una profonda riforma religiosa e morale di segno liberaldemocratico. Di qui la sua simpatia per Ricasoli, di qui anche le sue riserve sul concetto cavouriano di «libera Chiesa in libero Stato», che, utile tatticamente nell’immediato, avrebbe precluso per il futuro a quest’ultimo la possibilità di obbligare la Chiesa a riformarsi. Bolton King affrontò inoltre tutta una serie di problemi economici, demografici, sociali, scolastici, finanziari facendo ricorso a una serie di dati statistici sino ad allora utilizzati molto poco. Pose la questione delle mancate riforme sociali e della scarsa cura del governo unitario per le masse contadine. Colse correttamente in alcuni termini essenziali i problemi del Mezzogiorno e della Sicilia. Le sue spiccate simpatie democratiche non gli impedirono comunque di essere uno dei massimi assertori del carattere, nel suo insieme largamente progressivo, del Risorgimento nella realtà storica europea dell’Ottocento. In una prospettiva abbastanza simile si mosse anche Gaetano Salvemini, l’iniziatore dello studio sistematico delle fonti mazziniane. Anche Salvemini, sottolineando le radici saint-simoniane del pensiero di Mazzini, sottolineò l’importanza dell’afflato religioso che aveva permeato di sé tutta un’epoca della storia europea. Tuttavia Salvemini pose in evidenza anche la minore incidenza della componente religiosa mazziniana nell’insieme del processo risorgimentale, dominata dal laicismo della democrazia liberale e minata da un possibilismo che aveva indotto più volte il cospiratore genovese a cedimenti su punti anche basilari del suo programma massimo. Tuttavia anche Salvemini rilevò che, aldilà di qualunque tatticismo e di qualunque compromesso, su un punto Mazzini non aveva mai ceduto e per il quale aveva acquisito meriti superiori a qualunque altro protagonista del Risorgimento: quello dell’unità a qualunque costo. Per questo egli respingeva (Il pensiero religioso, politico, sociale di Giuseppe Mazzini, 1905) l’accusa di borghese reazionario mossa a Mazzini da Enrico Ferri. Salvemini inoltre, sulla scorta delle sue convinzioni democratiche, socialiste, federaliste, richiamò l’attenzione sul ruolo di alta guida spirituale del Risorgimento svolto da Carlo Cattaneo, che fornì il primo esempio di analisi della composizione sociale dei partiti, individuò nell’incapacità degli esigui gruppi borghesi meridionali di controllare le rivolte contadine la ragione principale della vittoria della soluzione accentrata e moderata su quella federale e democratica. La ripresa di interesse per Cattaneo, quindi, come anche l’individuazione delle differenze tra borghesia meridionale e borghesia settentrionale, la stessa lettura in chiave economica del processo di unificazione nazionale, possono essere considerate tutte tematiche di studio inaugurate da Salvemini.
L’esigenza di conoscere il sostrato economico e sociale degli eventi risorgimentali portò all’inizio del 20° sec. alla fioritura anche di una serie di studi sulle trasformazioni dei rapporti di produzione nelle campagne, che spinse generalmente a individuare un filo diretto tra riforme settecentesche e spinte liberali del 19° secolo. Gli studi di Antonio Anzilotti sulla Toscana leopoldina e quelli di Giuseppe Prato sul Piemonte settecentesco si collocarono in quest’ottica, apertamente sostenuta in linea generale da Georges Bourgin (1911) e poi organicamente proposta da Raffaele Ciasca nel 1916 nel suo noto saggio su L’origine del «Programma per l’opinione nazionale italiana» del 1847-48. In esso si sosteneva che il Risorgimento era stato opera di una borghesia in ascesa che, ostacolata dall’Austria, puntava alla formazione di un grande mercato nazionale. L’interpretazione economicistica di Ciasca fu confutata nel 1940 da K. R. Greenfield per la Lombardia e poi da Luigi Luzzatto (1952) per l’intera penisola. Per essi non esisteva al momento dell’unificazione una consistente borghesia capitalistica interessata alla formazione del mercato nazionale, ma solo un’«intelligenza» politica liberale che cercava di stimolare e irrobustire i pochi nuclei di borghesia esistenti. Obiezioni condivise nel secondo dopoguerra sia da Luciano Cafagna sia da Rosario Romeo, il quale ribadì il carattere nettamente ideologico-politico del Risorgimento, anche se assegnò un ruolo fondamentale allo Stato unitario nella realizzazione del processo di modernizzazione e di industrializzazione dell’economia nazionale.
