Introduzione alla filosofia del Medioevo Centrale
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
È luogo comune che l’Europa conosca una rifioritura in tutti i settori dopo il Mille e in effetti tra l’XI e il XIII secolo avvengono trasformazioni radicali nella vita politica, nell’arte, nell’economia e nella tecnologia, al punto che, per quei secoli, qualcuno ha parlato di “prima rivoluzione industriale”. Di questo rifiorire di energie fisiche e di idee se ne rendevano conto anche i contemporanei, e rimane celebre un brano del monaco Rodolfo il Glabro, il quale nasce proprio negli ultimi anni del primo millennio e inizia a scrivere le sue Storie circa 30 anni dopo. Rodolfo racconta di una carestia del 1033 dove sono descritti atroci episodi di cannibalismo tra i contadini più poveri, ma in qualche modo avverte che con l’anno Mille qualcosa di nuovo è avvenuto nel mondo e le cose, che sino ad allora erano andate malissimo, incominciano a prendere una piega positiva. Così che esplode in un brano, quasi lirico, e rimasto famoso negli annali del Medioevo, dove racconta come allo scadere del millennio la terra rifiorisse di colpo come un prato a primavera: “Si era già all’anno terzo dopo il Mille quando nel mondo intero, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si ebbe un rinnovamento delle chiese basilicali [...] Ogni popolo della cristianità faceva a gara per averne una più bella. Pareva che la terra stessa, come scrollandosi e liberandosi dalla vecchiaia, si rivestisse tutta di un candido mantello di chiese” (Historiarum III,13).
Il pensiero filosofico sembra partecipare di questa rinascita materiale e intellettuale. Non a caso è nel giro di un secolo dopo la scadenza del primo millennio che nascono le prime università, e università non significa soltanto insegnamento e ricerca ma anche continua migrazione di studiosi e studenti da paese a paese e pertanto superamento delle culture e tradizioni locali in una visione più ampia, più “europea” del sapere.
Se nei secoli precedenti la conoscenza era stata vista soltanto come commento della saggezza tradizionale, in questi secoli si fa strada un’idea di cultura come innovazione: l’aforisma celeberrimo per cui i contemporanei si consideravano dei nani sulle spalle di giganti, e pertanto dotati di prospettive più ampie dei loro maggiori, dimostra (comunque lo si voglia interpretare) l’idea che la ricerca sia sempre in qualche modo innovatrice.
In ogni caso tra XI e XII secolo si profilano figure di pensatori che sono diventati “giganti” per noi contemporanei: se pensiamo che la metafisica odierna sta ancora dibattendosi tra accettazione e ripudio dell’argomento ontologico di sant’Anselmo d’Aosta, o se pensiamo allo sviluppo che il pensiero filosofico ha avuto con la ricerca di Abelardo, se consideriamo che il problema degli universali (già posto nell’alto Medioevo da Boezio) assume una posizione centrale nel dibattito tra realisti e nominalisti – e che ogni teoria contemporanea della conoscenza fa in fondo ancora i conti con quella antica ma non superata questione – possiamo valutare la vivacità di pensiero che pervade questi due secoli.
La Scuola di Chartres, rileggendo l’unico dialogo platonico noto all’epoca, il Timeo, fonda una vertiginosa cosmologia; il pensiero mistico tocca vette altissime coi Vittorini, Bernardo di Chiaravalle o Ildegarda di Bingen; con l’opera di Giovanni di Salisbury si pongono le basi del pensiero politico moderno; Pietro Lombardo scrive un’opera, le Sentenze, che diverrà nei secoli successivi oggetto di commento costante e canonico. Anche la tradizione delle enciclopedie si arricchisce con autori quali Bartolomeo Anglico o Alessandro Neckham, preparando quella che sarà la grande sintesi enciclopedica del XII secolo, i quattro Specula di Vincenzo di Beauvais.
Se le dispute tra francescani e domenicani domineranno l’università del secolo successivo, è tuttavia nel XII secolo che nascono e si formano sia san Francesco d’Assisi che san Domenico di Guzman.
Non ultima annotazione, nel mondo musulmano appaiono nel X secolo Al Farabi, tra X e XI Avicenna e nel XII Averroè e al-Ghazali, tutti filosofi che eserciteranno maggiormente la loro influenza sulla scolastica del XIII e XIV secolo.
