Abstract
Vengono esaminati i requisiti strutturali delle fattispecie di intimidazione pubblica ex artt. 421 c.p. e 6 della l. 2.10.1967, n. 895 oggi considerate come irrinunciabili strumenti idonei a fronteggiare le più svariate forme di manifestazione di aggressione alla pace ed alla tranquillità sociale. La trattazione fornisce in particolare una panoramica delle posizioni assunte in dottrina e in giurisprudenza circa il concetto di ordine pubblico, di pubblica incolumità e circa l’idoneità offensiva delle ondotte tipiche.
Sotto il titolo di intimidazione pubblica si ricomprendono due distinte fattispecie. La prima è prevista dall’art. 6 della l. 2.10.1967, n. 895 e punisce «chiunque, al fine di incutere pubblico timore o di suscitare tumulto o pubblico disordine o di attentare alla sicurezza pubblica, fa esplodere colpi di arma da fuoco o fa scoppiare bombe o altri ordigni o materie esplosive, se il fatto non costituisce più grave reato»; la seconda prevista dall’art. 421 c.p. punisce «chiunque minaccia di commettere delitti contro la pubblica incolumità, ovvero fatti di devastazione e saccheggio, in modo da incutere pubblico timore». Per il primo reato è comminata la pena della reclusione da uno a otto anni; per il secondo la reclusione fino a un anno.
Sebbene l’intimidazione mediante uso di esplosivi sia collocata al di fuori della sede codicistica dei reati contro l’ordine pubblico, si può ritenere che il bene tutelato da entrambe le fattispecie in considerazione sia l’ordine pubblico materiale (in tal senso cfr. De Vero, G., Intimidazione pubblica, in Dig. pen., VII, Torino, 1993, 234; Fiore, C., Ordine pubblico (diritto penale), in Enc. dir., XXX, Milano, 1980, 1093; Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, VI, Torino, 1983, 232; Padovani, T., Commento al codice penale, art. 421, Milano, 2007, 2754; Patalano, V., L’associazione per delinquere, Napoli, 1971, 175; Rosso, G., Ordine pubblico (delitti contro l’), N.D.I., XII, Torino, 1965, 170 ss.), sinonimo di buon ordine esteriore e di quiete collettiva. La diversità della sedes materiae non fa venir meno l’identità offensiva dei due reati, che prescinde dai mezzi esecutivi. Sia la minaccia, sia lo scoppio di esplosivi sono finalizzati al turbamento di un solo bene: il pacifico e regolare corso della convivenza pubblica. In quest’accezione, l’ordine pubblico è inteso nella sua dimensione materiale o empirica, come status di pacificazione sociale risultante dall’assenza di turbamenti esteriori e dalla presenza generalizzata nel tessuto sociale del sentimento di sicurezza.
Entrambe le fattispecie fanno riferimento al profilo materiale dell’ordine pubblico con l’uso di una terminologia significativa: espressioni come «pubblico timore» (ricorrente in entrambe le fattispecie), «pubblico disordine», «tumulto», «sicurezza pubblica» (art. 6 l. n. 895/1967), «pubblica incolumità» (art. 421 c.p.) non possono che alludere al profilo materiale dell’ordine pubblico e indicano una direzionalità offensiva comune alle due fattispecie, a prescindere dai mezzi utilizzati. A nostro avviso, il profilo ideale o normativo dell’ordine pubblico, nell’accezione di conformità alle regole dell’ordinamento, non costituisce l’oggetto diretto di tutela, ma solo riflesso. Il bene giuridico così inteso rischierebbe infatti di evaporare nell’universo indistinto di tutte le regole ordinamentali e di identificarsi col rispetto pedissequo di ognuna di esse, comportando l’ulteriore rischio di far sussistere l’offesa in virtù di una “mera disobbedienza”, inidonea di per sé a turbare l’esteriorità dell’ordine della convivenza pacifica.
Preme sottolineare, pertanto, che i reati di intimidazione pubblica, i quali devono la loro valenza offensiva più che a un evento naturalistico di danno, alla forza intimidatrice della condotta, all’attitudine di essa a destare panico in una moltitudine indeterminata di persone, non sarebbero compatibili coi principi di offensività e materialità del fatto, ove si ritenesse che il bene pubblico protetto consista in una mera idealità. La descrizione legislativa del fatto tipico fa invece riferimento ai profili della sicurezza materiale, all’incolumità delle persone, ai sommovimenti esteriori dell’ordine che sortiscono in «saccheggi» e «tumulti», ad eventi che consistono in turbamenti reali e oggettivi della pace sociale; dunque, si incrimina l’offesa all’ordine pubblico materiale ed empirico.
