Intervista
di Roberto Fideli
L'intervista è lo strumento di raccolta delle informazioni più diffuso nelle scienze sociali: secondo alcune stime addirittura il 90% delle ricerche sociali si avvale di informazioni raccolte mediante interviste (v. Brenner, 1980, p. 115; v. Kahn e Cannell, 1968, p. 149).L'intervista è diventata anche un importante oggetto di studio: negli anni sessanta e settanta sono comparse oltre 1.200 pubblicazioni sul tema (v. Trentini, Manuale..., 1980, p. XXV); in particolare fra gli studiosi che hanno raccolto l'eredità dell'interazionismo simbolico si è manifestata la consapevolezza che l'intervista costituisce non solo lo strumento principe delle scienze sociali, ma un oggetto di analisi degno in se stesso di attenzione e di approfondimento critico (v., ad esempio, Benney e Hughes, 1956; v. Cicourel, 1964 e 1974; v. Briggs, 1986).
Il termine 'intervista' deriva dall'inglese interview che, a sua volta, è un calco del francese entrevue, participio passato del verbo entrevoir, intravedere. Come molti altri termini, tra i quali 'classificazione', 'misurazione', 'osservazione', 'scienza', esso designa sia un'attività, un processo, sia il prodotto di quell'attività (gli inglesi parlano in questi casi di process-product equivocation). Non necessariamente a un'intervista-processo corrisponde un'intervista-prodotto; in ambito antropologico, il ricercatore-intervistatore può anche interrogare un informatore senza registrare affatto (se non mentalmente) le sue risposte. Peraltro, le definizioni di intervista si focalizzano in genere sulla prima delle due accezioni (v. § 1c).
Intesa come attività e nella sua accezione più ampia, l'intervista costituisce "una forma di conversazione nella quale due persone (e di recente più di due) s'impegnano in un'interazione verbale e non verbale nell'intento di raggiungere una meta precedentemente definita" (cfr. Matarazzo e Wiens, cit. in Trentini, Tassonomia..., 1980, p. 3). Questa meta si può considerare di natura genericamente cognitiva. Naturalmente, interazioni a fini cognitivi sono presenti anche al di fuori dell'attività scientifica, nella vita quotidiana. Secondo l'antropologo Briggs (v., 1986, p. 1), nelle società occidentali "la capacità di svolgere il ruolo di intervistati influenza [le probabilità di] successo nell'istruzione e nella professione".
Pur non trascurando l'influenza che la diffusione dell'intervista nella vita quotidiana e la conseguente socializzazione nel ruolo di intervistati (o esaminati) esercitano sulle ricerche sociali, si limiterà questa analisi alle interviste che si svolgono nel quadro di una ricerca. Questa scelta non implica peraltro riserve nei confronti delle interviste eseguite a fini diversi dalla ricerca scientifica.
Molti degli strumenti di raccolta delle informazioni nelle scienze umane prevedono qualche forma di comunicazione verbale tra ricercatore/i e soggetto/i studiato/i. Ricomprendere tutte queste forme di interazione sotto la comune etichetta di 'intervista' appare inopportuno.
Ad esempio, in un test psicologico si "richiede [...] al soggetto una performance, cioè una dimostrazione delle sue capacità, intellettive o pratiche" (v. Pitrone, 1984, p. 14). L'intervista intende invece rilevare delle situazioni personali, dei comportamenti, delle opinioni/atteggiamenti - che di per sé non possono essere considerati giusti o sbagliati (v. Verba, 1969, p. 68). Essa non dovrebbe essere percepita come un esame dagli stessi soggetti intervistati, anche se ciò può talvolta accadere, magari per colpa dei ricercatori.
Inoltre nell'intervista non si ha in alcun modo l'intenzione (come invece in un colloquio psichiatrico) di modificare opinioni, atteggiamenti o - tanto meno - comportamenti dei soggetti studiati. Infatti, sebbene "un'intervista ben condotta [accresca] la consapevolezza dell'individuo su alcuni aspetti di se stesso e del suo rapporto con l'ambiente [essa] non nasce di solito da una richiesta del soggetto, [...] e [...] il suo fine va al di là del rapporto col soggetto medesimo, in quanto parte dall'esigenza di raccogliere informazioni la cui utilità si collega ai fini della ricerca" (v. Borsatti e Cesa-Bianchi, 1980, p. 18). Pertanto, se sono i soggetti stessi ad aver "voluto e chiesto il contatto, si parla più propriamente di colloquio", anziché di intervista (v. Trentini, Tassonomia..., 1980, p. 7). Il colloquio (clinico) è quindi promosso dal soggetto e le sue finalità non sono solamente cognitive, ma anche terapeutiche.
L'intervista in quanto strumento delle scienze umane presenta dunque le seguenti caratteristiche: 1) ha come scopo la rilevazione di situazioni, comportamenti, atteggiamenti, opinioni e non la valutazione di capacità; 2) intende rilevare, non alterare, gli stati degli intervistati rispetto alle proprietà che interessano; 3) si svolge nel quadro di una ricerca, il che la distingue da quelle interviste che hanno carattere cognitivo ma si svolgono in altri contesti (ad esempio l'intervista giornalistica).
Poiché queste caratteristiche sono attribuibili anche al sondaggio in generale (v. Pitrone, 1984, p. 17), ne consegue una sovrapposizione semantica tra il concetto di intervista e quello di sondaggio?
Anzitutto, dato che un sondaggio può svolgersi anche mediante un questionario autoamministrato, tra il concetto di sondaggio e quello di sondaggio tramite intervista esiste un rapporto di genere a specie. Inoltre, il sondaggio tramite intervista è un macro-strumento costituito da un insieme complesso di attività: l'intervista costituisce solo un tipo di attività entro questo complesso. Il rapporto è quindi di parte a intero.
Una relazione analoga intercorre anche tra l'intervista e altri due macro-strumenti propri delle scienze umane: la raccolta di storie di vita e l'osservazione partecipante. Il primo è caratterizzato dal ricorso sia a interviste sia a documenti personali come i diari; il secondo implica di solito l'osservazione dei comportamenti, verbali e non verbali, in (eventuale) combinazione con interviste ai soggetti studiati. Secondo Schwartz e Jacobs (v., 1979; tr. it., p. 77), "l'osservazione partecipante, quando sia combinata con qualche tipo di intervista, offre un modo potenzialmente efficace per indagare la corrispondenza tra parole e comportamenti". Il ricorso, in ambito antropologico, all'uso combinato delle due tecniche (mera osservazione e intervista) deriva proprio dalla consapevolezza che, qualora il ricercatore non si sia precedentemente immerso nell'universo simbolico cui appartengono i soggetti studiati, l'intervista costituisca di per sé una fonte inaffidabile di informazioni (v. Becker e Geer, 1957).
Dopo aver delimitato l'intensione del concetto di intervista rispetto a quella di altri concetti, approfondiamo l'analisi dell'intensione in sé.L'intervista viene definita una "forma di interazione" (v. Benney e Hughes, 1956) o di "contatto sociale" (v. Gostkowski, 1974) che in quanto tale implica una "transazione di [...] informazioni" (v. Kahn e Cannell, 1968). Si può anche definire l'intervista un "evento comunicativo" (speech event: v. Briggs, 1986, p. 2), precisando che la comunicazione non è circoscritta ai soli aspetti verbali (in quanto include, oltre ai comportamenti linguistici e paralinguistici, anche quelli cinesici e prossemici degli individui coinvolti).