È nel XII secolo che inizia la riscoperta occidentale di gran parte dell’opera di Aristotele. Boezio nel VI secolo aveva tradotto tutto l’ Organon, ma solo una parte, e in forma largamente corrotta, aveva circolato per secoli, quella detta Logica Vetus, vale a dire le traduzioni delle Categorie e del De interpretatione, accompagnate da quella dell’ Isagoge di Porfirio e da alcuni altri trattati di Boezio sui sillogismi categorici e ipotetici, sulla divisione e sulla topica. Boezio aveva tradotto anche gli Analitici Primi, i Topici, gli Elenchi sofistici, ma queste opere non avevano circolato finché nel XII secolo non sono state riviste o ritradotte, dal greco o dall’arabo, assieme agli Analitici secondi (già tradotti da Boezio, ma la cui versione era andata perduta). Col XII secolo si traducono dapprima dall’arabo e poi dal greco anche i Libri Naturales: la Fisica, il De coelo et mundo, il De generatione et corruptione, le Meteore, il De anima, i Parva Naturalia. La Metafisica appare dapprima parzialmente in una translatio vetustissima di Giacomo Veneto e un’altra vasta porzione ne appare anche – dal greco – sempre nel XII secolo (translatio media). Tommaso d’Aquino avrà una versione completa solo quando Guglielmo di Moerbeke, completando la traduzione, gli fornirà anche il libro K. Al secolo XII risalgono anche versioni parziali dal greco dei Libri Morales. Le altre opere appariranno nel XIII secolo.
Questo immenso lavoro traduttorio ha avuto un’importanza decisiva sullo sviluppo della filosofia scolastica.
A
nselmo d’Aosta: pensiero, logica e realtà
Massimo Parodi
La famosissima prova ontologica dell’esistenza di Dio nasce nel contesto di un pensiero monastico e agostiniano. Ne parleranno Descartes, Kant, Hegel, Ne parleranno Russell, ma può essere compresa nella sua specificità solo entro la riflessione con cui Anselmo d’Aosta spinge fino ai propri limiti le possibilità della ragione umana.
La vita e il monaco
Anselmo d’Aosta
Memoria, intelligenza e amore di sé, la Trinità che è la mente umana
Monologion
Rividi spesso il mio scritto, e non vi trovai nulla che non si accordasse con gli scritti dei Padri cattolici e specialmente di s. Agostino. Perciò se ad alcuno sembrasse che in questo opuscolo io abbia detto qualcosa di troppo nuovo o contrario alla verità, lo prego di non proclamarmi subito presuntuoso assertore di novità o di falsità, ma di guardare prima attentamente il De Trinitate di s. Agostino e poi di giudicare in base a questo il mio opuscolo.
(Prologus)
[…] Non solo tutti i beni sono tali in virtù di un medesimo bene, e tutte le cose grandi sono tali in virtù di una medesima grandezza, ma tutto ciò che è, esiste in virtù di un unico ente.
(Cap. 3)
Giustamente dunque si può dire che la mente umana è a se stessa come specchio, nel quale può guardare riflessa, per dir così, l’immagine di quella realtà che non può vedere faccia a faccia. Se infatti la mente sola, fra tutte le creature, è memore di sé, si conosce e si ama, non vedo perché debba negarsi che in lei è una vera immagine di quell’essenza che sussiste in una ineffabile trinità per la memoria, l’intelligenza e l’amore di sé. O piuttosto si mostra ancora più veramente immagine di quella, perché di quella può essere memore, quella può conoscere e amare.
(Cap. 67)
A. d’Aosta, Monologion
Anselmo d’Aosta
Alla ricerca di Dio
Proslogion
Ma certamente ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo nell’intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe più grande. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell’intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell’intelletto e nella realtà.
(Cap. 1)
Hai trovato, anima mia, quello che cercavi? Cercavi Dio e hai trovato che Dio è la realtà suprema, di cui nulla può essere pensato migliore; che è la stessa vita, luce, sapienza, bontà, eterna beatitudine e beata eternità; che è dovunque e sempre. Se infatti non hai trovato il tuo Dio, come potrebbe egli essere ciò che hai trovato e che hai conosciuto con una verità così certa e così vera certezza? E se lo hai trovato, come mai non senti ciò che hai trovato? Perché l’anima mia non ti sente, Signore Iddio, se ti ha trovato?
(Cap. 14)
A. d’Aosta, Proslogion
Anselmo d’Aosta
Rettitudine e veridicità di una proposizione
De veritate
Diverse sono dunque la rettitudine e la verità di una proposizione, quando essa significa ciò che deve, e quando invece significa ciò che le si vuol far significare.