Si può osservare peraltro che le fattispecie in parola sono caratterizzate da una maggiore ricchezza di contenuti e da una più dettagliata descrizione della dimensione offensiva rispetto ad altre, come l’istigazione e l’associazione a delinquere. Ne consegue la piena legittimità costituzionale dell’intervento penale, orientato alla protezione di un bene giuridico avente sostrato materiale ed empirico, la cui rilevanza costituzionale è sicura e innegabile, posto che lo status di pacificazione sociale è il fondamento stesso della sovranità di ogni ordinamento giuridico e di ogni assetto costituzionale.
Il reato ha natura sussidiaria poiché si configura a condizione che non rientri in altra più grave ipotesi criminosa. Il carattere residuale dell’incriminazione, dovuto alla clausola «salvo che il fatto costituisca più grave reato», si giustifica perché l’uso di materiale esplosivo, bombe, ordigni ecc., molto spesso, è diretto a cagionare danni alle persone e alle cose ben più gravi del solo turbamento dell’ordine pubblico, il quale sussiste in ogni caso: si pensi per esempio agli atti terroristici, puniti in maniera più grave, i quali non esauriscono la loro portata lesiva nel turbamento dell’ordine pubblico, ma necessariamente lo implicano (Rosso, G., Ordine pubblico (delitti contro l’), in N.D.I., XII, Torino, 1976, 170).
La fattispecie é a struttura mista in quanto comprende diverse modalità di consumazione (scoppio di bombe, uso di armi da fuoco, ecc.), tutte allo stesso modo offensive dell’ordine pubblico.
La menzione di un solo risultato offensivo a fronte di una pluralità di condotte strumentali esprime la fungibilità dei mezzi in relazione al fine. Ciò non significa solo indifferenza fra più modalità esecutive, ma anche complessiva equipollenza lesiva; di talché gli «esplosivi di ogni genere» non possono consistere in semplici “petardi”, ma devono possedere una capacità detonante e deflagrante similare a quella delle «bombe» e «ordigni» e gli spari delle armi devono avere una consistenza equiparabile, sul piano del risultato lesivo, a quella dello scoppio di bombe e ordigni (in tal senso Maiello, V., Pubblica intimidazione, in Enc. dir., XXVII, Milano, 1988, 917).
Tuttavia una differenza permane: mentre le espressioni «bomba» e «ordigno» designano un quid ad alto potenziale detonante e deflagrante e perdono senso al di sotto di quel livello minimo di offensività sufficiente a turbare la quiete pubblica, alludendo dunque a mezzi di per sé idonei, la stessa cosa non può dirsi delle rimanenti e generiche “materie esplodenti” e degli spari di arma da fuoco, l’idoneità dei quali deve essere accertata di volta in volta.
Il fatto di reato risulta integrato anche da un solo sparo di arma da fuoco, da un solo scoppio di bomba, ordigno o altro materiale esplodente giacché il legislatore ha usato il plurale «soltanto a scopo indeterminativo» (così Antolisei, F., Manuale di diritto penale, pt. spec., a cura di L. Conti, II, Milano, 1977, 689; Contieri, E., I delitti contro l’ordine pubblico, Milano, 1961, 157; Manzini, V., op. cit., 232; Maiello, V., op. cit., 915).
La plurima realizzazione delle condotte incriminate non darà luogo a una pluralità di reati, ma integrerà un solo fatto di reato. Il reato si consuma nel luogo e nel momento dello scoppio.
La nozioni di «esplosione» e di «scoppio» non designano qualsivoglia risultato dell’uso di armi e ordigni, bensì un risultato caratteristico, significativamente espresso nell’evento naturalistico della deflagrazione dotata di un’apprezzabile carica offensiva.
