Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La letteratura di un’epoca è una pluralità di modi o di lingue che non si lascia ridurre a una definizione unitaria, tanto più nel Seicento, allorché la “repubblica delle lettere” comincia a dividersi in corrispondenza all’avvento progressivo degli Stati nazionali. Ma non c’è dubbio che un elemento comune del paesaggio verbale secentesco consista proprio nel barocco. Per “barocco” intendiamo una sensibilità e una tecnica espressiva che esaspera la raffinatezza sino all’ossessione dell’artificioso e fa della metafora il suo strumento fondamentale, il suo principio dinamico, con una radicalità e un’ampiezza ignote al Rinascimento.
Introduzione
Il termine di “barocco” con cui oggi si designa la cultura del Seicento o una sua parte può avere una doppia origine: vi è chi la lega al portoghese barroco, spagnolo barrueco, con il suo significato di “perla irregolare”, e chi invece pensa a una figura del sillogismo scolastico del tutto formale e improduttivo, chiamata appunto “baroco”.
Ma in entrambi i casi si indica qualcosa di negativo. Infatti già nel Settecento, tanto in Francia quanto in Italia, “barocco” diventa l’equivalente di bizzarro e stravagante, soprattutto in rapporto all’arte e all’architettura.
Solo alla fine dell’Ottocento, con l’Impressionismo e il Simbolismo, il termine assume un valore nuovo per descrivere una trasformazione profonda del gusto e dell’ordine rinascimentale. Così il suo duplice etimo, liberato dal pregiudizio classicistico di una norma immutabile, rimanda nel nostro dizionario moderno alla realtà storica di una visione del mondo e delle sue forme di autorappresentazione attraverso l’immagine e la parola. Quanto alla letteratura, si deve subito dire che sin dai primi anni del secolo essa afferma e riflette un’ansia febbrile del nuovo. Al pari dell’universo, muta anche la biblioteca del passato, mentre la tradizione viene assunta come una sorta di grande museo da esplorare e ricomporre secondo le ragioni o le velleità di un tempo moderno, diverso da tutto ciò che lo ha preceduto.
La letteratura di un’epoca è una pluralità di modi o di lingue che non si lascia ridurre a una definizione unitaria, tanto più nel Seicento, allorché la “repubblica delle lettere” comincia a dividersi in corrispondenza all’avvento progressivo degli Stati nazionali.
Ma non vi è dubbio che un elemento comune del paesaggio verbale secentesco consista proprio nel barocco. Per “barocco” intendiamo una sensibilità e una tecnica espressiva che esasperano la raffinatezza sino all’ossessione dell’artificioso e fanno della metafora il suo strumento fondamentale, il suo principio dinamico, con una radicalità e un’ampiezza ignote al Rinascimento.
Scoprendo nuove corrispondenze e somiglianze tra gli oggetti del reale e del dizionario, la metafora dà luogo all’“acutezza”, al Witz, al wit, all’ésprit, alla agudeza, ricostruendo l’universo in uno spazio immaginario, in cui deve entrare anche ogni lettore.
All’imitazione si sostituisce la trasfigurazione o il travestimento. Ciò che si produce è un mondo sdoppiato, ricco di metamorfosi e di giochi analogici, un “teatro pieno di meraviglie” come spiegava Emanuele Tesauro. E la metafora allora ha la stessa funzione di una macchina ottica: essa scruta e illumina i paradossi dell’apparenza attraverso le rifrazioni della parola.
Gli avversari della poetica dell’“ingegno” e dello “stupore” si appellano subito, non appena si moltiplicano i suoi esempi, alla misura del classicismo e della ragione. Ma anche la macchina metaforica nasce da un impulso scientifico, da una tensione di conoscenza nello specchio mutevole del linguaggio.
Occorre soltanto la forza convinta e ardita dello scrittore (Góngora o Donne).
Nella sua ricerca dell’inedito e del sorprendente, la poesia barocca dilata e modifica per almeno tre generazioni la tematica della tradizione lirica senza più rispettare le differenze stilistiche dei “generi”. Da una parte vi entrano figure e situazioni quotidiane eccentriche e dall’altra aspetti naturali o spettacolari, oggetti e manufatti curiosi come l’orologio, il compasso, il telescopio, la fontana, l’automa. La natura e l’arte, quest’ultima insieme alla tecnica, contribuiscono a fornire un repertorio di immagini canoniche, una collezione sontuosa di modelli figurativi che esaltano nello stesso tempo la permanenza e il divenire, convertendosi con il favore della moda in altrettanti clichés. Tra essi spiccano, poiché trascendono la letteratura e investono una metafisica dell’esistenza, le grandi metafore cosmiche della vita come teatro (theatrum mundi) e del mondo come libro (liber naturae), che acquistano nel Seicento l’autorità di simboli esistenziali della storia dell’uomo moderno.
Nel loro intreccio complicato di peripezie e di conflitti, gli avvenimenti divengono le scene di un grandioso teatro, i segni e le figure di un libro che bisogna decifrare come la mappa incompiuta di un labirinto. È un processo di visualizzazione drammatica che contraddistingue tutta la cultura e l’antropologia di un secolo tumultuoso, diviso tra antiche e nuove certezze.
