Introduzione al mito e alla religione di Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La tradizione romana non possiede racconti favolosi, che narrano la nascita o le gesta di dèi ed eroi e sono popolati di creature soprannaturali. Da questo punto di vista si può affermare che i Romani non possiedono mythoi, alla maniera di quelli posseduti dai Greci. Essi hanno racconti che costituiscono i fondamenti della loro tradizione culturale e a cui attribuiscono speciale importanza: le fabulae.
I Romani possiedono miti, alla maniera dei Greci, oppure no? Ecco una domanda su cui si sono esercitate generazioni di studiosi – salvo che la risposta, nella maggioranza dei casi, è stata negativa. I Romani, si dice, non hanno miti. “Chiunque passi dalla trattazione della mitologia greca a quella della mitologia romana” scriveva Ludwig Preller in apertura della sua Römische Mythologie “dovrà presto rendersi conto che avrà a che fare non solo con un compito diverso, ma anche, per molti rispetti, assai meno remunerativo” (L. Preller, Römische Mythologie, Berlin Weidmannsche Buchhandlung, 1881-1883, I, 1).
Come dar torto a Preller? I Greci, con i loro poemi epici, le loro tragedie, la loro lirica – perfino i resoconti di Pausania, che si fa raccontare miti dalle guide locali – possono offrire ben altra messe al mitologo che si addentri nei loro territori. A Preller faceva eco Georg Wissowa, il più grande storico della religione romana, il quale poneva la questione nel modo seguente: “La religione romana non possiede racconti sacri (hierói lógoi), non conosce divinità con genitori e figli, non ha un mondo eroico capace di gettare un ponte fra il divino e l’umano. In una parola, non possiede una mitologia” (G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, München Beck 1971, 9). In effetti, non si può negare che siamo mal informati sui genitori di Silvanus o sui figli di Quirinus, mentre sappiamo tutto sulla stirpe di Zeus o su quella di Apollo. Quanto a George Dumézil, non stupisce che l’uomo delle ardite ricostruzioni – l’infaticabile indagatore di un passato già remoto al tempo che chiamiamo antico – avesse invece un atteggiamento più fiducioso. “Come tutti gli altri popoli indoeuropei” – scriveva – “anche i Romani, all’inizio, hanno ammantato di miti i loro dèi e basato lo scenario periodico dei loro culti sulle avventure delle loro divinità. Ma poi hanno dimenticato tutto. Capita tuttavia che sia possibile leggere ancora le tracce di quei miti nei rituali di cui essi davano a suo tempo ragione e che, con il passare del tempo, erano divenuti un rebus per gli stessi romani” (G. Dumézil, La religion romaine archaïque, Paris Klinsieck 1974, 65 sg.). Dunque la mitologia, a Roma, può essere considerata al massimo un segno, un’impronta lasciata sul rituale, alla maniera di una conchiglia fossile che, prima di dissolversi, ha impresso la sua valva sulla roccia. A Roma il mito si configurerebbe solo come una riemergenza dall’oblio collettivo, la soluzione di un rebus che solo il moderno mitologo – il quale, come Edipo, è abile solutore di enigmi – può permettersi il lusso di decifrare.
L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma la sostanza non muterebbe troppo. I giudizi da registrare risulterebbero di volta in volta sommari – i Romani sono troppo pratici, troppo duri, troppo presi dalla guerra e dalla conquista, per perdere tempo con i miti – oppure sfumati – un momento, qualche mito pur c’è! Non dimentichiamo i gemelli Romolo e Remo, la fondazione di Roma, il lacus Curtius... Ma al fondo resta sempre la persuasione che i Romani non hanno avuto “veri” miti. Quei pochi che possiedono (o che ancora ricordano, per pensarla come Dumézil), essi li hanno trasformati in “storia”, da buoni Romani pratici e concreti. Quanto al resto, ossia l’Ovidio dei Fasti o il Properzio del IV libro delle Elegie, meglio lasciar perdere. Il poeta di Sulmona ha troppa fantasia, mentre quello di Bevagna al tempo del IV libro ha perso l’ispirazione. E poi ha letto troppo Callimaco. Ma ci si è mai preoccupati di spiegare, preliminarmente, di che cosa sarebbero privi i Romani? Se si vuole accusarli di non aver posseduto miti, per difetto di fantasia o per sopravvenuto oblio, bisognerà almeno chiarire cosa si intende per mito.