Nella nozione di «arma da fuoco» vanno comprese le armi da guerra e quelle comuni da sparo «capaci di lanciare uno o più proiettili mediante forza propellente che può essere generata dall’azione di un esplodente» (così, Vigna, P.L.-Bellagamba, G., Armi, munizioni, esplosivi, Milano, 1981, 55). «Bombe» sono quei congegni offensivi destinati «a liberare o sviluppare rapidamente energia, convenzionale o nucleare, gas tossici, sostanze corrosive, nebbiogene, incendiarie o fumogene» (Vigna, P.L.-Bellagamba, G., op. cit., 23). Per «ordigno» s’intende ogni involucro contenente esplosivo in senso tecnico o liquido infiammabile, idoneo a provocare uno scoppio (Cass. pen., 5.5.1981, in Riv. pen., 1982, 291). Le materie esplodenti sono quelle classificate dal Ministro dell’interno nell’allegato all’art. 83 t.u.l.p.s., ma l’elenco non è esaustivo e non vincola il giudice nell’identificazione delle «altre» materie (circa la nozione e la classificazione degli esplosivi cfr. Mazza, L.-Mosca, C.-Pistorelli, L., La disciplina di armi, munizioni ed esplosivi, Padova, 2002, 299). È fin troppo evidente che la norma (col termine «altre») allude appunto alle residuali materie esplodenti non identificabili come «bombe» e «ordigni», ancorché non ricomprese nell’elencazione ministeriale, aventi comunque caratteristiche detonanti e deflagranti similari. Si tratta di una clausola di chiusura, sicché il solo limite all’identificazione delle «altre» materie è costituito dalla menzionata “fungibilità” che comporta l’equiparazione della potenzialità lesiva. Nella norma incriminatrice non compare l’espressione «esplosivo di ogni genere», utilizzata nell’art. 1 della medesima l. n. 895/1967 e richiamata nel successivo art. 2. Ciò significa che non tutti gli esplosivi rientrano nell’alveo della norma, ma solo quelli idonei a provocare uno scoppio apprezzabile, equiparabile a quello prodotto con gli altri mezzi indicati (come «bombe o altri ordigni»), per l’ovvia ragione che i mezzi esplosivi possono dirsi fungibili solo se posseggano una stessa potenzialità esplosiva, ossia un’equivalente attitudine a provocare una conflagrazione ugualmente rilevante.
Il fatto illecito ha un sufficiente contenuto materiale, sia in relazione alla condotta, sia alle sue conseguenze. Il legislatore ha scelto la formula della tutela anticipata in virtù della quale il reato si consuma per il verificarsi della condotta, prim’ancora che sopraggiunga l’evento lesivo. Questo modello di tipizzazione pone qualche problema di compatibilità coi principi di materialità e offensività del fatto, il rispetto dei quali implica l’attenta verifica della intrinseca pericolosità della condotta. Ebbene, nel caso di specie, la verifica è positiva: nella pubblica intimidazione con materiale esplodente descritta dall’art. 6 sono tipizzate condotte sicuramente dotate di notevole efficacia lesiva, assicurando così il rispetto dell’elementare principio di civiltà giuridica secondo cui cogitationis poenam nemo patitur.
Il criterio di verifica dell’idoneità della condotta a turbare l’ordine pubblico materiale muta a seconda che consista nell’uso di bombe e ordigni, negli spari di armi da fuoco o nell’uso di «altre materie esplodenti»: nel primo caso il pericolo può dirsi presunto perchè l’offesa recata al bene giuridico è in re ipsa, nel senso che gli estremi tipici della condotta contengono in sé i caratteri dell’offensività; nel secondo caso, il vaglio dell’idoneità della condotta, che verte quasi interamente sull’efficacia dei mezzi utilizzati, è ulteriore rispetto alla verifica della mera sussistenza degli estremi tipici di condotta.
Le azioni del primo tipo, che sfociano nello scoppio di bombe e ordigni, implicano già la consumazione del reato perché le espressioni «bomba» e «ordigno» coincidono con gli estremi dell’attitudine lesiva: al giudice del caso concreto non rimane che verificare il finalismo soggettivo, dal momento che il giudizio relativo all’attitudine oggettiva della condotta a ledere il bene protetto è stato formulato dal legislatore.
In altre parole, gli elementi descrittivi connotano la condotta in modo tale che essa prende forma dal verificarsi del pericolo; l’uno e l’altra sono così intimamente connessi da immedesimarsi quasi del tutto, in guisa che non c’è pericolo senza la condotta. Per esempio, l’elemento descrittivo «scoppio di un ordigno» designa sicuramente qualcosa di più dello «scoppio di un petardo». Il quid pluris è dato ovviamente dalla maggiore detonazione e dalla maggiore capacità distruttiva del primo, il cui riflesso non è che la capacità intimidatrice e il turbamento dell’ordine pubblico materiale; sicché laddove non c’è il turbamento, non c’è nemmeno l’integralità di condotta.