Nelle interviste telefoniche la comunicazione è esclusivamente verbale. Pertanto Lopez (v., 1965²), anche sulla base di considerazioni etimologiche, propone di escludere dall'estensione del concetto di intervista le comunicazioni telefoniche. La proposta solleva qualche riserva: è vero che i termini nascono in un certo contesto storico-culturale che tende a plasmarli, ma è inevitabile che nel corso del tempo l'intensione/estensione dei concetti che a essi si fanno corrispondere subiscano mutamenti. Tuttavia, assai raramente tali cambiamenti sono così bruschi e drastici da far avvertire la necessità di adottare un nuovo termine. Il termine 'intervista' è nato in un'epoca in cui il telefono era assai poco diffuso; quando le interviste telefoniche sono divenute fattibili, quello stesso termine è rimasto nell'uso, per designare un concetto dotato di una maggiore estensione. Considerando le caratteristiche dell'intervista enucleate nel confronto con altri strumenti di raccolta (v. § 1b), esistono, oltre al semplice riferimento all'uso, anche ragioni di carattere epistemologico per cui si può ritenere accettabile l'espressione 'intervista telefonica' (ad esempio, la finalità cognitiva e non terapeutica e le altre elencate sub § 1b).
Il carattere volontario può invece essere considerato un requisito fondamentale: l'intervistatore non dovrebbe in alcun modo costringere l'intervistato ad accettare l'intervista, né proporre compensi per la prestazione effettuata (v. Kahn e Cannell, 1968, p. 149; v. anche Hyman, 1973, p. 337).Se accettare o meno l'intervista dipende dalla volontà dell'intervistato, porla in essere dipende dall'organizzazione che promuove la ricerca: la fonte esogena (rispetto all'intervistato) dell'iniziativa costituisce uno dei tratti distintivi dell'intervista rispetto al colloquio (v. § 1b).
Secondo la norma metodologica correntemente impartita nei manuali di ispirazione comportamentista l'interazione dovrebbe svolgersi tra due soli attori. Infatti, la presenza di altri individui comporterebbe inevitabilmente una qualche loro influenza sull'intervistato e, in una certa misura, anche sull'intervistatore. Peraltro, numerosi psicologi ritengono inopportuna una restrizione numerica, come si evince dalla classificazione delle interviste in base alla struttura relazionale proposta da Trentini (v., Tassonomia..., 1980, pp. 33-39). Egli individua sette forme diverse di intervista: 'a due' (che comprende anche il colloquio), 'a tandem' (con due intervistatori), 'a panel' (davanti ad una commissione di esaminatori), 'in pubblico' (in cui la presenza di altri individui è accidentale), 'collettive' (in cui più individui sono intervistati simultaneamente dallo stesso intervistatore), 'in gruppo' (nelle quali si intende rilevare opinioni individuali, ma in un contesto che sia tale da condizionare queste opinioni, ad esempio intervistando un individuo alla presenza dei propri familiari), 'di gruppo' (nelle quali l'attenzione è interamente rivolta al gruppo, come negli psicodrammi). A parte i difetti logici di questa classificazione, ci pare opportuno sottolineare l'ampliamento eccessivo cui è soggetto il termine 'intervista', che viene esteso a fattispecie che è opportuno tener distinte, quali il test o il colloquio.
La diffusione di forme non tradizionali di intervista deriva probabilmente dalla preferenza accordata ai test e alle tecniche di carattere quasi-sperimentale, rispetto ai sondaggi, nelle ricerche di molti psicologi. In particolare, queste ricerche sono orientate alla ricostruzione, nel contesto artificiale dell'esperimento, delle dinamiche di gruppo piuttosto che alla registrazione di opinioni di carattere individuale. Un maggior rigore terminologico dovrebbe indurre, forse, a definire alcune pratiche (in particolare le interviste 'di gruppo' e 'in gruppo') come quasi-esperimenti; certamente non come interviste. Con queste ultime hanno infatti in comune solo la circostanza che esiste qualche forma di comunicazione verbale tra ricercatore e soggetti studiati.
Al contrario, alcune forme di interazione nelle quali viene ugualmente violato il canone, di matrice comportamentista, che prescrive la presenza di due soli attori (l'intervista 'in pubblico' e quella 'a tandem') possono essere legittimamente designate come interviste, tenendo peraltro conto, nella valutazione dei risultati, del fatto che la presenza di terzi influenza sempre in qualche modo (difficile da valutare) le risposte di un intervistato.Nell'intervista collettiva, la registrazione protocollare (l'intervista come prodotto) potrebbe essere indipendente per ciascun intervistato; ma, dato che le diverse interazioni intervistatore-intervistato tendono a sovrapporsi, ne può conseguire un'alterazione (di entità e direzione anch'esse difficili da valutare) delle risposte dei vari intervistati.Il requisito dell'indipendenza dei protocolli non è mai enunciato esplicitamente in letteratura, probabilmente anche a causa della scarsa attenzione dedicata alla distinzione tra le due possibili accezioni del termine 'intervista' (attività e prodotto: v. § 1a). Esso non viene soddisfatto in molti studi su particolari comunità di ispirazione antropologica, nei quali, specie nelle fasi iniziali della ricerca, si ricorre contemporaneamente a una pluralità di informatori per rilevare proprietà individuali e di gruppo.
L'estraneità tra i due attori, intervistatore e intervistato, è un requisito che alcuni autori considerano esplicitamente (v. Gostkowski, 1974, p. 12; v. anche Briggs, 1986, p. 198). Ciò implicherebbe una differenza sostanziale rispetto all'uso dell'intervista in una ricerca basata sull'osservazione (soprattutto se partecipante), nella quale, in genere, l'osservatore e i soggetti osservati sono inseriti in una trama di rapporti interpersonali che precede il momento dell'intervista. Proprio la difficoltà insita nel comunicare a un intervistatore estraneo il "contesto etnografico" dell'intervista (espressione introdotta da Cicourel, v., 1974, pp. 150-154) induce Schwartz e Jacobs (v., 1979, tr. it., p. 73) a concludere che "l'osservatore partecipante, grazie alla sua familiarità con i soggetti della ricerca e alla capacità di interagire con loro, può riuscire a controllare la situazione di intervista meglio di un estraneo". L'estraneità tra intervistatore e intervistato può quindi perfino apparire come un limite intrinseco dei sondaggi di massa piuttosto che un'opportuna prescrizione metodologica.
di Alberto Marradi
In genere si classificano le interviste sulla base di due criteri: 1) la presenza o meno di un contatto diretto (visivo) tra intervistatore e intervistato; 2) il 'grado di libertà' concesso ai due attori (v. Statera, 1982, p. 141). In base al primo criterio si distinguono le interviste personali (faccia a faccia) da quelle telefoniche; in base al secondo si individuano tre forme principali di intervista (non strutturata, parzialmente strutturata, strutturata), collocabili lungo un continuum che procede da un minimo a un massimo di strutturazione, sia degli stimoli (domande), sia delle reazioni (risposte). Combinando queste due classificazioni si può ottenere una tipologia con sei tipi, due dei quali (l'intervista telefonica non strutturata o parzialmente strutturata) non sono al momento ancora diffusi (v. § 2d); nei paragrafi successivi ci occuperemo pertanto degli altri quattro tipi.