Ancora una volta possiamo richiamarci alla definizione che di “mito” ha dato Walter Burkert (W. Burkert, “Mythos - Begriff, Struktur, Funktion”, in Mythos in mythenloser Gesellschaft, in F. Graf (ed.), Mythos in mythenloser Gesellschaft. Das paradigma Roms, Teubner Stuttgart und Leipzig 1993, p. 9 sgg.). “I miti sono racconti tradizionali forniti di una speciale ‘significatività’ (Bedeutsamkeit)”. Come abbiamo già avuto modo di rilevare, questa definizione si presenta sufficientemente semplice da risultare generale, ma anche sufficientemente specifica per destare fiducia. “Tradizionalità” da un lato e “significatività” dall’altro, ecco i due poli fra i quali scatta quella tensione che viene chiamata “mito”. Dunque sarebbero questi i racconti – i “miti” – di cui i Romani sono privi? Se è così, la situazione non sembra poi così tragica. Racconti “tradizionali” essi ne possiedono parecchi: l’arrivo di Enea nel Lazio, la nascita dei gemelli, la fondazione, l’uccisione di Remo... Né si può certo dire che essi siano privi di “significatività” per la cultura che li ha prodotti, visto che il maggior storico romano, Livio, ha cominciato la sua opera monumentale proprio da lì. Prima di proseguire su questo cammino, però, vediamo un aspetto importante della questione, anzi a essa in qualche modo preliminare. Se i Greci definiscono mythoi i loro racconti, come li chiamano i Romani? Che nome danno ai loro “racconti significativi”?
Li definiscono fabulae, utilizzando cioè il termine che, nelle lingue romanze, darà origine alla favola, alla fable e così di seguito. Si tratta di un tipo di racconto che, agli occhi dei Romani, possiede caratteristiche decisamente ambivalenti: da un lato infatti la fabula si presenta come discorso poco credibile, a volte favoloso, comunque più simile alla fama (la parola che circola “senza testa”) che non all’affermazione autorevole di cui si può indicare la fonte; dall’altro però la fabula costituisce anche un racconto che “si è sempre sentito”, che “ha sempre circolato”, e in questo modo ha acquisito comunque una sua autorevolezza (si veda in questo volume il saggio Le fabulae dei Romani di Licia Ferro). Di fronte alla fabula tradizionale il giudizio sarà insomma duplice: tutto dipende dall’importanza che si attribuisce alla tradizione che garantisce, a suo modo, la credibilità del discorso. Possiamo attenderci che la reazione individuale di fronte alle fabulae dipenderà dalla maggiore o minore importanza rivestita dalla tradizione cui esse fanno capo. Un’importanza spesso indipendente – e qui sta il punto più interessante – dal giudizio storico che si dà sul racconto in questione o sulla sua verosimiglianza. Livio costituisce, da questo punto di vista, un caso illuminante.
Parlando del passato mitico di Roma, lo storico dichiara infatti che non si possono né “dare per certe” (adfirmare) né “confutare” (refellere) queste notizie, avvolte di fabulae poetiche, che si tramandano riguardo alla fondazione di Roma e alle vicende che l’hanno preceduta (Livio, Ab Urbe condita, 1, Prefazione). Livio non prende posizione, non rifiuta questi racconti, però neppure li conferma. Il passato mitico di Roma è avvolto di fabulae, d’accordo, ma su quei racconti “favolosi” si fonda pur sempre la cultura della città. Come si fa a “rifiutarli”? L’attaccamento dei cittadini alle loro tradizioni, gli innumerevoli legami che queste fabulae hanno con i culti e le istituzioni della città, costituiscono una garanzia di tutto rispetto. Per non parlare delle opportunità o necessità politiche. Non dimentichiamo che Augusto, in quanto appartenente alla gens Iulia, si proclama discendente di Enea attraverso suo figlio Iulo. La supremazia del princeps, cioè, si fonda proprio su una di quelle fabulae che mettono in imbarazzo Livio.