È dunque superfluo l’accertamento giudiziale sulla concreta attitudine offensiva della condotta, in quanto il turbamento della pubblica tranquillità viene ricollegato agli estremi tipici dell’azione soggettivamente finalizzata. L’offesa al bene sussiste per il fatto stesso che l’agente abbia perseguito la finalità tipica con mezzi intrinsecamente idonei; sicché l’offesa, anche se si immedesima nella finalità soggettiva e non si configura come evento causale a sé stante, non risiede in una pura cogitatio, ma è facilmente desumibile dal fatto oggettivo descritto con l’uso di elementi semantici carichi di disvalore e rivelatori della potenzialità dannosa della condotta.
È bene precisare, tuttavia, che la condotta de qua non consiste nella violazione di una regola cautelare: il pericolo, ancorché presunto, non può dirsi al contempo “astratto”.
Ben diversa dall’omessa cautela si configura l’intimidazione realizzata col mezzo, intrinsecamente idoneo, di «bombe» e altri «ordigni»: qui la semplificazione probatoria recata dalla presunzione legislativa fa coincidere l’accertamento del pericolo concreto con la verifica degli estremi della condotta, descritta con termini pregnanti di per sé indicativi di attitudine lesiva. Insomma, l’idoneità offensiva inest rei ipsae e pertanto il giudice è esentato da valutazioni «concrete» ulteriori, rispetto a quella basilare riguardante la sussistenza della condotta. Sotto questo profilo, riteniamo che l’opinione dottrinale che richiede la valutazione dell’idoneità offensiva della condotta nel caso concreto (Antolisei, F., op. cit., 690; Contieri, E., op. cit., 157) non sia pienamente errata, nel senso che la verifica giudiziale della sussistenza della condotta contiene in sé la verifica dell’idoneità offensiva; ma non sia neanche pienamente corretta, nel senso che il giudizio di idoneità non è ulteriore, ma è implicito nella verifica della sussistenza degli estremi oggettivi della condotta avente per oggetto bombe e ordigni: se la valutazione del giudice fosse ulteriore si sovrapporrebbe alla valutazione compiuta dal legislatore – in cui si individuano correttamente la regola d’esperienza e la legge scientifica che connette fatto e offesa – con l’effetto di far venire meno la subordinazione dell’atto giudiziale alla legge.
Diversa è la verifica d’idoneità della condotta consistente in «spari di armi da fuoco» e uso di «altri materiali esplodenti» perché è ulteriore rispetto alla basilare verifica giudiziale che verte sulla sussistenza degli estremi di condotta. La ragione di tale diversità risiede nel fatto che queste espressioni semantiche sono meno pregnanti (rispetto a «scoppio di bombe e ordigni») potendo designare accadimenti meno gravi che non giungono alla soglia della rilevanza offensiva. Le armi da fuoco e le altre materie esplodenti non posseggono necessariamente una efficacia detonante e deflagrante tale da incutere necessariamente timore e panico. In particolari contesti infatti gli spari (o altre detonazioni) potrebbero risultare inidonei a turbare l'ordine pubblico: si pensi, ad esempio, a una folla di persone che continua indisturbata a prestare attenzione a uno spettacolo, nei cui suoni gli spari finiscono col confondersi. In questo caso, alla piena integrazione degli estremi di condotta non farebbe riscontro il verificarsi dell’offesa tipica; ciò può accadere in casi rari, ma può accadere, perché gli spari di armi da fuoco ex se non posseggono quella stessa capacità intimidatoria recata dall’espressione linguistica «scoppio di bomba». Dunque, l’idoneità causale a turbare l’ordine pubblico materiale degli spari e dello scoppio di «altre materie esplodenti» (fra le quali possono essere ricomprese le cd. bombe Molotov, in quanto mezzi idonei a suscitare il pubblico timore: Cass. pen., sez. I, 4.4.1979, in Cass. pen., 1981, 126) deve essere apprezzata in concreto dal giudice, a prescindere dalla compresenza degli altri elementi della fattispecie tipica.
Il reato è punito a titolo di dolo specifico. Gli estremi soggettivi della fattispecie sono integrati dalla volontà di usare i mezzi deflagranti sopra menzionati, finalizzata a incutere pubblico timore o suscitare tumulto o pubblico disordine o attentare alla sicurezza pubblica. Non è necessario il conseguimento dell’evento di lesione; è sufficiente la messa in pericolo dell’ordine pubblico mediante la condotta strumentale, intrinsecamente idonea o comunque idonea in concreto. D’altronde l’ordine pubblico, ancorché inteso nella sua accezione materiale, è pur sempre un bene sopraindividuale la cui lesione definitiva coincide con eventi insurrezionali o rivoluzionari di grande portata storica; sicché il suo turbamento attuale corrisponde pur sempre al pericolo, ossia a un’offesa già rilevante come lesione anticipata e potenziale.