L'intervista 'in profondità', 'non direttiva' (v. Rogers, 1942) o 'non strutturata' (v. Statera, 1982, pp. 141-142) si propone di "ricostruire la personalità e/o il quadro cognitivo e valoriale dell'intervistato" (v. Pitrone, 1984, p. 31). L'intervista non strutturata implica che l'intervistatore affronti gli argomenti "man mano che emergono nella conversazione" (v. Becker e Geer, 1957, p. 28) o - più frequentemente - si avvalga di una lista di temi, ma con la facoltà di modificarne sia la natura sia la successione, "seguendo il filo del discorso dell'intervistato, e consentendogli divagazioni" (v. Livolsi, 1964). La situazione non direttiva implica infatti che l'intervistatore si ponga in una condizione di ascolto (v. Rogers, 1942), "limitandosi per lo più a fornire una serie di 'segnali' diretti a rassicurare l'interlocutore sul suo livello di attenzione e di comprensione" (v. Borsatti e Cesa-Bianchi, 1980, p. 16), al fine di "aiutarlo - senza porre domande - a sviluppare liberamente il tema" (v. Alberoni, 1967, p. 67) o a "introdurre temi che non erano stati anticipati dall'intervistatore" (v. Foote Whyte, 1984, p. 97). Infatti "il contenuto [...] e il corso [di interviste di questo tipo] riflettono gli interessi, i bisogni e gli stati d'animo degli intervistati [piuttosto che] venir determinati dagli interessi a priori dell'intervistatore" e/o del ricercatore (v. Wittenborn 1968, p. 168). Pertanto l'intervistato si trova nella condizione di reagire a se stesso più che a degli stimoli (v. Pinto, 1964, p. 650). La spontaneità delle risposte riduce le distorsioni derivanti dalla strutturazione delle reazioni (v. § 3b).
L'intervistatore guida il discorso solo in modo indiretto, cercando di "riesprimere ciò che dice [l'intervistato] e soprattutto [di] riesprimerlo con le sue stesse percezioni" (v. Alberoni, 1967, p. 67). A tal fine egli utilizza la tecnica 'ad eco', che consiste nel ripetere una frase (non necessariamente l'ultima) pronunciata dall'interlocutore che sembra significativa e adatta a riaprire la comunicazione (v. Rogers, 1942), ponendo eventualmente domande di approfondimento (probes) su questo o quel punto (v. Foote Whyte, 1984, pp. 99-100).
L'intervista non direttiva richiede all'intervistatore il possesso di doti umane che derivano più "da una preesistente competenza [che da] uno specifico addestramento alle interviste" (v. Schwartz e Jacobs, 1979; tr. it., p. 71). Dello stesso avviso è anche Statera (v., 1982, p. 142), che sottolinea come "la rilevanza o l'irrilevanza dei risultati dell'intervista dipenda dalla capacità, dall'intuito, dalla personalità dell'intervistatore". Anche a causa di questo, essa implica generalmente un contatto diretto del ricercatore-intervistatore con i soggetti studiati, che contrasta con la tendenza alla parcellizzazione dei compiti e alla reificazione dei ruoli che caratterizzano i sondaggi di massa (v. Boccuzzi, 1985).Il carattere non strutturato di questa forma di intervista è evidentemente incompatibile con l'esigenza di standardizzare le situazioni di intervista per garantire una comparabilità formale dei dati, frequentemente espressa nella manualistica corrente, di prevalente ispirazione comportamentista (v. § 2c). La conseguenza di tale orientamento metodologico è stata per molti anni la sostanziale marginalità, nel quadro della ricerca mediante sondaggio, delle interviste non direttive e, più in generale, l'estrema parsimonia nel ricorso a forme di stimolo che prevedessero reazioni poco strutturate (v. § 3b).
Nell'intervista semistrutturata "l'intervistatore dispone di una lista di temi fissati in precedenza sui quali deve raccogliere tutte le informazioni richieste [con] la facoltà di adattare ai singoli intervistati sia le domande sia l'ordine in cui le pone" (v. Pitrone, 1984, p. 33). Un'intervista si può considerare parzialmente strutturata anche quando, sebbene la raccolta delle informazioni sia stata operata tramite domande aperte (v. § 3b), il ricercatore prevede di organizzare le informazioni stesse in una matrice dei dati. In tal caso l'intervistatore sottopone la domanda in forma aperta, lasciando poi al codificatore il compito di ricondurre la risposta fornita dall'intervistato a una certa categoria in un elenco prestabilito.
Varie forme di intervista semistrutturata sono state utilizzate in vari settori con etichette diverse: "focalizzata" (v. Merton e Kendall, 1946), "guidata" (v. Pizzorno, 1960), "finalizzata" (v. Borsatti e Cesa-Bianchi, 1980).
Lo strumento che caratterizza l'intervista strutturata è il questionario, composto dai seguenti elementi: a) una breve presentazione della ricerca (v. § 4a); b) una serie di domande da sottoporre all'intervistato; c) un insieme di istruzioni che "hanno la funzione di suggerire il comportamento da adottare di fronte a [...] risposte o reazioni dell'intervistato" che mostrino chiaramente che egli non ha capito la domanda o il compito che gli viene richiesto (v. Pitrone, 1984, p. 55); d) una serie di domande all'intervistatore stesso (che possono riguardare la durata dell'intervista, le reazioni dell'intervistato alla situazione di intervista, le caratteristiche dell'ambiente in cui l'intervista ha avuto luogo).
Come rileva Statera (v., 1982, p. 143), "nel momento in cui si introduce il questionario, quale che ne sia il grado di strutturazione, si è già sul versante della standardizzazione". Infatti il carattere strutturato o semistrutturato delle reazioni, ovvero delle alternative di risposta (v. § 3a), consente di presentare le domande (con le corrispondenti alternative di risposta) nella stessa forma e nello stesso ordine a tutti gli intervistati. Non a caso le espressioni 'intervista strutturata' e 'intervista standardizzata' sono usate in modo intercambiabile (v. Pitrone, 1984, p. 33), anche se la prima è meglio riferita alla forma del questionario e la seconda più genericamente alla situazione.
La presunta comparabilità delle risposte, in conseguenza dell'invarianza degli stimoli e della standardizzazione della situazione d'intervista, costituisce il principale vantaggio attribuito in letteratura a questa forma di intervista (v., ad esempio, Selltiz e Jahoda, 1963, p. 239). Prendendo a modello le tecniche sperimentali delle scienze naturali, si sostiene che "il questionario può essere considerato non soltanto come uno strumento per ottenere risposte, ma come un metodo per sottoporre gli interrogati a stimoli sperimentali, sebbene di natura verbale" (v. Hyman e altri, 1954, p. 210). Le risposte si ritengono comparabili in quanto tutti gli intervistati sono stati sottoposti agli stessi stimoli, e tutti gli altri aspetti della situazione d'intervista (ordine in cui le domande sono sottoposte, modo in cui l'intervistatore le sottopone, ecc.) sono anch'essi uniformi (v. anche § 4b). L'intervistatore può intervenire solo in caso di mancata comprensione del testo della domanda da parte dell'intervistato: "anche in questo caso, però, prima di cambiare la domanda, l'intervistatore deve ripeterla nella forma prescritta, perché spesso l'incomprensione è dovuta a semplice disattenzione" (v. Cannell e Kahn, 1953, p. 359).