A. d’Aosta, De veritate
Nato ad Aosta nel 1033, intorno ai 26 anni entra nel monastero di Bec, in Normandia, dove diventa monaco e discepolo di Lanfranco di Pavia, maestro, priore e infine abate del monastero. Quando Lanfranco è nominato arcivescovo di Canterbury, Anselmo assume a sua volta la carica di priore e, dopo quindici anni, di abate. Seguendo le orme dell’antico maestro, alla morte di questi, Anselmo diviene il nuovo arcivescovo di Canterbury. Negli ultimi anni della sua vita, infine, si scontra ripetutamente con la corona inglese (Guglielmo II, prima, ed Enrico I, poi), a proposito della questione del rapporto fra potere temporale e potere spirituale che segna, nel corso del secolo, anche l’Europa continentale.
Anselmo muore il 21 aprile 1109, dopo una vita dedicata all’ideale monastico che, per gli uomini di questo periodo, rappresenta una scelta al tempo stesso religiosa, esistenziale e culturale. Come risulta chiaramente dalle sue lettere, in molte delle quali traspare un grandissimo affetto per i suoi monaci, egli ritiene quello monastico il modello di vita migliore da proporre e da praticare. Non si deve dimenticare che dal VI-VII secolo i monasteri sono anche gli unici centri di conservazione e diffusione della cultura, con la loro vita segnata dal rapporto con la parola copiata, letta, cantata, trasformata in preghiera e in meditazione. Del testo sacro, ma anche del mondo inteso come grande discorso rivolto da Dio all’uomo, si può fare oggetto di lettura, di riflessione intellettuale e di preghiera, secondo la scansione monastica della vita e dello studio quotidiani in lectio, meditatio e oratio.
Sono questi gli anni in cui sempre più puntuale si fa l’attenzione agli strumenti con i quali la ragione può aiutare a chiarire anche taluni contenuti della fede. Si accende ad esempio nuovamente la discussione, già sorta in epoca carolingia, sul modo della presenza di Cristo nell’eucaristia e in questa discussione è, infatti, del tutto evidente il confronto a volte aspro di posizioni a proposito del posto e della funzione della ragione. I due principali protagonisti ricorrono agli strumenti della logica per sostenere, come Berengario di Tours, l’impossibilità della presenza fisica del corpo e del sangue di Cristo, che violerebbe il fondamento aristotelico del rapporto fra sostanza e accidenti, oppure per concludere, come Lanfranco di Pavia, a favore di una presenza fisica e non solo sacramentale – segnica – sulla base di un’attenta analisi dei significati delle proposizioni.
Riprende anche, più o meno negli stessi anni, il dibattito trinitario che si allontana sempre più dal terreno analogico sul quale lo aveva affrontato e chiarito Agostino, per venirsi a collocare sul terreno della logica aristotelica dove è davvero difficile sostenere l’esistenza di predicati contraddittori, come unità e pluralità, in uno stesso soggetto. Roscellino di Compiègne, che non ammette alcuna realtà per sostanze non individuali, viene accusato di triteismo perché a tre nomi diversi si troverebbe costretto a far corrispondere tre sostanze diverse. L’accusa gli viene mossa proprio da Anselmo, che tuttavia per parte sua, nell’Epistola de incarnatione Verbi (Lettera sull’incarnazione del Verbo), propone analogie molto problematiche e faticose per dare conto della realtà trinitaria di Dio e accostamenti, a dir poco, discutibili alla questione del rapporto fra predicati universali e predicati individuali.
Anche Anselmo testimonia dunque la grande difficoltà, se non l’impossibilità, di parlare della trinità con linguaggio e procedimenti aristotelici, nel momento in cui sembra abbandonare egli stesso il modello di ragione analogico agostiniano, che pure aveva pienamente condiviso nelle prime sue opere. Quando scrive infatti Monologion e Proslogion, che senza alcun dubbio sono i suoi capolavori, si riferisce espressamente all’auctoritas di Agostino e, in particolare, al De trinitate, ma un’attenta lettura del percorso complessivo descritto nelle due opere mostra che non si tratta solamente di un richiamo all’autorevole lezione agostiniana ma di una vera e propria adesione ed esaltazione di quel modello di ragione.