Il timore e l’insicurezza pubblica rappresentano il risvolto soggettivo del nocumento recato allo stato materiale di pace; il sentimento di sicurezza è infatti la percezione dell’ordine pubblico da parte della comunità sociale. Il «tumulto» e il «pubblico disordine», cui è finalizzata la condotta illecita, costituiscono i profili oggettivi di un sommovimento che turba l’ordine pubblico materiale. In tutti i casi, il fine è quello di recare nocumento all’ordine pubblico materiale, che viene colto sia sotto il profilo della percezione (sociale) interiore, sia sotto il profilo dell’accadimento esteriore-empirico.
Nell’originaria formulazione dell’art. 420 c.p., il fine dell’agente era quello di incutere timore, suscitare tumulto o pubblico disordine. L’oggetto era costituito sempre e comunque da un evento lesivo, in qualche modo empiricamente rilevante (incussione di timore, tumulto, disordine). Con le modifiche apportate dall’art. 6 della l. n. 895/1967 è stato inserita una finalità il cui oggetto non consiste in un evento di danno, ma in un quid “preliminare” di dubbia rilevanza empirica. Infatti, il fine di attentare alla sicurezza pubblica ha per oggetto niente più che un «attentato», il quale si caratterizza per la direzionalità degli atti più che per il loro risultato. Questa tecnica di “ulteriore” anticipazione della tutela penalistica ha fatto sorgere qualche perplessità; tuttavia il criterio dell’idoneità degli atti, comune a tutte le fattispecie di attentato (per tutti, v. Gallo, E., Il delitto di attentato nella teoria generale del reato, Padova, 1966; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. gen., Bologna, 2005, 441), può fungere da valido correttivo ed evitare possibili violazioni del principio generale cogitationis poenam nemo patitur.
Il fine previsto non deve essere esclusivo. Il concorso di altri fini non fa venir meno la configurabilità del reato, sempre che tra i fini in concorso non sussista un rapporto di specialità che comporti il trasferimento del fatto sotto un più grave titolo di reato (artt. 422, 434, 289 c.p.).
L’elemento differenziale rispetto alla fattispecie contravvenzionale di «accensioni ed esplosioni pericolose» di cui all’art. 703 c.p. viene comunemente individuato nell’elemento psicologico (in tal senso, in dottrina, Contieri, op. cit., 170; Manzini, V., op. cit., 235; Vigna P.L.-Bellagamba, G., op. cit., 151. In giurisprudenza, v. Cass. pen., sez I, 22.9.2006, in Cass. pen., 2007, 11, 4306). Pochi dubbi possono aversi circa la sussistenza di tale differenza, dal momento che sicuramente la finalità intimidatrice, mancante nella contravvenzione, caratterizza la fattispecie delittuosa conferendole un più grave disvalore.
Molti dubbi possono aversi su un’altra questione, e cioè se sia questa l’unica differenza. A ben vedere, anche l’elemento oggettivo mostra qualche difformità, nel senso che muta la consistenza e l’intrinseca offensività dei mezzi usati. È vero che gli spari di arma da fuoco rientrano in entrambe le fattispecie, ma nella prima sono accostati a «bombe e ordigni», nella seconda a «fuochi d’artificio» e «aerostati con fiamme»; sicché risulta evidente che la consistenza e il grado delle deflagrazioni cui allude la norma sono ben diversi. Insomma, l’intento ludico dell’agente che traspare dalla descrizione della contravvenzione, non foss’altro che per il riferimento ai fuochi d’artificio e agli aerostati, si connette all’uso di mezzi con blanda efficienza esplosiva, mentre la finalità intimidatrice della fattispecie delittuosa si connette all’uso di mezzi di per sé più pericolosi, in quanto dotati di maggiore carica esplosiva e deflagrante.
Le due fattispecie sono autonome e non corre tra loro una relazione di interferenza necessaria e astratta. Sotto tale profilo, le due figure presentano caratteri peculiari sia sul piano degli interessi tutelati, sia in rapporto ai modelli di incriminazione: mentre la fattispecie delittuosa tutela lo stato materiale di pace, la contravvenzione presidia il bene della pubblica incolumità; mentre l’offesa del delitto è presunta dal legislatore, nell’art. 703 la “pericolosità” della condotta è requisito espresso di tipicità (sul punto, v. Maiello, V., op. cit., 917; De Vero, G., op. cit., 236 ss.).
