intifada
(ar. «scrollone») Rivolta popolare scoppiata nel dicembre 1987 nei territori palestinesi occupati da Israele dal giugno 1967 e protrattasi, con alterne vicende, fino al 1993. Iniziata a Gaza e rapidamente estesasi anche alla Cisgiordania, la rivolta fu caratterizzata da scontri con le forze occupanti – contraddistinti soprattutto da insistiti lanci di pietre contro i militari israeliani –, azioni di disobbedienza civile, boicottaggio delle merci israeliane e pubblica esposizione di simboli e bandiere palestinesi. Organizzata da comitati popolari spontanei e dal neocostituito Comando nazionale unificato dell’i., la rivolta coinvolse soprattutto giovani e adolescenti e diede luogo a forme di autogestione della vita quotidiana, riuscendo a porre la questione palestinese all’attenzione della comunità internazionale. Malgrado l’imponente repressione messa in atto dal governo di Israele (più volte denunciata in sede internazionale), fu impossibile imporre un rapido ritorno all’ordine e l’i. riuscì ad affermare il ruolo di soggetto politico autonomo dei palestinesi e l’impossibilità di prescindere dall’OLP per avviare un’effettiva prospettiva di pace. Tra le sue conseguenze più immediate vanno ricordate la rinuncia da parte del re Husain di Giordania alle rivendicazioni sui territori della Cisgiordania e la proclamazione unilaterale da parte dell’OLP dello Stato di Palestina nel novembre 1988.
La seconda i., anche detta i. di al-Aqsa, dal nome della moschea che sorge a Gerusalemme, nel terzo luogo santo dell’islam (al-Haram ash-Sharif «il nobile santuario») dopo La Mecca e Medina, ebbe inizio nel settembre 2000. L’evento scatenante fu infatti la visita, il 28 settembre, del leader del Likud, A. Sharon, al sito religioso venerato da entrambe le religioni (per gli ebrei l’al-Haram ash-Sharif è il monte del Tempio). Il giorno successivo, dopo la preghiera del venerdì, migliaia di fedeli musulmani affollavano la Spianata delle moschee dove si verificarono i primi scontri con le forze di polizia israeliane (6 morti e oltre 200 feriti tra i palestinesi). La protesta palestinese dilagò rapidamente a Gaza e in Cisgiordania, trasformandosi in una rivolta contro l’occupazione israeliana e per l’indipendenza della Palestina. La durezza della repressione messa in atto dal governo israeliano, condannata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 7 ottobre, fu più volte denunciata nelle sedi internazionali nei mesi successivi. A differenza della prima i., caratterizzata da scontri di piazza, manifestazioni popolari e azioni non violente di disobbedienza civile, l’i. di al-Aqsa ha visto un largo uso di armi da fuoco da parte dei palestinesi e il ricorso ad attentati e attacchi suicidi contro obiettivi civili e militari. Nel marzo 2002 vi furono circa 80 morti tra gli israeliani, vittime di ripetuti attentati suicidi contro alberghi, autobus, bar, centri commerciali. La sfiducia verso il processo di pace avviato a Oslo (1993), contraddistinto da inadempienze israeliane, e le misere condizioni di vita dei palestinesi motivarono una rivolta che non risparmiò nemmeno Y. ‛Arafat, accusato di poca democrazia interna e di arrendevolezza verso gli israeliani. Dai primi giorni di aprile, con l’assedio al campo profughi palestinese di Jenin in Cisgiordania, l’escalation delle operazioni militari israeliane nei territori palestinesi subì una drammatica intensificazione. Dal dicembre 2001 lo stesso ‛Arafat venne confinato nella sede dell’Autorità nazionale palestinese, a Ramallah, assediata dall’esercito israeliano. La seconda i., intanto, proseguiva, sia pur con minore intensità, prolungandosi anche dopo il 2004, quando la morte di ‛Arafat e la malattia di Sharon mutarono il quadro. Solo nel 2006 poté dirsi conclusa, con il tragico bilancio di circa 5000 morti tra i palestinesi e circa 1000 tra gli israeliani.