interrogazione retorica
. Interrogazione alla quale non si attende una risposta, o nella quale la risposta è implicita e ovvia. Nella retorica classica essa costituiva uno schema adoperato soprattutto per incalzare l'avversario rivolgendogli una serie di domande fittizie intorno a ciò che risultava palese o non si poteva negare (cfr. Quintiliano Instit. IX II 7). L'i.r. costituì tuttavia uno dei procedimenti più comuni della sofistica, passò nell'eloquenza cristiana e fu largamente impiegata nella dialettica del linguaggio scolastico. D. usa questo schema soprattutto nella Commedia, dove esso assume una notevole varietà di funzioni. La classica i.r. s'intravvede nei luoghi in cui essa concorre all'improperio e alla rampogna, come in Pg XIV 112-113 (O Bretinoro, ché non fuggi via...?), 86-87 (o gente umana, perché poni 'l core / là 'v'è mestier di consorte divieto?), e, con un'inflessione gnomica, in Pg X 124 ss. (non v'accorgete voi che noi siam vermi...?), e XI 103 ss. (Che voce avrai tu più, se vecchia scindi / da te la carne...?). L'i.r. si collega naturalmente in questi casi con l'apostrofe (v.), come avviene specialmente dove essa contribuisce a rinvigorire il tono del lamento e dell'implorazione: " O Iacopo ", dicea, " da Santo Andrea, / che t'è giovato di me fare schermo...? " (If XIII 133-135); " Padre mio, ché non m'aiuti? " (XXXIII 69); ahi dura terra, perché non t'apristi? (v. 66).
Un fittizio rimprovero, che nasconde un atteggiamento di disperazione, assume la forma interrogativa nell'ultimo caso citato, come nei seguenti, dove la risposta, più che essere ovvia, è inconcepibile: Cesare mio, perché non m'accompagne? (Pg VI 114); son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? (v. 120); o difesa di Dio, perché pur giaci? (Pd XXVII 57). Talora la forma interrogativa rientra nel metodo dell'amplificazione, non essendo che lo sviluppo di una locuzione negativa: Ov'è il buon Lizio...? (Pg XIV 97-98); Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?... (v. 100 ss.); Quai barbare fuor mai, guai saracine, / cui bisognasse, per farle ir coperte, o spiritali / o altre discipline? (XXIII 103); Come saranno a' giusti preghi sorde / quelle sustanze...? (Pd XV 7). L'i. r. equivale ancora a una negazione e contribuisce a rafforzare l'espressione in luoghi come Pg III 5-6 (E come sare' io santa lui corso? / chi m'avria tratto su per la montagna?), IV 135 (l'altra che val, che 'n ciel non è udita?), e VIII 122 (ma dove si dimora / per tutta Europa ch'ei non sien palesi?). In altri casi predomina il tono esortativo e l'i. r. attribuisce particolare enfasi alla locuzione: ché non soccorri quei che t'amò tanto? (If II 104); Non ti rimembra di quelle parole...? (XI 79 ss.); Perché pur diffidi? / ... non credi tu me teco e ch'io ti guidi? (Pg III 22-24); esprime la meraviglia (Chi crederebbe giù nel mondo errante / che Rifëo Troiano...?, Pd XX 67 ss.), o l'ironia (Or fu già mai /gente sì vana come la sanese?, If XXIX 121; O frate, andar in sù che porta?, Pg IV 127). Talora l'i. r. rivela il tono colloquiale del narratore: Che potea io ridir, se non " Io vegno " ? (Pg V 19).
Anche una funzione raziocinativa assume l'i.r. nella Commedia, sia che concluda un esempio dimostrativo, evidenziando la difficoltà di ordine razionale che ne risulta (ov'è questa giustizia che 'l condanna? / ov'è la colpa sua, se ei non crede?, Pd XIX 77-78), sia che suggerisca la conseguenza di un'argomentazione sillogistica: Come verrò, se tu paventi / che suoli al mio dubbiare esser conforto? (If IV 17-18).