Anche taluni autori di impostazione comportamentista si rendono peraltro conto del fatto che l'uniformità degli stimoli non implica l'uniformità dei significati: una stessa domanda può essere interpretata diversamente da soggetti diversi (v., ad esempio, Selltiz e Jahoda, 1963, p. 256). La norma metodologica che prescrive l'invarianza degli stimoli (e delle reazioni corrispondenti) viene così 'liberalizzata' da alcuni: ciò che conta non è l'identità formale degli stimoli, ma la loro equivalenza sostanziale.
Si suggeriscono pertanto riformulazioni ad hoc della stessa domanda, che potrebbero non essere interamente previste dalla definizione operativa, ma che appaiono comunque preferibili alla "ripetizione meccanica di una domanda incomprensibile, che avrebbe solo l'effetto di irritare l'intervistato" (v. Gostkowski, 1974, p. 19).
Il problema dell'equivalenza dei significati emerge in modo esplicito (v. Verba, 1972, p. 321) nell'ambito della ricerca comparata transculturale, dove "la necessità di tradurre da una lingua all'altra è soltanto l'aspetto più evidente della necessità di tradurre da una cultura all'altra, [anche se peraltro] quasi tutti i comparatisti [...] accettano l'idea che una traduzione letterale degli stimoli basti a trasferirli immutati da una cultura all'altra" (v. Marradi, 1984, p. 101).
Nelle ricerche di ambito nazionale - nelle quali in genere non si pone il problema della traduzione linguistica - si tende spesso a ignorare completamente l'esistenza di diverse subculture e "province di significato" (v. Schutz, 1962). La coincidenza tra gli schemi di riferimento degli intervistati e quelli del ricercatore viene data per scontata. Lo rilevano criticamente, in ambito sociologico, Cicourel (v., 1964, p. 52, e 1974, p. 22) e, in ambito antropologico, Becker e Geer (v., 1957). Si tratta probabilmente di uno dei tanti casi in cui la conoscenza di senso comune è assunta acriticamente come 'risorsa tacita', piuttosto che esser considerata oggetto di ricerca: una pratica denunciata dagli etnometodologi (v. Zimmerman e Pollner, 1970).
In realtà le forme di concettualizzazione possono differire in modo assai marcato all'interno di una stessa cultura. Fra gli altri, il politologo P.E. Converse (v., 1964) ha richiamato in particolare l'attenzione su quella sorta di 'illusione ottica' che induce i ricercatori a "pretendere che gli astratti schemi di riferimento che essi danno per scontati nei loro discorsi sofisticati si rispecchino nei sistemi di credenze" dell'opinione pubblica (v. McKennell, 1974, p. 225). Ad esempio, studi condotti negli Stati Uniti hanno permesso di rilevare che soltanto una porzione assai ridotta della popolazione possiede un'ideologia nell'accezione che i sociologi sono soliti attribuire al termine (v. Hyman, 1973, p. 349). La mancanza di chiari atteggiamenti politici che i ricercatori rilevano in alcuni strati della popolazione potrebbe perciò anche derivare dalla "incapacità dell'intervistato di strutturare il suo mondo politico nello stesso modo del ricercatore" (v. Verba, 1972, p. 347).
La difficoltà intrinseca del "doppio processo ermeneutico" (v. Giddens, 1976; tr. it., p. 208) caratterizza probabilmente ogni forma di ricerca nelle scienze umane; tuttavia, nell'intervista strutturata non soltanto gli schemi di riferimento dell'intervistato sono (erroneamente) assunti come equivalenti a quelli del ricercatore, ma molto spesso questi ultimi sono imposti dalla rigidità della strutturazione stessa (v. § 3a). L'analogia che K.D. Knorr-Cetina (v., 1981, p. 35) mette in luce tra intervista tramite questionario strutturato e procedure di interrogazione adottate dagli inquisitori illustra polemicamente il fatto che "l'egemonia comunicativa" di cui è dotato il ricercatore lo spinge a imporre le proprie categorie conoscitive sui soggetti studiati, tanto che, paradossalmente, i ricercatori rischiano di apprendere "più sui [propri] preconcetti e norme comunicative che non sui problemi della vita quotidiana degli intervistati" (v. Briggs, 1986, p. 174).Malgrado questi limiti, si è finito - soprattutto nelle ricerche sociologiche e politologiche - per identificare la ricerca empirica con l'intervista strutturata. Infatti, l'adesione alle tesi operazioniste (per un'illustrazione critica v. Marradi, 1984, pp. 31-32) ha indotto numerosi ricercatori a considerare la definizione operativa dei concetti - che nelle scienze sociali è strettamente connessa alla costruzione del questionario (v. Mokrzycki, 1983, p. 94) - come un requisito fondamentale e distintivo dell'attività scientifica.Per concludere, se non si intende rinunciare all'uso dell'intervista strutturata (e ai vantaggi derivanti dall'organizzazione dei dati in matrice), è almeno consigliabile ricorrere a uno 'studio pilota', una ricerca preliminare basata su interviste in profondità (v. McKennell, 1974; v. anche Pitrone, 1984, pp. 43-45).
A differenza dell'intervista personale, che è uno strumento utilizzabile nel quadro di ricerche basate sull'osservazione o tendenti a ricostruire storie di vita (v. § 1b), l'intervista telefonica appare concepibile solo nell'ambito di un sondaggio.
Sebbene un fautore del sondaggio telefonico consideri quest'ultimo, insieme all'interazione videodiretta, lo strumento più adatto "per fare ricerca sulla società postindustriale [...] socialmente disintegrata [...] in cui il contatto faccia-a-faccia è stato delegittimato" a favore del contatto anonimo e impersonale (v. Goyder, 1985, p. 248), la mancanza di un'interazione faccia-a-faccia limita la "competenza comunicativa" (v. Habermas, 1967) dell'intervistatore e dell'intervistato. Quest'ultimo non può prendere visione diretta del questionario, come accade nel sondaggio tramite questionario autoamministrato e, talvolta, nel sondaggio tramite intervista personale (in particolare nel caso di domande che prevedano numerose categorie di risposta, spesso presentate in batteria, cioè in forma uguale per molte domande successive). L'intervista telefonica non consente il ricorso a tecniche che comportano strumenti da sottoporre visivamente all'intervistato (varie forme di gadgets, scale autoancoranti, line productions; v. Marradi, 1993, pp. 91-98). L'intervistatore dispone di meno informazioni per valutare se l'intervistato ha capito davvero la domanda e di conseguenza tenderà a ridurre gli interventi opportuni per chiarire il testo. Non è possibile integrare il resoconto dell'intervista con informazioni relative all'ambiente fisico in cui essa ha luogo e al comportamento non verbale dell'intervistato (v. Frey, 1989², p. 123). Inoltre, la presenza dell'intervistatore facilita la concessione dell'intervista: non a caso i sondaggi telefonici sono caratterizzati da un elevatissimo tasso di rifiuti (v. Collins e Sykes, 1985, p. 5).
