Abstract
Oggetto di esame è l’istituto dell’interrogatorio delle parti nel processo civile. Il codice di procedura civile prevede due tipi di interrogatorio, quello formale (art. 230 c.p.c.), risalente a un’antica tradizione, e quello non formale (o libero), introdotto dal codice del 1940 (art. 117 c.p.c.) e variamente regolato da alcune riforme quanto al suo espletamento nella prima udienza (artt. 183 e 185 c.p.c.). Il lavoro analizza la disciplina positiva e i profili di criticità dei due interrogatori, ponendo in evidenza la diversità che li contraddistingue sul piano dell’iniziativa, delle modalità di svolgimento e della funzione.
L’interrogatorio delle parti può essere di due tipi: formale e non formale (o libero). Il primo presuppone l’iniziativa della parte e verte su fatti previamente dedotti in capitoli specifici e separati (art. 230 c.p.c.); il secondo è disposto d’ufficio in ogni stato e grado del processo (art. 117 c.p.c.) o su istanza concorde delle parti (art. 185, co. 1, c.p.c.) e si svolge “liberamente”, nel senso che il giudice può rivolgere alle parti qualsiasi domanda inerente ai fatti di causa.
L’interrogatorio formale ricalca l’istituto regolato dal c.p.c. del 1865 e affonda le sue radici nelle antiche positiones del diritto medievale. L’interrogatorio libero, invece, è stato introdotto dal c.p.c. del 1940 e successivamente variamente disciplinato dal legislatore, il quale dapprima con la riforma del 1973 lo ha reso obbligatorio in limine di tutte le cause di lavoro, poi con la riforma del 1990 ha esteso l’obbligatorietà a tutte le cause civili. Tuttavia, nella prima udienza del processo ordinario di cognizione, l’interrogatorio ha avuto assai poca fortuna, rivelandosi il più delle volte un mero passaggio formale privo di ogni concreta utilità, tant’è che l’obbligatorietà ex lege è stata soppressa dalle successive leggi 14.5.2005, n. 80 e 28.12.2005, 263, le quali, nel riformarne nuovamente la disciplina, hanno stabilito che nella prima udienza il giudice interroghi le parti d’ufficio ex art. 117 c.p.c. o su loro richiesta congiunta. (art. 185, co. 1, c.p.c.). Va comunque precisato che gli interventi legislativi sull’interrogatorio libero hanno riguardato sempre e soltanto la disciplina dell’interrogatorio da espletare alla prima udienza, ma non hanno mai inciso direttamente sulla iniziale regolamentazione contenuta nell’art. 117 c.p.c., diposizione che, dal 1940 a oggi, è rimasta del tutto immutata.
L’interrogatorio formale, in conformità a quanto previsto dall’art. 115 c.p.c., non può essere disposto d’ufficio, ma (eccezion fatta per le cause di lavoro, in cui opera l’opposta regola stabilita dall’art. 421, co. 2, c.p.c.) presuppone sempre un’iniziativa della parte, la quale, nell’osservanza dei termini stabiliti per le preclusioni istruttorie, deve chiedere al giudice di poter interrogare la controparte su fatti previamente dedotti per articoli specifici e separati. L’indicazione dei fatti da parte dell’istante assolve la finalità di consentire al giudice di valutare l’ammissibilità e la rilevanza dell’interrogatorio e di tutelare l’interrogato in considerazione delle conseguenze pregiudizievoli che gli potrebbero derivare dalle risposte. Infatti, le particolari cautele che caratterizzano la disciplina positiva dell’interrogatorio formale si spiegano con la finalità dell’istituto, che è tradizionalmente considerato come il mezzo istruttorio preordinato a provocare la confessione della parte, ossia una dichiarazione a sé sfavorevole e favorevole alla controparte con efficacia di piena prova a danno di colui che l’ha resa (artt. 2730 e 2733, co. 2, c.c.).