Con il crollo del regime liberale e l’avvento della dittatura fascista parte del multiforme schieramento storiografico antifascista fu quasi meccanicamente portato a ricercare le radici della crisi del primo dopoguerra nel modo in cui si era formato lo Stato unitario, nella sua incapacità di far partecipare le grandi masse alla vita del Paese, nel carattere accentrato della sua struttura amministrativa, negli interessi settoriali e classisti del suo gruppo dirigente. Piero Gobetti negò decisamente (1924-26) che per il Risorgimento si potesse parlare di una rivoluzione liberale, dal momento che l’unificazione non era stata realizzata in virtù di una larga partecipazione di massa, né di una radicale riforma religiosa, bensì grazie a un’equivoca alleanza del movimento nazionale con la monarchia sabauda e a un arrendevole compromesso con il mondo cattolico. Si era trattato dunque di un Risorgimento senza eroi. In quegli stessi anni Antonio Gramsci avviò le sue riflessioni sulla natura sociale e politica dello Stato unitario e i suoi scritti del 1926 favorirono non poco la messa a punto dell’interpretazione del fascismo come rivelazione di antichi mali dello Stato liberale della quale fu assertore anche Giustino Fortunato. Critiche al Risorgimento e soprattutto alla portata dei suoi contenuti liberali e democratici vennero anche da storici appartenenti all’area del nazionalismo e del fascismo. Le solide capacità eclettiche e la forza di indagine di un intellettuale di grande statura come Gioacchino Volpe superarono di slancio il carattere eminentemente dissacratorio e la veste più letteraria che storicistica dell’orianesimo. Volpe vedeva l’unificazione e la costruzione dello Stato unitario come un passo, ma non decisivo e conclusivo, nel cammino del popolo italiano verso la sua piena realizzazione come autonoma comunità nazionale, iniziata diversi secoli prima dell’Ottocento e conclusa con l’instaurazione del regime fascista. Con Volpe gli elementi autoctoni del Risorgimento trovavano una naturale rivalutazione contro le tesi imperniate sul ruolo importante svolto da sollecitazioni ideali e politiche esterne e contro le realizzazioni dell’ideologia e delle forze politiche risorgimentali sia liberali sia democratiche, incapaci nella risultante finale del loro agire di promuovere una completa immissione delle masse nella vita nazionale.
Fu in questo contesto di svalutazione del ruolo storico delle forze liberali che prese nuovo vigore la lettura del Risorgimento come fatto eminentemente elitario e diplomatico-militare e un’esaltazione dell’opera della dinastia sabauda, che divenne la maggiore artefice dell’unificazione a scapito del ruolo dell’azione dal basso, esercitata dal movimento nazionale. Le origini del Risorgimento furono quindi anticipate al 18° sec. contro la lettura degli stessi contemporanei che le avevano poste nel periodo giacobino, e fu attribuita (Arrigo Solmi, Ettore Rota, Carlo Morandi) alla tradizionale politica di espansione dei Savoia sul versante italiano un significato e una funzione nazionale che in realtà essa non ebbe.
Alle tesi di Gobetti rispose Adolfo Omodeo, difendendo l’operato di quanti si erano impegnati nell’operazione unitaria. Se essi erano stati di numero abbastanza ridotto rispetto all’intera popolazione, avevano però costituito la maggioranza di quanti attivamente partecipavano nell’Ottocento alla vita politica, e quindi avevano costituito l’unica maggioranza che veramente contasse, in Italia come nella maggior parte dei Paesi europei dell’epoca. Omodeo inoltre rivendicò, contro quanto ingenerosamente sostenuto da Gobetti, il loro eroismo per la loro capacità di lottare contro forze preponderanti fino al sacrificio supremo della vita.