Nella prima parte del Monologion vengono presentati tre argomenti per dimostrare l’esistenza di Dio, tutti fondati sull’osservazione della realtà creata – a posteriori si dirà successivamente – e basati su due presupposti di carattere metafisico, di chiara ispirazione neoplatonica: le cose non sono uguali in perfezione e tutte le cose che possiedono una medesima perfezione la possiedono in virtù di qualcosa di identico. Il primo argomento prende avvio dall’osservazione che tutti gli uomini tendono al bene o, come diremmo oggi, scelgono quanto ritengono per loro meglio. Per operare in questo modo occorre confrontare tra loro beni di natura diversa e quindi ricorrere a criteri di scelta che rappresentano beni sempre superiori; per evitare di ipotizzare un regresso all’infinito occorre ammettere che, risalendo nella scala di beni sempre migliori, si deve giungere a un Sommo Bene che rende buoni tutti i livelli inferiori. Lo stesso schema di ragionamento vale per la perfezione in generale e per la perfezione comune a tutte le creature – l’essere – e dunque porta ad ammettere l’esistenza di un Sommo Essere.
Dal momento che è questo essere sommo a dare esistenza a tutte le cose, lo si pensa come il soggetto della creazione dal nulla e quindi, come nel caso di un artigiano umano, caratterizzato da esistenza, da conoscenza – nel senso di un progetto di quanto produce – e dalla volontà di operare per la realizzazione del progetto. Ricompare il motivo trinitario agostiniano che consente, anche in questo caso, di fondare sull’articolazione delle facoltà della conoscenza umana – memoria, intelligenza e volontà – l’idea che l’uomo sia immagine e somiglianza del Sommo Essere.
Quando dunque Anselmo, avviando la riflessione del Monologion, dichiara programmaticamente di non voler ricorrere all’auctoritas della Scrittura, ma di voler fare riferimento alla sola ragione, lo si deve intendere come un preciso richiamo al modello agostiniano di ragione fondato sulla forza del procedimento analogico. Anselmo si propone inoltre di ricorrere esclusivamente ad argomenti necessari e alla luce della verità, e ciò non è in contrasto con l’apparente circolo vizioso per cui si pensa il Sommo Essere in analogia con un artigiano umano e quindi si scopre che l’uomo è immagine e somiglianza del Sommo Essere; la concezione trinitaria di creatore e creatura è esattamente ciò da cui dipende tutto il resto e dunque si regge sulla necessità di un legame che si impone in entrambe le direzioni e non si fonda su altro.
Prendendo avvio dall’esperienza umana, Anselmo giunge fino a proporre un’articolazione trinitaria del Sommo Essere e si comprende allora in che senso il Monologion vada considerato, secondo quanto egli stesso afferma, una meditazione che consente, a chi ancora non accetta la fede cristiana, di rendersi conto di cose di cui non è consapevole ma che scopre di sapere già e sulle quali deve prendere atto che si fonda il processo della sua conoscenza. Si tratta di un percorso che conduce fino all’ipotesi che il Sommo Essere possa venire identificato con il Dio cristiano e allora si pone il problema di approfondire queste conclusioni, cercando di ragionare direttamente sulle caratteristiche che si ritengono proprie del Dio della fede.
Nel Proslogion è esplicito il mutamento del soggetto che conduce la ricerca, rispetto all’opera precedente e infatti, in questo caso, si tratta della riflessione di uno che cerca di capire ciò che crede. La prospettiva si capovolge: nel Monologion si ragionava su una scala di perfezioni che si immagina chiusa verso l’alto, per evitare il regresso all’infinito, cogliendone alcuni caratteri sulla base di un’analisi indipendente dalla fede; ora invece è proprio la fede a consentire di fissare l’attenzione su quel limite sommo e di sviluppare il discorso collocandosi su quel livello che, per così dire, dal basso si poteva solo intravedere.
Anselmo si propone di trovare un “unico argomento” che, superando la molteplicità delle prove legate all’esperienza, possa dimostrare che la ragione deve necessariamente concludere che il Dio della fede esiste. È la fede infatti a insegnare che Dio è “ciò di cui non si può pensare il maggiore” in quanto dotato, e in grado massimo, di tutte le perfezioni. Anche chi nega l’esistenza di Dio, di fronte alla definizione appena ricordata, se ascolta le parole che esprimono il modo in cui deve essere pensato e le comprende, si forma un concetto corrispondente e non può negare che, a questo punto, ciò di cui non si può pensare il maggiore ha almeno l’esistenza mentale. Prescindendo totalmente dall’esperienza e mantenendosi rigorosamente nei limiti di un esame logico analitico della definizione, Anselmo sostiene, con un procedimento che verrà definito a priori, che l’esistenza mentale, in questo caso, implica anche l’esistenza extramentale. Se il concetto di ciò di cui non si può pensare il maggiore non comprendesse anche la perfezione dell’esistenza, sarebbe “pensabile” il medesimo oggetto con, in più, la perfezione dell’esistenza e dunque si dovrebbe ammettere la pensabilità di qualcosa più grande di ciò di cui, per definizione, non si può pensare il maggiore.