In relazione agli interessi tutelati si può osservare che il bene della pubblica incolumità non è escluso dallo scudo protettivo della norma di cui all’art. 6: il bene dell’ordine pubblico è posto in posizione di preminenza, ma la preminenza “giuridica” non può alterare l’«ontologica» strumentalità dei beni sopraindividuali rispetto ai beni primari della vita e dell’incolumità delle persone fisiche. L’ordine e la pacifica convivenza non sono beni a sé stanti; al contrario sono beni mediati, perché posti a servizio di un fine che si chiama «uomo». Ne discende che il bene della pubblica incolumità, che poi è la somma delle incolumità individuali delle persone che compongono la cerchia indeterminata del «pubblico», rientra di riflesso nello scudo protettivo della norma incriminatrice dell’intimidazione pubblica, tanto più se si considera che una delle finalità tipiche è quella di attentare alla «pubblica sicurezza».
Si può inoltre osservare che l’interferenza eventuale e concreta tra le due fattispecie non può essere esclusa per il fatto che una volta la pericolosità della condotta è presunta e implicita, un’altra volta è espressa ed esplicita: si tratta in ogni caso di condotte pericolose. Anzi quella delittuosa è più intrinsecamente pericolosa della condotta contravvenzionale, sicché, per quanto le due fattispecie possano essere considerate autonome, si pone comunque il problema per l’interprete se applicare l’una, l’altra, oppure entrambe. Orbene, se l’autonomia fosse completa le due norme potrebbero concorrere. Sembra tuttavia più equo ritenere che il concorso sia solo apparente e in ogni caso la fattispecie più grave assorba la fattispecie meno grave. In conclusione, ci pare che non possa essere esclusa l’interferenza tra le due fattispecie, in relazione a determinati fatti storici.
Il delitto è sanzionato con la pena della reclusione da uno a otto anni, a seguito delle modifiche stabilite dall’art. 13 l. n. 497/1974.
Ai sensi dell’art. 2 l. n. 895/1967, la pena è ridotta di un terzo se il fatto è commesso con armi comuni da sparo.
Il nucleo della condotta illecita è costituito da una minaccia qualificata dall’oggetto. L’agente non prospetta un male generico, ma un male rappresentato dalla commissione di precisi fatti di reato descritti come «delitti contro la pubblica incolumità» e «fatti di devastazione e saccheggio».
È pacifico che l’espressione «delitti contro la pubblica incolumità», in omaggio al principio di stretta legalità, si riferisca esclusivamente al novero dei delitti compresi nel titolo VI del codice. Ma non tutti i delitti previsti nel titolo VI possono costituire oggetto della minaccia intimidatrice (cfr., per tutti, Manzini, V., op. cit., 240). Posto che l’intimidazione costituisce la ragion d’essere dell’incriminazione, la minaccia intimidatrice non può che consistere nella prospettazione di quelle figure criminose idonee ad incutere pubblico timore. Ne deriva che devono essere esclusi dall’oggetto della minaccia, in primo luogo, i delitti colposi; in secondo luogo, i fatti il cui annuncio si risolve in un avvertimento idoneo a scongiurare le conseguenze dannose dell’attività del colpevole; infine, i delitti contro la pubblica incolumità previsti dagli artt. 442-445 c.p., poiché ivi la condotta illecita consiste in un’attività seriale e continuativa («commercio» e «somministrazione»), incompatibile coi tempi istantanei, o comunque brevi, entro i quali si dovrebbe attuare la minaccia prospettata.
È controverso se sia configurabile il reato de quo nel caso di minaccia di realizzare il delitto previsto dall’art. 436 c.p., integrato da una condotta di «impedimento» e «ostacolo» alle comuni difese contro incendi, inondazioni e disastri. Un primo orientamento dottrinale nega la sua configurabilità opinando che la minaccia potrebbe essere percepita nella sua dimensione intimidatoria solo nell’attualità della situazione «disastrosa» descritta dalla norma e, dunque, a “disastro” presupposto, la minaccia sarebbe impossibile (così, Manzini,V., op. cit., 240). Altri asseriscono la configurabilità di una minaccia condizionata, ossia sottoposta alla condizione «se il disastro si verificherà» argomentando che tale formula di minaccia sarebbe astrattamente punibile (Maiello, V., op. cit., 919).