Nel recupero del valore e del significato della storia dell’Italia liberale nel suo insieme si impegnarono, anche Salvemini, con L’Italia politica nel secolo XIX (1925) e Croce con la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), in risposta all’Italia in cammino di Gioacchino Volpe (1927). Salvemini, pur non negando le ristrette basi sociali del regime liberale, fu fermo nel sottolineare che quella liberal-cavouriana era stata l’unica soluzione possibile nel 1861. Croce a sua volta sostenne che nei primi cinquant’anni di vita lo Stato italiano, pur con tutti i suoi difetti e carenze, era stato in grado di assicurare alla società un progresso ininterrotto in tutti i campi e a tutti i livelli, promuovendo un coinvolgimento sempre più ampio della popolazione nella vita politica del Paese, fino alla concessione del suffragio universale maschile. Il fascismo non poteva essere dunque ricondotto al 1861, ma le sue cause andavano ricercate tutte nella radicalità della crisi del dopoguerra. Omodeo criticò decisamente anche la storiografia sabaudista. Egli coglieva il vasto e complesso articolarsi del movimento nazionale italiano come grande momento della storia europea, ma non solo e non tanto sul piano diplomatico, bensì anche e soprattutto su quello culturale e civile. Contro la rivalutazione strumentale di sovrani, ministri e intellettuali che in realtà al Risorgimento avevano dato un apporto limitato e spesso nullo, Omodeo tornò a sottolineare l’importanza decisiva del ruolo di Mazzini e Cavour, che egli vedeva in dialettica complementare nella trasformazione del mito unitario in coscienza politica collettiva e poi in realtà storica concreta (Mazzini e Cavour, 1935; L’opera politica del conte di Cavour, 1940). Anche Luigi Salvatorelli, respinse l’interpretazione sabaudista perché, riducendo tutto al semplice fatto materiale delle annessioni essa, oltre a non spiegare molti avvenimenti che si svolsero al di fuori e contro la politica dei Savoia, negava l’importanza dell’elemento nazional-popolare e spirituale del Risorgimento. D’altro canto anche l’interpretazione nazionalista, vedendolo come un processo del tutto autoctono, non coglieva l’aspirazione europea del Risorgimento, che aveva cercato invece di ricondurre la penisola nel cerchio di quella civiltà della quale sino al Rinascimento aveva detenuto il primato e dalla quale si era appartata durante i secoli della decadenza, quando la politica si era ridotta a ragion di Stato, la cultura a erudizione, la religiosità a puro rito (Pensiero e azione del Risorgimento, 1943).
Con la fine della Seconda guerra mondiale, la caduta del regime fascista e della monarchia sabauda, la crisi dei partiti risorgimentali e l’assunzione della direzione del Paese da parte di forze cattoliche e socialiste che al Risorgimento o non avevano partecipato o avevano preso parte in posizione subordinata e marginale, riprese forza la tendenza a collegare il disastro del fascismo alle tare storiche dello Stato liberale. Una posizione di primo piano assunse dal 1949 l’interpretazione che Gramsci aveva dato del Risorgimento nei suoi Quaderni del carcere (Il Risorgimento). Egli individuava la causa del prevalere della soluzione moderata – che aveva significato l’instaurazione nel Paese di un regime a ristretta partecipazione popolare, il permanere di forti squilibri sociali e territoriali, il lento e distorto sviluppo del capitalismo italiano – nell’incapacità del Partito d’azione mazziniano di porre al centro del proprio programma la questione agraria e di perseguire una politica rivoluzionaria che coinvolgesse le masse contadine mediante la proposta della creazione di una piccola proprietà a conduzione familiare sul modello giacobino francese. Sulle stesse posizioni si collocava nel 1947 anche Emilio Sereni (Il capitalismo nelle campagne). La svalutazione della costruzione unitaria in quanto operazione di natura liberal-moderata e conservatrice fu inoltre proposta negli anni Cinquanta anche dalle opere di Denis Mack Smith e in particolare dalla sua Storia d’Italia dal 1861 al 1958, uscita proprio a ridosso della celebrazione del centenario dell’unità. Essa rappresentò un cambiamento radicale dell’atteggiamento della storiografia di Bolton King, William Keith Hancock, Arthur Whyte, George M. Trevelyan, che avevano sempre guardato positivamente al Risorgimento e allo Stato unitario italiano. Mack Smith non solo ricondusse le cause dell’avvento del fascismo alla nascita stessa dello Stato unitario, ma delineò una storia del Risorgimento e dello Stato liberale praticamente priva, nelle sue componenti fondamentali, di qualunque aspetto positivo. La storiografia cattolica si divise tra la visione di Arturo Carlo Jemolo, complessivamente positiva sul Risorgimento in virtù del rapporto che in esso avevano infine trovato Stato e Chiesa, e quella decisamente critica di Mario Romani e degli eredi dell’integralismo cattolico ottocentesco.