Ma quando il risultato intellettuale sembra definitivamente acquisito, Anselmo pare deluso e, rivolgendosi alla propria anima, pone una serie di domande: “Se lo hai trovato, come mai non senti ciò che hai trovato? Perché l’anima mia non ti sente, Signore Iddio, se ti ha trovato?” (Proslogion 14). È quasi l’ammissione di una sconfitta, come se il cammino percorso dall’intelligenza non fosse sufficiente. Nel capitolo successivo compare una nuova definizione di Dio, come qualcosa di più grande di tutto ciò che può essere pensato; sembra venire meno la possibilità addirittura di concepirlo e si apre la prospettiva della teologia negativa, secondo la quale a Dio non si adatta alcun predicato determinabile dalla mente umana.
È abbastanza evidente una struttura complessivamente trinitaria del discorso anselmiano: il Monologion fornisce il dato, presente nella memoria dell’uomo, anche se egli non se ne rende conto; il Proslogion è invece il momento dell’approfondimento da parte dell’intelligenza, condotto con gli strumenti della logica e l’aiuto fornito dalla definizione di Dio proposta dalla fede. E allora, secondo la grande lezione agostiniana, occorrerebbe coinvolgere tutte le facoltà della conoscenza, ma in questo caso è impossibile per la volontà mettersi in gioco completamente in un rapporto di amore pieno, se non è Dio stesso a prendere l’iniziativa. La delusione che segue alla scoperta dell’unum argumentum non è allora sconfitta, ma parte integrante di una prova ben più grande che si ottiene solo percorrendo tutto il cammino disegnato da Monologion e Proslogion.
Nel Proslogion compare anche un’ulteriore definizione di Dio come l’ente che esiste in modo così vero che non può neppure essere pensato non esistente. Lo stolto dunque, che provoca l’avvio della dimostrazione negando l’esistenza di Dio, non può in senso proprio pensarne la non esistenza, e dunque, di fatto, pensa solamente le parole Dio non esiste. Tuttavia il monaco Gaunilone di Marmoutiers, che critica l’argomento anselmiano in un breve scritto polemicamente dedicato alla difesa dello stolto, Liber pro insipiente, tra altre obiezioni usa proprio lo stesso argomento rivolto da Anselmo contro lo stolto: secondo Gaunilone, infatti, della definizione anselmiana si possono solamente pensare le parole, non certo formarsi un concetto. Anselmo, come Agostino, considera i concetti come segni mentali delle cose significate e, se la fede garantisce che la definizione ha un significato, apprenderlo equivale a formarsene un concetto. Gaunilone richiede la mediazione dell’esperienza, richiede cioè che un concetto sia in qualche misura immagine della cosa. Sono due modelli di conoscenza e di ragione che non possono comprendersi.
È evidente, da quanto si è detto, la centralità nella riflessione anselmiana dell’interesse per il rapporto tra linguaggio, pensiero e realtà.
Nel De veritate Anselmo distingue la capacità comunicativa di una proposizione, che essa possiede per il semplice fatto di avere un significato, dalla sua verità, che si ha solo quando la proposizione compie ciò che deve, è recta, e significa le cose come effettivamente sono in realtà. Quando la proposizione si comporta in questo modo consente alla conoscenza di percorrere lo stesso processo creativo divino che si sviluppa dal progetto nel Verbo, alle parole con cui Dio pone le cose, fino all’essere delle cose il cui significato sta appunto pienamente nel progetto originale. La sua rectitudo altro non è che la direzione che permette di adeguare la conoscenza ai significati delle cose contenuti nel Verbo divino.
La verità piena di una proposizione è dunque la sua rettitudine, in senso sia morale sia conoscitivo, concepita in se stessa, con la sola mente, si potrebbe quasi dire: a prescindere dall’esistenza stessa della proposizione. In questo senso si può allora parlare di verità anche nel caso dei pensieri, della volontà, delle azioni e delle cose. Le cose in particolare sono sempre vere perché sempre fanno ciò per cui sono state create; esse hanno ricevuto l’essere proprio per facere veritatem e identico scopo deve regolare tutti gli altri casi ricordati, per cui all’uomo è richiesto di coniugare logica ed etica per produrre verità.
