INTOLLERANZA
È l'atteggiamento di chi, nella religione come nella politica o nella scienza, sente così forte l'attaccamento per le proprie idee, opinioni, sentimenti, da non potere ammettere in alcun modo la manifestazione di un pensiero diverso, al quale in base unicamente a tale disformità nega qualsiasi valore; e pertanto intende anche la polemica soltanto come mezzo rivolto a quel fine più generale. Tale atteggiamento nasce dalla convinzione di possedere una verità assoluta e immutabile; pertanto l'intolleranza si distingue anche dall'intransigenza, che è prevalentemente d'ordine pratico. L'intolleranza, in altri termini, presuppone un'ortodossia: si tratta cioè non solo di difendere la verità, ma d'impedire ad altri di cadere nell'errore, considerato come per sé stesso pernicioso, anzi il peggiore dei mali, da evitare anche a costo di conseguenze gravissime.
Perciò non è esatto il parlare d'intolleranza o tolleranza a proposito del mondo antico e in genere delle religioni nazionali. In queste, infatti, gli dei venerati dal gruppo sociale, quand'anche venga attribuita loro l'origine non solo del popolo ma dell'universo, non sono mai posti come gli unici e veri, in confronto dei quali gli altri siano falsi, cioè addirittura inesistenti o, al più, esseri spirituali di natura inferiore e malvagia. Lo stato può, mediante riti opportuni celebrati da persone atte a compierli, sia accogliere nella religione ufficiale divinità di popoli che entrano a far parte dell'allargata compagine nazionale, sia ammettere che stranieri continuino ad adorare anche entro i suoi confini, purché fuori del territorio specialmente sacro, le loro divinità, sia anche allontanare dai loro adoratori e rendere favorevoli a sé gli dei dei popoli nemici che, privi così dei loro protettori divini, vengono più facilmente sconfitti. Di esempî di questo genere è ricca la storia religiosa dei Romani e anche - benché forse in minor misura - quella di altri popoli antichi. Le condanne dell'antichità, del resto non frequenti, per avere introdotto divinità nuove (come nel caso di Socrate) o per empietà (ἀσέβεια, v. asebia) o per ateismo contro filosofi, mirano soprattutto a colpire chi, volendo sovvertire con la propria azione individuale la religione e il culto ufficiali, compie in realtà un attentato contro il sentimento nazionale e contro la sicurezza dello stato. Così anche il senatoconsulto sui baccanali e la sorveglianza esercitata sui culti stranieri in Roma traggono origine dal bisogno che lo stato avverte di difendersi contro l'introduzione d'idee o pratiche ritenute da esso contrarie alla morale o all'ordine pubblico. Non si tratta, insomma, di tutelare una religione dello stato: cioè una religione superiore allo stato, che vi aderisce riconoscendola vera; ma una religione nazionale in quanto tale. Eccetto che per questa manifestazione di civismo, lo stato lascia libere le coscienze, che del resto non si sentono violate: tanto che non si hanno né scismi, né riforme, né proteste.
L'intolleranza è invece propria di religioni superiori e di tutt'altro tipo. Essa presuppone, come abbiamo detto, l'ortodossia: parte cioè dal concetto che i principî banditi da essa siano la verità assoluta, manifestata direttamente dalla divinità, unica vera e oltre la quale non ve ne sono altre, che si è compiaciuta di rivelare agli uomini sé stessa e la propria essenza, insieme con il modo di adorarla; e questa rivelazione è a sua volta depositata, in maniera definitiva e inalterabile, in libri sacri, che formano un canone, al quale non è lecito aggiungere o togliere nulla. Di qui l'apparente paradosso, che ad alcuni è sembrato, a torto, una vera e propria contraddizione, per cui alcune di queste religioni, perseguitate, hanno invocato per sé e sostenuto talvolta anche in principio una tolleranza che, vittoriose, hanno poi negata ad altre. Ma tale tolleranza veniva richiesta in nome di quella stessa verità, per cui sarebbe stato addirittura delittuoso permettere un'ulteriore propagazione dell'errore.