La cultura liberal-crociana rispose in modo sistematico alle tesi gramsciane nel 1956-59 con i saggi raccolti in Risorgimento e capitalismo di Rosario Romeo. Romeo sostenne che, pur essendo i contadini in larga parte mobilitabili su un obiettivo come quello della spartizione delle terre, restava da dimostrare che le potenze europee, già così diffidenti nell’accettare un progetto politico liberal-moderato come quello cavouriano-sabaudo, avrebbero consentito un processo di unificazione della penisola che includesse come parte integrante una rivoluzione sociale tanto profonda come quella prefigurata da Gramsci. Per quel che riguarda poi la pretesa di superiore funzionalità che una piccola proprietà coltivatrice avrebbe potuto avere sullo sviluppo capitalistico, Romeo, richiamandosi allo stesso Marx e agli studi di Georges Lefebvre, rilevò che in Francia la piccola proprietà contadina aveva costituito un fattore di rallentamento anziché di stimolo allo sviluppo del capitalismo in genere e di quello industriale in particolare, segregando una massa enorme di potenziali consumatori e prestatori d’opera dal mercato e consolidando una struttura della proprietà che, pur avendo garantito nell’immediato un modesto miglioramento dei redditi contadini, causò sul medio periodo una stagnazione tecnica e produttiva protrattasi per tutta la prima metà del 19° secolo. Una rivoluzione agraria in Italia avrebbe travolto non solo la grande proprietà feudale, ma anche quelle forme di più avanzata organizzazione economica, esistenti in larga parte del Nord e del Centro della penisola, che erano state in grado di assicurare livelli di accumulazione di capitale decisamente superiori a quelli della piccola proprietà contadina, consentendo un cospicuo trasferimento di capitali agricoli alle infrastrutture e ai servizi funzionali allo sviluppo urbano e industriale. Secondo Romeo l’accumulazione di capitale realizzata mediante un contenimento dei consumi e gli investimenti in infrastrutture promossi dallo Stato nel periodo 1861-87 ebbe un ruolo decisivo ai fini dello sviluppo industriale di un Paese come l’Italia, privo di colonie, emarginato dai grandi circuiti dell’intermediazione mercantile internazionale, povero di quelle materie prime che avevano consentito all’Inghilterra e ad altri Stati europei di costruire il loro poderoso apparato di industrie pesanti e di base. I dati ufficiali sulla produzione agraria, sui consumi, sui risparmi e sugli investimenti, gli indici della produzione industriale e altri indicatori, pur tra incertezze e dubbi di vario tipo, peraltro in gran parte dissipati da successive ricerche, provavano la validità dell’interpretazione di Romeo e il fondamentale ruolo propulsivo svolto dallo Stato liberale nel creare le condizioni per avviare in modo irreversibile uno sviluppo industriale che nel corso del 20° sec. sarebbe divenuto uno dei più importanti su scala planetaria (Breve storia della grande industria in Italia. 1861-1961). Gli scritti di Romeo aprirono un dibattito vivacissimo che giunse a un punto decisamente conclusivo nel 1986 con l’uscita dell’11° e ultimo volume della Storia dell’Italia moderna di Giorgio Candeloro. In esso l’autore correggeva esplicitamente le sue pluridecennali posizioni filogramsciane e ammetteva che la rivoluzione agraria auspicata da Gramsci e Sereni sarebbe stata a metà Ottocento se non impossibile, certo deludente per gli stessi contadini. Da allora la storiografia marxista e di sinistra ha rivalutato sensibilmente la portata storica del processo di unificazione nazionale avvicinandosi sin quasi a identificarsi con le posizioni della storiografia liberaldemocratica, che con Romeo aveva indicato l’unità d’Italia come un evento di portata storica di natura eminentemente etico-politica, rilevante sia a livello nazionale sia a livello continentale, frutto dell’azione congiunta del movimento nazionale e dello Stato sabaudo, strumento fondamentale per il superamento dell’arretratezza economica e della stagnazione che da secoli affliggeva la penisola e per la partecipazione di essa ai valori più progrediti e alle conquiste più alte della civiltà occidentale.
Dopo di allora solo i lavori di Gilles Pécout, Jean-Yves Frétigné e Alberto Mario Banti hanno svolto un’azione altamente qualificata al fine di documentare e misurare la forza e la portata di massa del movimento nazionale. Tuttavia, proprio mentre ciò accadeva, sul piano della vulgata giornalistica il tema dell’unità nazionale diveniva preda di incursioni senza alcun serio fondamento scientifico, in alcuni casi addirittura prive delle più elementari conoscenze dell’enorme dibattito svolto sui temi risorgimentali da grandi storici che non possono essere sottovalutati o peggio ignorati a cuor leggero. Hanno preso a impazzare «revisioni», spesso spacciate per nuove e originali scoperte, di fenomeni come la liberazione garibaldina e piemontese del Sud, giudicate brutale conquista attraverso la lente della repressione dei moti di Bronte e del brigantaggio postunitario, o recuperi rocamboleschi e impossibili della dinastia borbonica. A tutto ciò fanno eco operazioni demolitrici della storia nazionale italiana ospitate da case editrici importanti, a opera degli ultimi epigoni di Mack Smith, che continuano a fornire visioni totalmente negative non solo del Risorgimento, ma dell’intera storia nazionale e della vita civile dell’Italia moderna. Ma tutto ciò non spiega e tanto meno riesce a cancellare la realtà della storia di una nazione che è arrivata a inserirsi, grazie al Risorgimento e allo Stato unitario, tra le dieci e le dodici più sviluppate del mondo.
Si veda anche Risorgimento