Forse comprendiamo meglio, adesso, che genere di “miti” hanno i Romani. Racconti a carattere tradizionale che, certamente, si presentano distinti dalla storia – anche se, come sappiamo, Livio ha fatto loro largo spazio nei primi cinque libri della sua opera. Egli sa bene, anzi, che la storia, quella vera, inizia solo dopo, una volta conclusosi il tempo in cui gli accadimenti sono resi oscuri dall’eccessiva antichità e dalla scarsità di testimonianze scritte. A custodire il passato in quel periodo lontano, ci dice ancora Livio, è solo la memoria, e se qualcosa è stato tramandato nei commentarii dei pontefici e negli altri monumenta pubblici e privati, è stato comunque distrutto dall’incendio che ha divorato Roma quando è stata conquistata dai Galli. Solo dopo la “seconda origine”, la nuova fondazione della città sulle ceneri di quella che è andata distrutta, lo storico potrà finalmente passare alla esposizione di quegli “eventi della città più chiari e più certi” (Livio, Ab Urbe condita, 6, 1).
Torniamo dunque ai racconti che i Romani definiscono fabulae. Essi sono spesso poco credibili ma, nello stesso tempo, dotati di un notevole valore per la città e i suoi abitanti. Sono inverosimili ma affascinanti, storie sulla cui autenticità nessun intellettuale scommetterebbe ma di cui l’intera comunità (compresi gli intellettuali) potrebbe difficilmente fare a meno. Non si tratta certo di un fenomeno unico. La medesima condizione si realizza ogni qual volta si ha a che fare con quel tipo di narrazioni destinate a varcare le soglie del puro intrattenimento o della semplice registrazione di fatti, per assumere una qualche funzione – eziologica, religiosa, sacra – all’interno di una data comunità. Racconti importanti, ma i cui fondamenti resteranno invisibili a dispetto di qualsiasi sforzo venga fatto per identificarli. Si tratta di storie la cui autenticità e rilevanza è, in definitiva, autoreferenziale; e solo la potenza delle istituzioni che su di esse si fondano può cercare caparbiamente di ancorarle alla “storia” o almeno alla verosimiglianza, al “non si può escludere che”. In particolare, a garantire questo tipo di racconti, e insieme a offrirne la garanzia, sarà soprattutto lo spazio. Vediamo di che si tratta.
Anche la città di Roma, infatti, pullula dei segni di un passato fabulosus che orienta nella ricezione dei racconti, ovvero delle fabulae, che a essi si ricollegano. Quando Properzio decide di mostrare l’urbs al misterioso astrologo Oro, egli evoca davanti ai nostri occhi una galleria di luoghi, nomi e fabulae capaci di “documentare”come meglio non si sarebbe potuto il passato della città (Elegiae, 4, 1, 1 sgg.): là il Palatino, qua la rupe Tarpea, laggiù la casa di Remo, poi la Curia – ma non quella ricca e splendente di oggi, solo una capanna povera e adatta a senatori vestiti di pelli. “A quei tempi” continua il poeta nel suo insolito ruolo di guida “Alba Longa si ergeva ancora in tutta la sua potenza, città nata sotto gli auspici della bianca scrofa; e credimi, già solo andare a Fidene era un viaggio! Di quella Roma, i romani di oggi non hanno più che il nome: non riuscirebbero a pensare di aver avuto una lupa per nutrice”. Ecco un rapido scorcio dei luoghi che garantiscono le fabulae dei Romani e che, a quanto pare, la “laicizzazione” della cultura rischia di cancellare sotto la pressione dei tempi nuovi. Rovesciamo per un momento la prospettiva cronologica, e con l’ausilio della finzione virgiliana trasferiamoci nel tempo in cui gli avvenimenti descritti dalle antiche fabulae sono ancora “di là da venire”. Quando Enea si reca a visitare Evandro sul Palatino – ma ancora si chiamava Pallanteum – il re arcade mostra al visitatore troiano una mappa di luoghi che sarebbero divenuti leggendari solo “un giorno”, in un tempo ancora futuro (Virgilio, Eneide, 8, 370 sgg). Muta il punto di vista, ma non la sostanza, si tratta comunque dei luoghi delle fabulae: il bosco che Romolo avrebbe destinato ad asylum, la sede Tarpea, il Campidoglio e “gli armenti che muggiscono dove ora stanno le sontuose Carinae ed il Foro Romano”. All’indietro o in avanti, Roma ha una topografia che prende senso dalle antiche fabulae, così come quei racconti trovano la loro verifica nei luoghi che da essi prendono senso. Una verifica offerta dai luoghi, ma anche dai costumi e dalle pratiche culturali. E nel caso dei Romani, anche un riferimento costante al tempo in cui questi racconti rimandano: il tempo delle origini della città e degli accadimenti che a essi sono seguiti.