Il giudice, previa valutazione di ammissibilità e rilevanza, dispone l’interrogatorio con un’ordinanza, che deve contenere l’indicazione dei modi e dei termini dell’assunzione e che, a norma dell’art. 292, co. 1, c.p.c., deve essere notificata personalmente al contumace. La legge tace sull’esistenza di eventuali limiti all’ammissibilità dell’interrogatorio formale, in particolare per quanto concerne la possibilità che esso verta su fatti relativi a diritti indisponibili. In difetto di un’espressa previsione, non sembra esservi motivo per negare la possibilità che l’interrogatorio abbia ad oggetto tali fatti, con la precisazione però che, come si ricava dagli artt. 2731 e 2733 c.c., l’eventuale dichiarazione contra se resa dall’interrogando non può avere efficacia di piena prova, ma è valutata in base al principio del libero apprezzamento del giudice.
L’assunzione dell’interrogatorio avviene nei modi e nei termini dell’ordinanza che lo ammette. Se resa fuori udienza, l’ordinanza va comunicata alle parti costituite con le modalità ordinarie. In sede di interrogatorio, il giudice non può formulare domande su fatti diversi da quelli dedotti nei capitoli, ad eccezione di quelle su cui le parti concordano e che egli stesso ritenga utili; può invece sempre chiedere i chiarimenti opportuni in ordine alle risposte rese dalla parte interrogata (art. 230 c.p.c.). La parte deve rispondere personalmente (senza possibilità di farsi rappresentare da un procuratore ad hoc, come invece le è consentito in sede di interrogatorio non formale) e non può servirsi di scritti preparati se non in ipotesi particolari e previa autorizzazione del giudice (art. 231 c.p.c.). E ciò, a garanzia della spontaneità delle risposte, che però nella realtà applicativa è assai difficile da assicurare perché la conoscenza anticipata delle domande implica che la parte giunga dinanzi al giudice ben preparata sulle risposte da dare, con la conseguenza che, non essendo tenuta a un obbligo di verità e stante il principio nemo tenetur se detegere, accade assai di rado che essa confessi.
Quanto ai possibili esiti dell’interpello, vanno distinte varie eventualità. Se la parte compare e riconosce la verità dei fatti a sé sfavorevoli e favorevoli alla controparte l’interrogatorio formale ha raggiunto il suo scopo e si ha una vera e propria confessione: a) con efficacia di prova legale, se la dichiarazione è resa da persona capace di disporre del diritto e su fatti relativi a diritti disponibili; b) rimessa al libero apprezzamento del giudice, in mancanza della disponibilità soggettiva o oggettiva del diritto, ovvero nel caso di contra se declaratio resa, come prescrive l’art. 2733, co. 3, c.c., da uno o alcuni dei litisconsorti necessari.
È possibile anche che la parte renda una confessione complessa o qualificata ex art. 2734 c.c., ossia che confessi la verità del fatto contra se, ma aggiunga dichiarazioni su fatti e circostanze a sé favorevoli, che infirmano l’efficacia del fatto confessato ovvero ne modificano o estinguono gli effetti, togliendo ogni valore alla confessione. In tal caso, la confessione non può essere divisa in danno di chi l’ha resa, ma deve essere valutata nella sua totalità, sicché l’efficacia dipende dal comportamento della controparte. Infatti, a norma dell’art. 2734 c.c., se l’altra parte non contesta i fatti o le circostanze pro se aggiunte alla confessione, le dichiarazioni rese fanno piena prova nella loro integrità; in caso contrario, è rimesso al giudice di apprezzare secondo le circostanze la loro efficacia probatoria.
Il più delle volte, l’esito dell’interrogatorio consiste nella negazione della verità dei fatti dedotti dall’istante, ossia in una dichiarazione favorevole alla parte interrogata priva di qualsiasi rilevanza probatoria. Ecco perché nella realtà applicativa l’istituto, anziché rivelarsi utile sul piano istruttorio, come mezzo per conseguire una dichiarazione confessoria, finisce per assolvere la differente finalità di provocare la parte a prendere posizione su fatti specifici e previamente determinati dall’avversario, concorrendo a chiarire e definire i confini delle contestazioni.