A nostro avviso, entro limiti molto ristretti, l’assunto della punibilità di siffatta minaccia è plausibile. Solo l’attualità della situazione disastrosa potrebbe dar luogo all’intimidazione derivante dalla minaccia di “impedire” oppure “ostacolare” le difese giacché non avrebbe senso una minaccia del genere in assenza del disastro, perché si dovrebbe minacciare prima il disastro e poi la condotta di ostacolo alle difese. Si capisce tuttavia che la minaccia del disastro non è credibile perché ha per oggetto un evento che sfugge al controllo e alla volizione dell’uomo, o comunque al controllo e alla volizione di chi minaccia. Sarebbe anche inefficace, a nostro avviso, la minaccia condizionata, perché la “condizione” sarebbe inverosimile e comunque troppo “aleatoria”. Insomma, è difficile ipotizzare, in concreto, che il reato in questione possa essere integrato dalla minaccia di commettere il delitto di cui all’art. 436 c.p.; tuttavia, non si può escludere in assoluto una simile eventualità. Supposto che il disastro sia già in corso, la minaccia di impedire oppure ostacolare le difese potrebbe sortire rilevanti effetti intimidatori in seno al consesso sociale.
I fatti minacciati di devastazione e saccheggio rientrano nella previsione tanto dell’art. 419, quanto dell’art 285. La minaccia di commettere uno solo dei delitti integra gli estremi del reato, come un solo “scoppio”, abbiamo visto, integra la fattispecie di intimidazione mediante l’uso di esplosivi; va da sé che la minaccia di commettere più delitti integra comunque un reato unico.
I fatti devono essere prospettati come «effetto della condotta, diretta o indiretta, singola o associata dell’agente». La minaccia è tale solo in quanto l’attuazione del male prospettato dipenda dalla volontà del soggetto agente; se dipendesse invece dalla “volontà di Dio”, dalle forze del “destino”, dalle congiunture astrali e similari, la prospettazione del male acquisterebbe le forme della predizione (del “profeta”, del “visionario”, del “veggente”, del “mago” ecc.) e non avrebbe i caratteri della minaccia (cfr. Padovani, T., op. cit., 2754; Rosso, G., op. cit., 170; Cass. pen., sez. I, 18.2.1952, in Giust. pen., II, 1952, 486).
Si tratta di un reato a forma libera poiché la minaccia può essere espressa con parole, scritti, e ogni altra modalità comunicativa.
La minaccia deve essere seria e grave, idonea a incutere timore. In mancanza di tali requisiti, viene meno il pubblico timore e non sussiste l’offesa che giustifica l’incriminazione. Il requisito di idoneità della condotta è elemento strutturale che si desume chiaramente dalla formula letterale («… in modo da incutere pubblico timore»). Se la minaccia è esercitata in modo “non idoneo” a incutere pubblico timore, il reato non sussiste. A prescindere dal testo letterale della norma, il requisito di idoneità si desume dai principi generali. Infatti, la minaccia non qualificata e generica deve comunque possedere efficienza intimidatoria, anche nel caso in cui sia incriminata di per sé, come nucleo autonomo e autosufficiente di fattispecie; in mancanza di siffatta efficienza, viene meno qualunque rilevanza penale, giacché non sussistendo l’intimidazione non sussiste alcuna coercizione alla libera determinazione volitiva del destinatario.
Peraltro non è sufficiente che l’idoneità sia valutata ex ante: è necessario verificare ex post che il pubblico timore sia stato incusso dalla minaccia. In conformità all’orientamento della dottrina dominante, riteniamo si tratti di un reato di evento causalmente legato alla condotta (De Vero, G., op. cit., 238; Maiello, V., op. cit.,, 919; Manzini, V., op. cit., 241). L’evento è costituito dall’avere incusso pubblico timore, la cui evidenza naturalistica non è esteriorizzabile dal momento che il timore è un atteggiamento del “sentire” e non dell’”essere”, e come tale attiene alla sfera dell’intimità; tuttavia non mancano le manifestazione esteriori di questo sentire, tanto più quando si tratta di un sentimento pubblico, comune a una moltitudine di persone.
Taluni qualificano tale elemento come condizione obiettiva di punibilità, estranea al dolo, facendo leva sul dato testuale della norma incriminatrice che non verbalizza la condotta di “cagionare”, ma ricorre alla locuzione «in modo da …» (Contieri, E., op.cit., 165). A nostro avviso tale locuzione, lungi dal descrivere una condizione estranea alla condotta, descrive la condotta stessa, alludendo alla modalità idonea a determinare il pubblico timore (in tal senso, v. Rosso, G., op. cit., 170). Ne consegue che il rapporto causale deve essere verificato sia ex ante, sia ex post: l’interprete deve fare una prima verifica ex ante sull’attitudine intimidatoria della minaccia e poi valutare se la minaccia abbia realmente sortito l’effetto di incutere pubblico timore (sul punto, Padovani, T., op. cit., ibid.).