Alcuni autori sostengono peraltro che proprio l'assenza fisica dell'intervistatore e la conseguente natura anonima della comunicazione telefonica può garantire, rispetto all'intervista faccia-a-faccia, risposte più sincere e tassi inferiori di rifiuti o risposte evasive a domande delicate (v., ad esempio, McQueen, 1989). Queste tesi sono però in contrasto con le risultanze di numerose ricerche, che suggeriscono se mai l'esistenza di una relazione di segno opposto (v. Groves e Kahn, 1979): sembra infatti che l'intervista telefonica impedisca agli intervistati di rilassarsi e di rispondere in modo sincero anche a domande imbarazzanti (v. Ball, 1968).
Anche gli studi su questa forma di sondaggio (v. Groves e Kahn, 1979) dedicano scarsa attenzione alle caratteristiche della situazione in un'intervista telefonica. Sembra che finora i ricercatori abbiano considerato "il telefono come nient'altro che uno strumento tecnologico che è stato adattato alle loro esigenze di raccolta dei dati [senza] comprendere il significato sociale del telefono e il modo in cui esso condiziona alcuni [...] patterns di risposta" (v. Frey, 1989², p. 12).
In quanto medium freddo, il telefono "esige una partecipazione totale, [...] un'attenzione esclusiva" (v. McLuhan, 1964; tr. it., p. 277), che risulta in stridente contrasto con la mancanza di intimità che caratterizza un colloquio telefonico tra due estranei. È inoltre probabile la presenza di distrazioni nell'ambiente domestico, come ad esempio un televisore acceso (v. Frey 1989², p. 125).
Inoltre, siccome l'intervista telefonica non si può protrarre oltre i 20-25 minuti senza irritare l'intervistato e provocare rifiuti di proseguire (v. Lavrakas, 1987, p. 12), l'intervistatore tenderà a porre le domande in modo frettoloso e l'intervistato, cui è lasciato poco tempo per riflettere, a rispondere in modo affrettato.
Tutto ciò rende questa forma di intervista del tutto inopportuna come strumento nel caso di ricerche interessate ai valori e alla personalità dei soggetti studiati.Il ricorso al mezzo telefonico permette un elevato grado di controllo sugli intervistatori. Nel Computer Assisted Telephone Interviewing (CATI) il compito degli intervistatori, controllato da supervisori che possono in qualunque momento intervenire nella comunicazione telefonica, è sostanzialmente limitato alla lettura delle domande e alla registrazione delle risposte in forma leggibile dal computer (v. Fabbris, 1991, p. 8). I manuali sul sondaggio telefonico sono quasi esclusivamente orientati a illustrare, oltre alle procedure di campionamento, le forme di controllo sugli intervistatori (v., ad esempio, Lavrakas, 1987), mentre la raccolta delle informazioni è trattata in modo superficiale e acritico. Non per caso il campo di maggiore applicazione del sondaggio telefonico è la ricerca di marketing, in cui esso si è inizialmente sviluppato e in cui la natura dei temi trattati rende più giustificato il suo impiego.
di Alberto Marradi
Le domande di un questionario possono essere classificate in base a diversi criteri, fra i quali, ad esempio, la natura dei temi trattati (v. Pitrone, 1984, pp. 47-52). La classificazione più significativa sul piano metodologico è quella relativa alla forma delle domande stesse, sulla cui base si distinguono le domande in chiuse, semichiuse (o semiaperte) e aperte. Come osserva Galtung (v., 1967, p. 119), non sono tanto le domande quanto le risposte a essere preorganizzate in modo 'chiuso' oppure lasciate libere (aperte). A rigore si dovrebbe quindi parlare di risposte chiuse/aperte; ma è difficile sovvertire un uso consolidato. Le sezioni che seguono saranno dedicate a un confronto tra domande chiuse e domande aperte, ricorrente in letteratura; scarsa è stata invece l'attenzione dedicata alla forma intermedia, semichiusa (o semiaperta), nella quale l'intervistato può anche dare risposte non previste dal 'piano di chiusura' (v. § 3a) o commentare a latere l'alternativa scelta. Concluderemo il capitolo esaminando le direttive che vengono fornite circa l'ordine in cui devono essere poste le domande di varia natura nel corso dell'intervista.
Una domanda si dice chiusa se l'intervistato deve scegliere fra un insieme di alternative precodificate (che costituisce il 'piano di chiusura'). Si è già (v. § 2c) criticata la tesi secondo cui la strutturazione implicherebbe la comparabilità delle risposte; tuttavia anche un valente metodologo come Galtung (v., 1967, p. 120) considera la comparabilità delle risposte un elemento a favore delle domande chiuse. Un altro loro vantaggio, frequentemente menzionato in letteratura, è il risparmio di tempo e di energie intellettuali sia dell'intervistatore, sia dell'intervistato (v., ad esempio, Kahn e Cannell, 1968, p. 155). Il compito dell'intervistatore è infatti agevolato dalla facilità di somministrazione e di codifica (v. Selltiz e Jahoda, 1963, p. 257) e inoltre, poiché le domande chiuse sono concepite per aiutare l'intervistato a concentrarsi sugli aspetti rilevanti per il ricercatore (v. Schuman e Presser, 1977, p. 154), lo sforzo cognitivo che si rende necessario per fornire una risposta è minimo: "l'intervistato deve semplicemente individuare una particolare categoria" fra quelle che gli vengono sottoposte (v. Bradburn, 1984, p. 9).
Alcuni autori consigliano il ricorso alle domande chiuse solo in alcuni casi. Selltiz e Jahoda (v., 1963, p. 262) le considerano efficaci quando "le possibili alternative di risposta sono note, limitate e chiaramente delimitate [e] appropriate per assicurare informazione fattuale". Infine, il loro uso potrebbe essere talvolta consigliabile anche nel caso di domande delicate, ad esempio sul reddito; infatti "l'intervistato può essere più disposto a indicare la classe (fra quelle che gli vengono presentate) in cui cade il suo reddito, piuttosto che dichiararne l'ammontare esatto" (v. Pitrone, 1984, p. 60).
Il principale difetto delle domande chiuse (v. anche § 2c) è la "sovradeterminazione dello schema di riferimento" (v. Morton-Williams e Sykes, 1984, p. 19; v. anche Cicourel, 1964, p. 105): l'intervistato può solo scegliere una categoria fra quelle previste dal piano di chiusura, senza avere in alcun modo la possibilità di chiarire e articolare la propria posizione (v. Selltiz e Jahoda, 1963, p. 260). Ciò incoraggia la passività dell'intervistato e fornisce spesso una scappatoia per nascondere ignoranza o disinteresse per un certo argomento; infatti "le categorie prestabilite finiscono per suggerire una risposta anche a chi non ha niente da dire sull'argomento" (v. Pitrone, 1984, p. 61; v. anche Selltiz e Jahoda, 1963, p. 260). Di conseguenza i soggetti che rispondono a una domanda chiusa sembrano invariabilmente avere un livello medio di informazione più elevato rispetto ai soggetti che rispondono a una domanda aperta sullo stesso tema (v. Noelle-Neumann, 1970, p. 193).