Infine, può accadere che la parte, senza giustificato motivo, non compaia a rendere l’interrogatorio o comparendo non risponda alle domande del giudice. L’assenza ingiustificata o la mancata risposta, un tempo denominata ficta confessio, è espressamente regolata dall’art. 232, co. 1, c.p.c., secondo cui, in tal caso, il collegio (rectius, il giudice della decisione), valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio. Il termine «ammissione» e l’inciso «valutato ogni altro elemento di prova» rendono incerti il significato e la portata della disposizione. In giurisprudenza, prevale la tesi secondo cui la mancata comparizione o la mancata risposta, se non suffragata da altri elementi di prova, ha un valore meramente indiziario o di semplice argomento di prova, risultando ex se priva di qualsiasi portata decisiva (Cass., 6.8.2014, n. 17719; Cass., 26.4.2013, n. 10099; Cass., 10.3.2006, n. 5240; Cass., 22.7.2005, n. 15389). In dottrina, invece, si è prevalentemente concordi nell’inquadrare il comportamento della parte tra le prove rimesse al prudente apprezzamento del giudice, in quanto trattasi di un contegno qualificato e regolato da una norma apposita, la cui previsione non avrebbe alcun senso se alla mancata risposta si attribuisse il medesimo valore del generico comportamento processuale della parte ex art. 116, co. 2, c.p.c. Nel caso invece in cui la parte deduca un giustificato motivo, l’assenza non può dar luogo ad alcuna conseguenza sfavorevole, fermo restando il potere del giudice di rinviare ad altra udienza l’espletamento dell’interpello oppure di disporre per l’assunzione al di fuori della sede giudiziaria (art. 232, co. 2, c.p.c.).
L’art. 117 c.p.c. stabilisce che «il giudice, in qualunque stato e grado del processo, ha facoltà di ordinare la comparizione personale delle parti in contraddittorio tra loro per interrogarle liberamente sui fatti della causa. Le parti possono farsi assistere dal difensore». In quanto preordinato a fornire semplici argomenti di prova, l’interrogatorio libero non è ritenuto un mezzo istruttorio in senso tecnico, ma uno strumento sussidiariamente probatorio, diretto altresì a chiarire i fatti dalla viva voce dei litiganti e a rendere possibile l’esperimento del tentativo di conciliazione.
Il potere di disporre l’interrogatorio libero ha natura discrezionale, con la conseguenza che il giudice può convocare personalmente le parti per interrogarle liberamente ogni qualvolta lo ritenga opportuno. L’esercizio (positivo o negativo) di siffatto potere è del tutto insindacabile ed è sottratto a qualsiasi controllo di legittimità. Un altro aspetto caratterizzante del potere del giudice di interrogare le parti è la discrezionalità nel quando: il riferimento ad «ogni stato e grado» del processo implica che il giudice possa disporre l’interrogatorio non soltanto nel corso del giudizio di primo grado, ma anche in fase di impugnazione e nel giudizio di rinvio. Infine, quanto alle modalità di svolgimento, l’art. 117 c.p.c. si limita a stabilire che la comparizione personale va ordinata nel contraddittorio tra le parti (il che, però, non impedisce al giudice, nel caso di assenza di una parte, di interrogare quella che sia comparsa) e che il giudice interroga liberamente i litiganti sui fatti della causa, cioè a dire, il giudice può spaziare tra i fatti e le circostanze di causa senza alcun limite alle domande formulabili (Cass., 2.7.2009, n. 15502).