Il verificarsi del pubblico timore segna il momento consumativo del reato, dal quale decorre il termine di prescrizione.
Non è necessario che determinate persone siano intimidite: la prova investe l’intimidazione di una pluralità indeterminata di persone destinatarie della minaccia.
Come s’è detto, il pubblico timore nella nostra accezione costituisce evento del reato, non condizione obiettiva di punibilità e pertanto rientra nell’oggetto del dolo. L’elemento soggettivo consiste, dunque, nella rappresentazione e volizione di minacciare reati contro la pubblica incolumità o fatti di devastazione e saccheggio, in modo che incutano pubblico timore (alcuni autori, come Manzini, V., op. cit., 242 e Vannini, O., Manuale di diritto penale. Parte speciale, Milano, 1951, 137, ritengono che il dolo inest rei ipsae. Prevale comunque l’opinione che il dolo debba essere accertato di volta in volta in base ai criteri comuni; così Padovani, T., op. cit., ibid.; Rosso, G., op. cit., 171).
Il tentativo è configurabile, anche se la sua eventualità appare piuttosto remota. A nostro avviso non si può escludere a priori che una condotta idonea di minaccia non sortisca alcun effetto intimidatorio per le circostanze fortuite del caso concreto. Certo, alla minaccia idonea corrisponde, di solito, l’effetto dell’intimidazione; talché, se l’effetto non si produce è corretto concludere che mancava ex ante l’idoneità della minaccia (in tal senso De Vero, G., ibid. Contra, Manzini, V., op. cit., 242, il quale esclude la configurabilità del tentativo). Tuttavia, il dato statistico non coincide sempre con quello logico: posto che la verifica ex post del nesso di causalità si diversifica dalla verifica ex ante, può mancare, nel caso concreto, la corrispondenza tra la minaccia idonea e l’incussione del pubblico timore per via di un accadimento imprevisto. Si potrebbe fare l’esempio di un messaggio televisivo, consistente in una minaccia idonea, che non sia andato in onda per circostanze occasionali non previste (si supponga un guasto improvviso agli impianti).
Qualora i delitti minacciati siano anche realizzati si avrà concorso di reati e non concorso apparente di norme. Non viene in gioco, infatti, il principio del ne bis in idem sostanziale perché il disvalore della fattispecie offensiva dell’ordine pubblico non può assorbire il disvalore della fattispecie offensiva dell’incolumità, né da questo può essere assorbito, per la diversità del bene giuridico protetto.
La pena è della reclusione fino a un anno.
Art. 421 c.p.; d.P.R. 19.8.1948, n. 1184 (Approvazione del testo unico delle disposizioni penali per il controllo delle armi); art. 4 l. 2.10.1967, n. 895 (Disposizioni per il controllo delle armi); art. 13 l. 14.10.1974, n. 497 (Nuove norme contro la criminalità).
Antolisei, F., Manuale di diritto penale. Parte speciale, a cura di L. Conti, II, Milano, 1977, 689; Contieri, E., I delitti contro l’ordine pubblico, Milano, 1961; De Vero, G., Intimidazione pubblica, in Dig. pen., VII, Torino, Utet, 1993, 233; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2005; Fiore, C., Ordine pubblico (diritto penale) in Enc. dir., XXX, Milano, 1980, 1084; Maiello, V., Pubblica intimidazione, in Enc. dir., XXVII, Milano, 1988, 911; Gallo E., Il delitto di attentato nella teoria generale del reato, Padova, 1966; Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, VI, Torino, 1983, 232; Mazza L.-Mosca, C.-Pistorelli, L., La disciplina di armi, munizioni ed esplosivi, Padova, 2002; Moccia, S., Ordine pubblico (disposizioni a tutela dell’), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 1; Padovani, T., art. 421 c.p., in Commento al codice penale, Milano, 2007, 2754; Patalano, V., L’associazione per delinquere, Napoli, 1971; Rosso, G., Ordine pubblico (delitti contro l’), in Nss.D.I., XII, Torino, 1965, 152; Vannini, O., Manuale di diritto penale. Parte speciale, Milano, Giuffrè, 1951; Vigna P.L.-Bellagamba, G., Armi, munizioni, esplosivi, Milano, 1981.