Accanto a queste, le stesse religioni - e rientrano nel gruppo non solo il giudaismo, il cristianesimo e l'islamismo, ma anche il buddhismo, lo zoroastrismo e il manicheismo - hanno altre caratteristiche comuni, logicamente e storicamente legate da un rapporto di stretta necessità con le prime. Si tratta, in primo luogo, di religioni soprannazionali e universali, che cioè dànno luogo alla formazione di una "chiesa", in senso proprio o in senso lato (v. chiesa, X, pp. 7 e 9); e, nello stesso tempo, appunto in quanto accolgono nel loro seno persone di qualsiasi stirpe o nazionalità, sono squisitamente individualistiche: anziché beni materiali a una singola nazione, promettono ai proprî seguaci, solo perché tali, beni spirituali: cioè, in sostanza, una "salvezza", che consiste essenzialmente nella liberazione dal male, con cui anche l'errore viene identificato. Giacché l'errore qui riguarda l'ultimo fine dell'uomo e i mezzi per conseguirlo: esso è, si può dire, precipuamente mancanza di fede; e la salvezza non è concessa che ai fedeli. Il problema della natura e dell'origine del male e il mezzo per sottrarsi a esso, pur tra la più grande varietà di concezioni, è ugualmente importante, anzi fondamentale, per tutte queste religioni, che possiedono tutte una soteriologia e un'escatologia fortemente permeate di principî etici.
Un'altra caratteristica è data dal fatto, che si tratta sempre di religioni "fondate": le quali cioè fanno dipendere la loro origine da un fondatore storico, al quale, come a colui che ha ricevuto la rivelazione divina, risalgono anche, direttamente o indirettamente, i libri sacri e il rituale. È questo fondatore che, in base appunto alla rivelazione, ha con una vera e propria rivoluzione o riforma religiosa sostituito le nuove credenze e le nuove forme alle antiche. Per chi considera le cose da un punto di vista esclusivamente storico, questo è anzi uno dei caratteri più appariscenti, forse quello che riveste maggiore importanza, in quanto determina tutto l'ulteriore svolgimento storico. "L'ortodossia è un concetto estraneo alle religioni naturali, e nazionali perché naturali. È, invece, propria delle religioni fondate. Le quali, originate come sono dall'opera personale di un Fondatore, portano in sé dalla nascita i germi di uno sviluppo conforme alla natura loro; e com'esse si formarono per separazione e protesta contro un'altra religione, così nel loro sviluppo accentuano questo loro genio separatista e "protestante"; e così dànno luogo successivamente a sempre nuove formazioni (sette) dello stesso tipo (per quanto l'una dall'altra distinte nella dottrina e nel culto), secondo un processo di progressiva divisione e suddivisione - ossia di progressiva differenziazione -, attraverso il quale si intensifica sempre più l'originario spirito di esclusività e separatismo, e quindi anche di intransigenza e di intolleranza" (R. Pettazzoni, La religione di Zarathustra, Bologna [1920], p. 187).
Tale sviluppo ulteriore viene invece a mancare nei casi di religioni che si presentano come fondate, ma da un personaggio mitico anziché storico (quando manca cioè la rivoluzione o riforma iniziale), e con un corpo di dottrine svoltesi anch'esse sopra una base mitologica e non incorporate in un canone di scritture sacre. Di questo genere sono, p. es., alcuni dei misteri del mondo antico, dei quali fu relativamente agevole l'assorbimento o, quanto meno, l'accoglimento nell'ambito delle religioni nazionali. Anzi, furono queste ad attrarre a sé tali religioni, per quanto tendenzialmente e in principio universalistiche, appunto perché meno vivo era nei loro seguaci quello "spirito di esclusività e separatismo" al quale si è alluso; ma non senza ch'esse, come si verificò, p. es., in Atene con il bruciamento degli scritti di Protagora, esercitassero una certa influenza anche sullo stato rendendolo, entro certi limiti, intollerante. Tuttavia, in questo caso, anche la formazione di un corpo di dottrine aventi carattere sacro e di una teologia vera e propria, su basi metafisiche - come si verificò, sotto l'influsso della filosofia del misticismo astrale, pur esso imbevuto di dottrine filosofiche e (per quei tempi) scientifiche, della gnosi e, in parte, dello stesso giudaismo e cristianesimo, in quel sincretismo che divenne la religione ufficiale dell'impero romano per il suo stesso carattere di formazione storica non dà luogo alla produzione di una vera e propria ortodossia e, pertanto, di nuove riforme e suddivisioni, ma lascia sempre un campo più largo alla speculazione e alle iniziative individuali. Così ci spieghiamo che, se il mondo antico conobbe, verso il suo tramonto, una forma d'intolleranza, della quale ebbero particolarmente a soffrire i cristiani, questa fu tuttavia propria d'una ristretta minoranza di persone colte e di classi dirigenti. Lo dimostra, fra l'altro, il vano tentativo di Giuliano l'Apostata che più d'ogni altro, forse, fra gli "ellenisti del suo tempo ebbe vivo il senso dell'ispirazione religiosa e si sentì banditore d'una dottrina rivelata e investito di una missione sacra: nella quale mentalità peraltro rivela più chiaro l'influsso subito da quel cristianesimo che voleva combattere.