L’ampiezza del potere di interrogare liberamente le parti incontra un’unica limitazione ex post nell’efficacia probatoria delle risposte: infatti, per un verso, l’art. 229 c.p.c. esclude che la contra se declaratio resa nel corso dell’interrogatorio libero possa avere il valore pienprobante della confessione; e, per l’altro, l’art. 116 c.p.c. consente di desumere dalle risposte meri argomenti di prova, inidonei ex se, a differenza delle vere e proprie prove, a fondare la decisione del giudice.
Ad onta di tale previsione, però, la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che la contra se declaratio resa in sede d’interrogatorio libero ben può costituire il fondamento anche unico del convincimento del giudice di merito (Cass., 29.12.2014, n. 27407; Cass., 1°.10.2014, n. 20736; Cass., 1.7.2005, n. 15019; Cass., 2.4.2004, n. 6510). Se ne deve dedurre che l’idea originaria di un interrogatorio in cui la parte dialoga e risponde alle libere domande del giudice senza riceverne alcun pregiudizio non ha più alcun riscontro nella realtà applicativa. Inoltre, se la risposta contra se, lungi dall’essere valutata come semplice argomento di prova, insufficiente ex se a fondare la decisione, ben può avere per la giurisprudenza un rilievo determinante sul convincimento del giudice, non sembra più sostenibile quel che, sulla scia della Relazione al re (§§ 18 e 29), si è propugnato per anni, vale a dire che l’interrogatorio libero è previsto unicamente nell’interesse della parte e non le si può mai ritorcere contro.
Stando così le cose, l’art. 117 c.p.c., nell’attribuire al giudice il potere di condurre l’interrogatorio senza fissare alcun limite o regola nella formulazione delle domande che possono essere rivolte alle parti, può rivelarsi uno strumento estremamente incisivo ed invasivo nella ricerca della cd. verità materiale. Di qui le perplessità sollevate dalla mancanza di regole chiare e predefinite sui limiti e sul quomodo dell’interrogatorio libero, la cui disciplina appare del tutto inidonea a garantire le parti dal pericolo di abusi o distorsioni.
La riforma del 1990, sulla scia del processo del lavoro, aveva previsto l’obbligatorietà dell’interrogatorio libero anche in limine del processo ordinario di cognizione, ma sta di fatto che l’idea dei conditores del 1990 di rivitalizzare l’istituto rendendolo obbligatorio non si è rivelata molto felice. Non è un caso, quindi, che il legislatore del 2005 abbia soppresso l’obbligatorietà.
L’art. 185, co. 1, c.p.c. stabilisce che l’interrogatorio libero in limine litis, oltre che d’ufficio ex art. 117 c.p.c., può aver luogo anche su richiesta congiunta delle parti. Al tal fine, a norma dell’art. 183, co. 3, c.p.c., il giudice fissa una nuova udienza.
La richiesta deve provenire dalle parti costituite per il tramite dei loro difensori. Se il processo si svolge soltanto tra due parti l’aggettivo «congiunta» implica ovviamente che la richiesta debba essere formulata da entrambe; viceversa, nel processo con pluralità di parti, occorre distinguere: nel caso di litisconsorzio necessario la formula dell’art. 185 c.p.c. va intesa nel senso che l’istanza deve essere presentata da tutti i litisconsorti; nel caso invece di litisconsorzio facoltativo è sufficiente che la richiesta provenga da tutte e soltanto le parti della singola causa.
Lo spostamento, operato dalla riforma del 2005, della disciplina dell’istituto dall’art. 183 c.p.c., relativo alla prima udienza di trattazione, all’art. 185 c.p.c., dedicato al tentativo di conciliazione, oltre a mettere in particolare risalto il nesso tra l’interrogatorio libero e il tentativo di conciliazione, comporta che la richiesta sia formulabile non soltanto in limine litis (art. 183, co. 3, c.p.c.), ma anche nell’ulteriore corso del processo di primo grado, più precisamente sino a che il giudice non si sia riservato per la decisione o non abbia rimesso la causa al collegio. Se i litiganti chiedono congiuntamente l’interpello, il giudice è vincolato da tale richiesta; tuttavia, qualora, pur avendone il dovere, non fissi l’udienza di comparizione o, avendola fissata, non provveda ad interrogare le parti presenti, l’omissione determina una mera irregolarità, dal momento che non è prevista alcuna sanzione.