Questioni linguistiche di carattere più tecnico vengono discusse da Anselmo nel De grammatico che affronta la questione se il termine “grammatico” sia sostanza o qualità. Vengono dunque approfonditi i termini definiti denominativi, quelli cioè che derivano da una radice comune ad altri termini da cui differiscono tuttavia per la forma, come forte da fortezza, o “grammatico” appunto da “grammatica”. Un termine come “uomo” significa direttamente e unitariamente l’insieme dei caratteri di cui un uomo consta, e dunque prioritariamente significa la sostanza che sorregge tutti gli altri caratteri, che neppure potrebbero esistere senza quella; invece “grammatico” significa direttamente la “grammatica” e indirettamente l’“uomo” o, per meglio dire, significa la “grammatica” e denomina l’“uomo”. In questo, come in altri casi, Anselmo insiste sulle differenze che esistono tra linguaggio comune e linguaggio tecnico, tra l’uso normale che viene fatto di certe parole e le loro proprietà particolari. Ritorna, anche in questo contesto, il riferimento alla rectitudo intesa come il corretto uso dei termini tesi a recuperare il significato delle cose, mentre riconoscere autonomia al piano del discorso rischia di condurre al massimo della irrazionalità, all’ipotesi cioè di poter trarre conclusioni sulla realtà fondandosi sulle regole del linguaggio.
Questa grande attenzione di Anselmo al significato dei termini e alle regole del discorso, pur declinati in un contesto teorico ancora agostiniano, mostrano quanto si stia diffondendo e consolidando l’uso della logica nelle discussioni filosofiche e teologiche e quanto l’abate del monastero di Bec sia collocato in uno dei passaggi decisivi che portano verso il futuro metodo scolastico.
Nel Cur Deus homo Anselmo si domanda per quale motivo la soddisfazione del peccato originale non possa essere affidata se non a un Dio-uomo. L’uomo deve pagare il proprio debito, ma nessuna creatura inferiore sarebbe in grado di offrire a Dio una soddisfazione adeguata: è molto interessante osservare che argomentazioni che sembrano richiamare categorie feudali di ragionamento – come debito, soddisfazione, adeguatezza, rango di perfezione – si mescolino e si armonizzino con minuziose analisi dei termini fondamentali come potere, necessità e volontà.
Le idee di necessario e necessità, applicate a Dio, non possono in alcun modo pretendere di limitarne la potenza: nel caso di Dio si può parlare esclusivamente di necessità conseguente, quella che deriva dal semplice fatto che, se una cosa esiste, non è concepibile che sia e non sia nel medesimo tempo. Si tratta in ultima analisi della necessità logica derivante dal principio di non-contraddizione, per cui si può dire che gli avvenimenti della storia della salvezza si sono verificati necessariamente in un certo modo, ma solo perché di fatto in quel modo si sono verificati.
Ulteriore problema affrontato da Anselmo, con grande attenzione alla complessità e molteplicità dei temi coinvolti, è quello della libertà e del libero arbitrio, in opere come De libertate arbitrii, De casu diaboli e De concordia praesicientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio. È un’improprietà del linguaggio quella di definire la possibilità di peccare come una forma di potere e quindi concepire il libero arbitrio come la possibilità di peccare o non peccare; il peccato è un’impotenza, una mancanza e non certo un’opportunità positiva. Ancora una volta un’attenta considerazione delle proprietà dei termini consente di arrivare a una più coerente definizione di libero arbitrio come potere di conservare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine stessa.
La grande fortuna avuta nei secoli successivi dall’unum argumentum del Proslogion ha fatto diventare Anselmo una specie di figura mitica di rappresentante della forza della ragione, nella sua totale armonia con la fede, o addirittura di campione dell’idealismo che trova nella razionalità delle cose il fondamento della loro realtà. Occorre tuttavia non dimenticare l’esaltazione della ragione agostiniana in Monologion e Proslogion, così come la coniugazione sempre più stretta di tale modello con un’attenzione precisa alle analisi linguistiche e all’uso della logica, che avviano un progressivo superamento del modello agostiniano verso una nuova ragione logico-disputativa destinata ad affermarsi nelle nuove scuole del XII secolo e nelle università del secolo successivo.