Questo problema era già stato evidenziato da Kendall e Lazarsfeld (v., 1950, p. 170), i quali proponevano come soluzione di cercare innanzitutto di classificare gli intervistati secondo il loro livello di competenza. Si può anche fare ricorso a un'altra procedura, che ha inoltre il merito di tendere a minimizzare l'imposizione degli schemi concettuali del ricercatore sugli intervistati: "l'intervistatore non legge la serie di risposte prestabilite, [ma] lascia all'intervistato il compito di rispondere con parole sue [riconducendo] la risposta fornita [...] a quella che [...] giudica la più vicina tra le categorie previste" (v. Pitrone, 1984, p. 61). Questa procedura di riconduzione peraltro è ovviamente assai sensibile alle distorsioni introdotte dagli intervistatori.Un altro grave inconveniente delle domande chiuse deriva dal fatto che il numero delle alternative di risposta presentate è talvolta elevato (v. Pinto, 1964, p. 712). A quanto sostengono alcuni psicologi di laboratorio, il numero massimo di alternative che l'individuo medio può valutare contemporaneamente è sette (v. Marradi, 1984, p. 56 e la letteratura ivi citata). Come ha suggerito il metodologo polacco Kistelski (v., 1978), nel caso di una lista troppo lunga è opportuno dividere le voci in due elenchi, invitando l'intervistato a scegliere una o più alternative gradite in ciascun elenco; dopodiché si riuniranno le alternative indicate come preferite (la cosa sarà agevole se si usano dei gadgets) invitando l'intervistato a scegliere solo fra quelle.
La divisione dell'insieme delle voci in due elenchi non può comunque evitare le distorsioni derivanti dalla posizione di una voce sulla lista: le alternative che figurano per prime o per ultime sulla lista hanno una maggiore probabilità di essere scelte. Nei confronti di tali inconvenienti "non si vedono rimedi migliori di quello di trascrivere gli items su cartellini il cui ordine di presentazione possa variare da un'intervista all'altra" (v. Delli Zotti, 1992, p. 139).
Le domande chiuse risultano irritanti per "le persone particolarmente interessate e informate [che si sentono in grado] di dare un apporto originale alla ricerca" (v. Pitrone, 1984, p. 62). Non necessariamente tali persone appartengono agli strati sociali più elevati; l'uso di strumenti strutturati può risultare inadeguato anche quando oggetto di studio sono individui marginali sul piano socioeconomico (v. Galtung, 1967, p. 154).Numerosi studi convergono nel rilevare come la distribuzione delle risposte sia fortemente sensibile alla forma della domanda (v. Schuman e Presser, 1979); ciò non ha tuttavia intaccato il primato di cui godono le domande chiuse. Infatti il modello epistemologico prevalente nelle scienze sociali, secondo il quale la formulazione delle ipotesi deve precedere la raccolta delle informazioni (per una critica v. Marradi, 1984, pp. 90-98), non lascia spazio ai contributi spontanei e agli spunti originali che i soggetti di studio stessi potrebbero fornire al ricercatore. Inoltre, al primato delle domande chiuse hanno contribuito, in misura rilevante, alcuni vincoli di natura economica legati all'organizzazione della ricerca (v. anche § 2a).
Gli svantaggi attribuiti in letteratura alle domande aperte sono in parte emersi nel precedente paragrafo; si sostiene che esse richiedano all'intervistato un maggiore sforzo cognitivo (v. Bradburn, 1984, p. 9) e che siano più sensibili alle distorsioni introdotte dall'intervistatore nel registrare la risposta. Non essendo rigidamente determinata la natura dell'interesse del ricercatore, le risposte fornite a una domanda aperta sono inoltre più difficili da codificare (v. Ballatori, 1988, p. 90).
Il grande pregio delle domande aperte è di garantire la spontaneità delle risposte (v., tra gli altri, Kahn e Cannell, 1968, pp. 154-155). A differenza della domanda chiusa, quella aperta non solo evita la "sovradeterminazione dello schema di riferimento" (v. Schuman e Presser, 1977, p. 164), ma limita anche i problemi derivanti dalla sottodeterminazione degli stimoli: ascoltando attentamente la risposta l'intervistatore può valutare se l'intervistato ha effettivamente compreso il senso della domanda (v. Selltiz e Jahoda, 1963, p. 260). Peraltro, la forma aperta viene in genere consigliata solo nei casi in cui le alternative di risposta siano troppo numerose o non ancora note (v. Ballatori, 1988, p. 90) o le domande vertano su argomenti complessi e/o delicati (v. Krak, 1988).Il ricorso a reazioni non strutturate è spesso limitato alla fase iniziale di pre-test, allorché si elaborano i piani di chiusura, e più raramente si estende al controllo della fedeltà delle risposte fornite alle domande chiuse (v. Lutynski, 1988).
Le domande dovrebbero essere presentate secondo un ordine che appaia anzitutto ragionevole all'intervistato (v. Scheuch, 1967). Per evitare di disorientarlo è consigliabile presentare ordinatamente i temi, evitando salti bruschi fra un tema e l'altro. A tale scopo si inseriscono frasi che informano del cambiamento di tema (transition statements), invitando l'intervistato a volgere la propria attenzione a un nuovo argomento (v. Frey, 1989², p. 146). Ogni tema dovrebbe essere affrontato facendo seguire a domande di carattere generale domande sempre più specifiche, che richiedono maggiore concentrazione (tecnica 'a imbuto'; v. Bruschi 1990, p. 377).
Il raggruppamento delle domande secondo il criterio della vicinanza tematica e l'ordinamento delle stesse secondo la tecnica a imbuto contrastano palesemente con l'altra direttiva metodologica correntemente impartita nei manuali sul sondaggio, secondo la quale occorre evitare gli 'effetti di contaminazione' (v., ad esempio, Moser e Kalton, 1977², p. 346). La contaminazione, in parte provocata dalla comprensibile propensione degli intervistati a mostrarsi congruenti, si produce quando la risposta a una domanda condiziona la risposta alla (o alle) domande successive. Come rimedio si suggerisce la dispersione all'interno del questionario delle domande su uno stesso tema (v. Ballatori, 1988, p. 83). Tuttavia nemmeno frapponendo una serie di domande 'neutrali' fra due domande che si presume possano provocare effetti di contaminazione si evitano gli 'effetti contestuali' (v. Schuman e altri, 1983, p. 113): l'ordine in cui le domande si susseguono nel questionario influenza comunque, in modo più o meno marcato, le modalità di risposta (v. Noelle-Neumann, 1970, pp. 198-199).
L'ordine delle domande dovrebbe inoltre essere posto in relazione con il livello di "attenzione e [di] interesse dell'intervistato, [che] cresce dopo l'inizio dell'intervista, raggiunge un massimo sul quale si stabilizza per un certo tempo, e poi decresce rapidamente per la stanchezza" (v. Pitrone, 1984, p. 70). Di conseguenza si raccomanda (v. Scheuch, 1967) di porre all'inizio dell'intervista le domande più facili, nella fase intermedia quelle più complesse, lasciando per ultime quelle di carattere 'strutturale' (ad esempio sesso, età, professione dell'intervistato). Si suggerisce anche di porre comunque all'inizio quelle domande che servono a stabilire se la persona contattata può essere un caso di quella particolare ricerca, cioè se è una casalinga in una ricerca che riguarda le casalinghe, un disoccupato se si stanno studiando i disoccupati, e così via (v. Pitrone, 1984, p. 71).