Dalla coscienza del dovere che spetta al sovrano o allo stato di difendere e tutelare la vera religione nasce l'intolleranza pratica, che si manifesta nel campo della politica e del diritto, e consiste nel negare ai dissidenti religiosi eguaglianza di diritti: il che può avvenire in varî gradi, fino a considerarli come stranieri assolutamente privi di diritti o a espellerli dal territorio dello stato. Conviene tuttavia distinguere il caso in cui ciò sia motivato con ragioni di carattere nazionale, invece o accanto a quelle d'ordine religioso. Questa intolleranza vera e propria è correlativa a una particolare concezione dello stato, il quale, anziché la propria autonomia, afferma la sua dipendenza, diretta o indiretta, mediata o immediata, dall'autorità religiosa, alla quale il sovrano, poiché si limita ad assicurare il benessere materiale dei sudditi, sente di non potere, senza commettere a sua volta un peccato gravissimo, negare l'aiuto del "braccio secolare" contro gli eretici e gl'infedeli in genere. È dunque ben diverso da questo il principio in virtù del quale lo stato tutela in modo particolare una determinata religione, ma senza rinunciare alla propria assolutezza e alla propria natura etica, e argomentando semplicemente dal fatto che quella determinata religione è, storicamente, professata dalla grande maggioranza dei cittadini. In tal caso, infatti, il trattamento di favore è effetto d'una libera risoluzione presa dallo stato di propria iniziativa e non pregiudica la concessione della più ampia tolleranza o anche della piena libertà religiosa a tutti quei culti che lo stato medesimo, giudicando con criterî proprî, ritenga opportuno di ammettere.
Si è parlato, sin qui, di azione dello stato. È ovvio infatti che non possono essere presi in considerazione, per una discussione teorica, quei casi, anche appariscenti, anche gravissimi e storicamente assai importanti, d'intolleranza collettiva e anche individuale, dovuti all'esplosione violenta d'un sentimento, ma fuori dell'azione giuridica degli organi dello stato: nei quali, anzi, si ha il tentativo di sovrapporre all'azione di questi quella non autorizzata ed extralegale, anzi illegale, di singoli o di folle. In questi casi, quand'anche chi agisce in tal modo abbia non la sola convinzione ma la certezza assoluta di agire in virtù degli stessi principî, in difesa degli stessi interessi e nel modo stesso in cui lo stato agirebbe, si ha pur sempre una sovrapposizione all'opera dei poteri dello stato, che è ribellione; e che può giungere sino alla rivoluzione vera e propria, cioè alla piena e totale sostituzione di nuovi organi e nuove forme di governo alle antiche, ove queste non corrispondano più alle mutate esigenze e non sappiano più interpretare il sentimento nazionale. Ma, lasciando per ora questo argomento, è da avvertire, per la più esatta valutazione dei fatti storici, che anche la concezione moderna dello stato è il frutto d'una lunga e laboriosa evoluzione.
Dal punto di vista della morale cattolica, l'intolleranza si considera virtù, qualora essa si fondi in una convinzione sincera e genuina; oppure viltà quando sia dettata da cieco pregiudizio in connessione con interessi di ordine pratico o egoistico.
Bibl.: A. Bouché-Leclercq, L'intolérance religieuse et la politique, Parigi 1911 e rist.; R. Pettazzoni La religione nella Grecia antica, Bologna (1921), pp. 256, 288; E. Derenne, Les procès d'impiété... à Athènes, ecc., Liegi 1930; J. J. M. De Groot, Sectarianism and religious persecution in China, Amsterdam 1903-04, voll. 2 (Verhandeligen d. K. Akad. d. Wetensch., Abt. Letterk., n. s., IV, 1-2); v. inoltre: libertà; tolleranza; persecuzioni. Per la teologia cattolica, v. A. Vermeersch, La tolérance, Lovanio 1912.