Le parti possono farsi rappresentare in sede d’interrogatorio libero da un procuratore generale o speciale che sia a conoscenza dei fatti della causa: a tal fine è necessaria un’apposita procura che, conferita con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, deve attribuire al rappresentante il potere di conciliare o transigere la controversia; se la procura è conferita con scrittura privata, questa può essere autenticata anche dal difensore della parte. La mancata conoscenza dei fatti da parte del procuratore costituisce un argomento di prova (art. 185, co. 1, c.p.c.).
Nel processo del lavoro l’interrogatorio libero si caratterizza per essere un adempimento obbligatorio da espletare come prima attività dell’udienza di discussione. In ragione delle caratteristiche di oralità, concentrazione e immediatezza che contraddistinguono il processo del lavoro, la finalità dell’interrogatorio consiste nel chiarire i fatti di causa, definendo i confini delle contestazioni, e nel favorire il tentativo di conciliazione.
L’art. 420 c.p.c. prevede che nell’udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti (che hanno l’obbligo di comparire personalmente ex art. 415, co. 2, c.p.c.) e tenta la conciliazione della lite. Le parti possono farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale che sia a conoscenza dei fatti di causa. La procura deve essere conferita con atto pubblico o con scrittura privata autenticata e deve attribuire al rappresentante il potere di conciliare o transigere la controversia (art. 420, co. 2, c.p.c.). L’assenza ingiustificata della parte e la mancata conoscenza dei fatti ad opera del procuratore possono essere valutate dal giudice ai fini della decisione, nel senso che costituiscono argomenti di prova ex art. 116, co. 2, c.p.c.
Condizione necessaria per l’espletamento dell’interrogatorio è la comparizione personale delle parti (o di almeno una di esse), giacché, in loro assenza, l’interrogatorio, ad onta della sua “obbligatorietà”, non potrà aver luogo. Inoltre, secondo il costante e consolidato orientamento della Cassazione, l’omissione dell’interrogatorio libero da parte del giudice, non è causa di nullità del processo o della sentenza, ma costituisce una mera irregolarità del tutto priva di conseguenze (Cass., 18.8.2004, n. 16141; Cass., 20.6.2003, n. 9908). In dottrina si è sostenuto che il surrichiamato orientamento giurisprudenziale favorirebbe una prassi “lassista”, in quanto i giudici di merito si sentirebbero così autorizzati a non effettuare l’interrogatorio libero. Ma è forse il caso di riconoscere che ricollegare al mancato espletamento dell’interrogatorio la nullità del processo e della sentenza, senza che essa sia prevista ex lege, oltre ad apparire del tutto ingiustificato, finirebbe per penalizzare oltre modo le incolpevoli parti e specialmente la parte bisognosa di tutela in tempi rapidi.
Artt. 116, 117, 183, 185, 228, 229, 230, 232, 292, 415, 420, 421 c.p.c.; artt. 2730, 2731, 2733, 2734 c.c.
Andrioli, V., Interrogatorio, in N. D.I., X, Torino, 1938, 76 ss.; Cappelletti, M., La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, I e II, Milano, 1962; Ferri, C., Interrogatorio, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, 1 ss.; Laserra, G., Interrogatorio, in Nss. D.I., VIII, Torino, 1962, 914 ss.; Reali, G., L’interrogatorio delle parti nel processo civile, Cacucci, Bari, 2009; Taruffo, M., Interrogatorio, in Dig. civ., X, Torino, 1993, 57 ss.; Vaccarella, R., Interrogatorio, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 353 ss.