Le domande dovrebbero infine essere ordinate cercando di minimizzare le possibilità che l'intervistato tronchi l'intervista. Pertanto è consigliabile porre solo alla fine le domande più delicate (ad esempio sul reddito o sulla posizione politica), che potrebbero irritare l'intervistato. C'è anche un'altra ragione per evitare di porre nella fase iniziale dell'intervista domande imbarazzanti: l'intervistato mantiene in questa fase una certa diffidenza verso l'intervistatore, che tende ad attenuarsi nel corso dell'interazione (v. Kahn e Cannell, 1968, p. 158).
di Alberto Marradi
Poiché l'intervista è una forma di interazione la cui fonte è esogena (v. § 1c), la prima difficoltà che incontra l'intervistatore è ottenere la collaborazione dei soggetti. Il suo compito può essere facilitato dalla lettura di una breve introduzione al questionario che, come rileva Pitrone (v., 1984, p. 53), assolve almeno tre funzioni: identificare il committente della ricerca; chiarire lo scopo della ricerca stessa; sottolineare la rilevanza scientifica del contributo che ogni singolo intervistato può fornire. Nell'introdurre il questionario l'intervistatore dovrebbe inoltre rassicurare l'intervistato che le informazioni raccolte resteranno anonime (v. Galtung, 1967, p. 144).
Poiché l'efficacia di tale presentazione non è affatto garantita, l'intervistatore "deve soprattutto stabilire fiducia in se stesso come persona" (v. Rose, 1950, p. 214). Alcuni degli espedienti abitualmente utilizzati per ottenere la collaborazione dell'intervistato incidono negativamente sulla fedeltà delle risposte; ad esempio, cercare di convincere la persona contattata con l'assicurazione che l'intervista richiederà poco tempo - come consiglia Lavrakas (v., 1987, p. 113), autore di un manuale sul sondaggio telefonico - incentiva un atteggiamento superficiale da parte dell'intervistato, "che tenderà a rispondere meccanicamente" (v. Pitrone, 1984, p. 104).
Il modo di presentarsi dell'intervistatore, le sue caratteristiche fisiche, la presenza stessa di un contatto faccia-a-faccia (v. § 2d) esercitano una certa influenza sulla decisione di accettare l'intervista, che spetta comunque ai soggetti contattati. In letteratura i motivi per l'accettazione dell'intervista vengono in genere semplicemente elencati; più raramente ne vengono proposte classificazioni (v. Kahn e Cannell, 1968, p. 153, che distinguono fra motivazioni "intrinseche" ed "estrinseche"; v. anche la più articolata classificazione proposta da E. Boccuzzi, 1985). Nei termini di Weber (v., 1922), l'accettazione dell'intervista si può definire wertrational (razionale rispetto al valore) quando avviene per le seguenti ragioni: a) la gratificazione derivante dal dare un contributo a una ricerca scientifica (v. Gostkowski, 1974, p. 15), alimentata dal prestigio dell'istituto che conduce la ricerca (v. Cannell e Kahn, 1953, p. 335); b) la curiosità verso un'esperienza nuova o inconsueta per la maggior parte dei soggetti (v. Galtung, 1971, p. 93); c) il desiderio di non perdere comunque un'occasione di interazione; in particolare "le persone socialmente marginali si mostrano [...] disponibili proprio perché apprezzano il fatto che qualcuno si ricordi di loro e sia interessato a quanto hanno da dire" (v. Pitrone, 1984, p. 121; v. anche Galtung, 1967, p. 148).
Quest'ultima ragione è presente anche nelle comunicazioni telefoniche (v. Ball, 1968), tuttavia l'assenza di un contatto faccia-a-faccia con l'interlocutore facilita il rifiuto dell'intervista.
L'accettazione è invece di natura zweckrational (razionale rispetto allo scopo) se l'intervistato accetta nella convinzione che l'interazione possa provocare dei cambiamenti nella propria condizione; in tal caso "l'intervista o lo stesso intervistatore possono essere considerati dei sistemi per la divulgazione di problemi" (v. Cannell e Kahn, 1953, p. 335). In genere sono però ragioni non strumentali che inducono ad accettare una forma di interazione di natura intrinsecamente cognitiva (v. § 1b). Di conseguenza, il fatto di "mettere l'intervistato nel ruolo di chi aiuta piuttosto che nel ruolo di chi ha bisogno di aiuto" non solo è più produttivo, come ritiene Galtung (v., 1967, p. 148), ma anche conforme alla natura stessa dell'intervista.In taluni casi l'adesione alle norme e consuetudini sociali da parte della persona contattata può agevolare la concessione dell'intervista. I sociologi polacchi Przybylowska e Kistelski (v., 1982, p. 7) hanno rilevato come, anche in un contesto non favorevole alla libera espressione delle opinioni, in cui il sondaggio ha inevitabilmente scarsa diffusione, gli intervistandi "agiscano in conformità di norma tradizionale, profondamente interiorizzata, che richiede loro di essere ospitali con chiunque, inclusi gli stranieri". Nell'intervista telefonica la collaborazione dei soggetti potrebbe dipendere da una forma di cortesia secondo cui si attribuisce al solo autore della chiamata il diritto di interrompere la comunicazione (v. Ball, 1968). In un contesto quale quello statunitense, caratterizzato dalla crescente istituzionalizzazione dei sondaggi (v. Goyder, 1986, p. 4), non è azzardato ipotizzare che l'intervista, al pari di altre attività della vita quotidiana, venga percepita come cosa del tutto normale (v. Boccuzzi, 1985).
I comportamentisti mettono il rifiuto di concedere l'intervista prevalentemente in relazione con le caratteristiche sociodemografiche dei soggetti, trascurando la loro capacità di agire autonomamente (lo rileva criticamente Goyder: v., 1986, p. 4). La persona contattata può sottrarsi all'intervista: a) perché occupata in altre attività; b) per diffidenza verso l'organizzazione che ha promosso la ricerca; c) per diffidenza nei confronti dell'intervistatore, che può essere considerato un intruso che viola la privacy o un rappresentante di qualche impresa commerciale - congettura che non risulta infondata: negli Stati Uniti, intorno alla metà degli anni sessanta, il 60% degli individui intervistati in un sondaggio era stato almeno una volta contattato per una 'intervista' che si concludeva con l'offerta di qualche prodotto (v. Biel, 1969); d) per il timore di rispondere ai temi trattati nella ricerca, soprattutto se l'intervistato è convinto di avere opinioni non conformiste (v. Cannell e Kahn, 1953, p. 337); e) per sfiducia nella capacità dei sondaggi di indirizzare le decisioni dei pubblici poteri (v. Sharp e Frankel, 1983, p. 43).Infine, l'adesione a norme tradizionali può talvolta ostacolare il compito degli intervistatori, ad esempio in quei contesti culturali in cui non è concesso alle donne avere contatti con estranei (v. Rudolph e Rudolph, 1959, pp. 238-239).
Negli Stati Uniti sono stati condotti numerosi studi sulle caratteristiche ideali di un buon intervistatore; ne emerge che le donne di mezza età e di classe media sono le più adatte a svolgere una mansione che risulta invece scarsamente remunerativa per soggetti appartenenti a fasce più forti della forza lavoro e poco gratificante per studenti universitari e neolaureati (v. Brislin e altri, 1973, p. 62). La preferenza per soggetti poco qualificati (e magari poco critici) è, come vedremo, una diretta conseguenza del modo in cui il ruolo di intervistatore viene concepito nell'ottica comportamentista. Accanto alle caratteristiche sociodemografiche viene segnalata anche l'importanza delle doti umane che l'intervistatore dovrebbe possedere: una buona cultura generale, serietà professionale e "attitudine a parlare con estranei che potrebbero non condividere esattamente il suo punto di vista" (v. Schatzman e Strauss, 1955, pp. 336-337).
La convinzione che quest'ultima dote non si possa insegnare (v. Brusati, 1983, p. 120), ma soprattutto il timore che, in un'organizzazione della ricerca caratterizzata da una rigida definizione dei ruoli, un intervistatore addestrato possa svicolare più facilmente dalle istruzioni ricevute (v. Campostrini, 1991, p. 84) hanno contribuito a limitare nella letteratura metodologica la rilevanza attribuita alla formazione e alla familiarità con i temi della ricerca. Pertanto, posizioni come quelle di Statera (v., 1982, p. 143), secondo cui "le distorsioni (e le inaccuratezze) risultano meno ampie e incontrollabili nel caso in cui gli intervistatori siano anche ricercatori, cioè non lavoratori utilizzati in modo parcellare, ma lavoratori che prendono parte all'intero progetto della ricerca", sono state e restano - purtroppo - del tutto marginali. Al contrario, la preoccupazione di tenere sotto controllo i possibili fattori di distorsione (v. § 2c) ha indotto gli autori di impostazione comportamentista ad assimilare l'intervistatore a uno strumento; Bailey (v., 1978, p. 171) consiglia di standardizzare non solo le domande, ma anche il tono di voce degli intervistatori. Se il ruolo di intervistatore è definito da una serie di prescrizioni abbastanza rigide, tanto da essere avviato all'istituzionalizzazione, il ruolo di intervistato è invece governato da regole piuttosto elastiche (v. Benney e Hughes, 1956, p. 193).
Non soltanto la definizione dei ruoli è squilibrata, ma l'interazione, specie in un'intervista completamente strutturata, ha carattere asimmetrico. L'intervista infatti è guidata dall'intervistatore, nel senso che solo lui può fare le domande, mentre all'intervistato si chiede solo di dare risposte adeguate (v. Kahn e Cannell, 1968, p. 149). Così concepita l'intervista appare "governata da un principio di cooperazione applicato unilateralmente" (v. Sormano, 1988, p. 350). Nella manualistica corrente, oltre alla natura asimmetrica dell'interazione, la percezione dell'intervistatore come 'estraneo' viene considerata un'altra condizione che favorisce la sincerità nelle risposte (v. Pinto, 1964, p. 664; v. anche § 1c). Si ritiene infatti che se l'intervistato dovesse percepire l'intervistatore come simile, questi perderebbe il proprio anonimato, e l'intervistato risponderebbe calandosi in un ruolo sociale (v. Rose, 1950, p. 213).
Peraltro, anche autori di impostazione comportamentista si rendono conto del fatto che il comportamento dell'intervistatore "evoca [comunque] comportamenti di ruolo già familiari in altri [...] contesti" (v. Kahn e Cannell, 1968, p. 153). Dato che le risposte dipendono dalla percezione dei ruoli che si stabilisce nel corso dell'interazione, è illusorio pensare che l'intervistato possa comportarsi come una sorta di banca-dati (v. Pitrone, 1984, p. 124).
È anche difficile che l'intervistatore possa spogliarsi dei ruoli che riveste nella vita quotidiana. La standardizzazione dell'attività degli intervistatori si scontra inoltre con l'impossibilità di anticipare tutte le situazioni che si possono venire a creare nell'interazione e con l'improbabilità dell'ipotesi che, di fronte a situazioni impreviste, tutti gli intervistatori si comportino allo stesso modo (v. Cicourel, 1964, pp. 90, 91 e 100). La posizione comportamentista, secondo cui l'intervistatore deve comportarsi come "un automa intelligente" (v. Lavrakas, 1987, p. 112) o un "agente inerte" (come rileva criticamente Deutscher: v., 1972, p. 325), risulta quindi inevitabilmente autocontraddittoria.Gli autori che più si distaccano da tale impostazione tendono invece a sottolineare che se si vuole ottenere una collaborazione attiva dei soggetti studiati è necessario mettere da parte la preoccupazione che il comportamento dell'intervistatore possa alterare quello dell'intervistato. L'instaurazione di un rapporto amichevole con l'intervistato è anzi indispensabile al fine di assicurare la sincerità delle risposte (v. Cicourel, 1964, p. 75). Pertanto, anche in un'intervista (parzialmente) strutturata, può essere opportuno consentire divagazioni (v. Borsatti e Cesa-Bianchi, 1980, pp. 41-42). Inoltre, permettere all'intervistato di fornire informazioni apparentemente irrilevanti rispetto ai fini cognitivi dell'intervista contribuisce a "una distribuzione più egualitaria del controllo sull'interazione" (v. Briggs, 1986, p. 28), che tende così ad approssimarsi a una "conversazione [...] che ha luogo fra eguali" (v. Benney e Hughes, 1956, p. 196).
La critica alla pretesa di standardizzare la situazione di intervista e, di conseguenza, all'intervista strutturata, non ha motivazioni esclusivamente etiche. Come si è già avuto modo di osservare (v. §§ 2c e 3b), la qualità abnorme di un'interazione caratterizzata dalla mancanza di un reale dialogo non può non incidere sulla fedeltà delle risposte. Inoltre, il tentativo di ottenere 'opinioni private', cercando di rimuovere tutti i condizionamenti contestuali, appare comunque destinato al fallimento se si ammette con Deutscher (v., 1972, p. 326) che "le opinioni sono sempre pubbliche, nel senso che sono espresse alla presenza di altri". Al pari di ogni altra interazione, "la situazione sociale creata dall'intervista non costituisce semplicemente un ostacolo all'espressione delle opinioni" (v. Briggs, 1986, p. 22), ma un quadro che, per quanto continuamente rinegoziato dai partecipanti all'interazione (v. i sociolinguisti Cook Gumperz e Gumperz, 1976), condiziona tutte le attribuzioni di senso che vengono operate tanto dall'intervistatore quanto dall'intervistato. Non prendere in considerazione il contesto in cui l'intervista (strutturata) ha luogo è probabilmente un modo di celare i pesanti vincoli che la strutturazione impone sulla trasparenza della comunicazione, consentendo, nel contempo, che "l'egemonia comunicativa" (v. § 2c) non venga esplicitata, ma rimanga "una premessa metodologica implicita" (v. Briggs, 1986, p. 124).
(V. anche Metodo e tecniche nelle scienze sociali).
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