L’Emblematica
Non si può intendere la civiltà della metafora secentesca se non la si pone in rapporto con una mentalità a cui bisogna dare il nome di “emblematica”. Dopo il tardo Rinascimento si diffonde progressivamente la fortuna delle imprese e degli emblemi, essendo questi ultimi raffigurazioni pittoriche di oggetti che illustrano un concetto, spiegato a sua volta da un epigramma di commento. Le imprese invece non mirano a un insegnamento morale valido per tutti, ma si riferiscono sempre a un individuo particolare, a un personaggio eminente, designato per via di metafora attraverso una “pittura” e un “motto”. Di qui un linguaggio insieme visivo e verbale, costruito per estrarne un significato; e di qui ancora la procedura corrente di una visualizzazione simbolica, a cui deve corrispondere un’iconografia vivida e sensuosa, un po’ come accade nei manifesti pubblicitari dei nostri tempi. Ma l’emblema fa parte di una società della festa e della corte, implica un codice di etichetta e soprattutto un’idea del cosmo che parla ancora all’uomo con la sola verità dei suoi disegni divini.
Così, mentre la scienza scopre un universo silenzioso e neutrale, non più antropocentrico, la retorica comunicativa dell’emblema e del blasone continua a credere in una natura dove tutto può essere metafora e illuminazione del microcosmo umano. Non stupisce quindi che nella loro polemica contro gli ateisti e i libertini gli scrittori della nuova apologetica cattolica e cristiana uniscano l’emblematica e l’osservazione naturalistica per riaffermare il piano divino interno al mondo e alla sua prodigiosa struttura d’opera d’arte.
La teatralità barocca
La civiltà visiva del Seicento è tutt’uno con quella teatrale. Si direbbe proprio che tutte le sue manifestazioni, anche nella pluralità dei costumi e delle geografie sociali, siano regolate da una legge dell’ostentazione e della teatralità, da un bisogno dell’effetto scenografico in un sistema di rigide gerarchie. Se la vita è un teatro, ogni uomo interpreta un ruolo come attore del proprio “io” profondo. Questa convinzione non viene soltanto dall’interno di una coscienza riflessiva: essa scaturisce soprattutto dalla registrazione stessa degli eventi, in un’epoca di guerre, di crisi, di colpi di scena, di conflitti, di rivolte, di eroi e di masse senza nome. E il secolo vede nascere così il teatro moderno tra il linguaggio tragico di chi affronta il proprio destino e la gestualità vitale della commedia dell’arte. Da Shakespeare a Calderón de la Barca, da Gryphius a Vondel, da Corneille a Racine, il dramma dell’uomo viene esplorato ed espresso nel contrasto terribile del potere e dell’amore, nella polarità di illusione e costanza, nell’ansia di una grandezza votata al silenzio, nell’orrore del desiderio e del peccato. Il mito e la storia ubbidiscono alla stessa attualità, tanto più quando il dramma piega verso la commedia con il suo riso spesso non meno ambiguo.
La retorica studia le antitesi e i paradossi della frase. Ma ora le antitesi e i paradossi si trasferiscono nella sintassi esistenziale dell’uomo e regolano sulla scena il suo pathos di fantasma incarnato in un corpo e in un gesto. Dal gioco combinatorio della scrittura si passa, insomma, al gioco combinatorio della vita e della sua rappresentazione.
Il teatro si fa misura dell’essere umano, sia che egli confidi ancora nella trascendenza, sia che si rivolga a una fattualità conclusa in se stessa ma enigmatica, dall’auto sacramental spagnolo alla history inglese.
La teatralità barocca si ritrova anche nella predicazione, nell’oratoria sacra, avendo come scena la corte, la città, la piazza, la campagna. Sono infatti gli anni travagliati della controffensiva cattolica sancita dalla riforma tridentina, in cui il fervore della propaganda invade ogni campo dell’arte e l’architettura diventa una retorica spaziale del coinvolgimento emotivo. Accanto all’eloquenza della “acutezza” e dei suoi virtuosismi intellettuali, destinata a un’élite accademica, ecco imporsi un’oratoria più austera e diretta, anche quando punta sull’iperbole di un’oralità commossa e consapevolmente drammatica. Il suo destinatario non è più soltanto il letterato, ma anche l’uomo comune, l’uomo del popolo, nella massa urbana o contadina.
Il predicatore deve essere ora anche un missionario, e nella sua predica, tanto più se si tratta di un padre gesuita, riecheggia presto il ricordo della nuova epica missionaria, in Asia come in America. Così il sublime degli orizzonti lontani e degli spazi esotici non più solo leggendari si fonde con il canone sacro di un sublime biblico, quale lo codificava per tutto il secolo il De eloquentia sacra et humana (1619) del padre Nicolas Caussin.
Il romanzo e la divulgazione scientifica
Se la letteratura del Seicento in un’Europa divisa e confusa costituisce un insieme che si articola in un sistema gerarchico di generi e di registri stilistici, un posto particolare e di nuovo sorprendente rilievo spetta al romanzo. Il genere romanzesco sale imperiosamente alla ribalta e si affianca a quello epico per rappresentare le peripezie dell’esistenza nelle strutture mobili ed aperte della prosa. Cervantes ne è quasi il genio tutelare. Il romanzo barocco può essere eroico, sentimentale, storico, picaresco, enciclopedico, pastorale, utopico, quasi come uno specchio multiplo di una società e delle sue forme di vita differenziate verso l’alto e verso il basso.
Attraverso le convenzioni di un immaginario riavvicinato al presente, l’avventura e la prova danno consistenza alla storia di un destino o alla formazione di un’individualità, che può essere anche quella di una donna, picaresca o aristocratica, magari précieuse. D’altro canto, nel nuovo mercato librario comincia a disegnarsi anche un pubblico femminile, teatrale e romanzesco. È stato detto che il romanzo barocco rappresenta l’espressione di una coscienza linguistica galileiana, ossia di una logica molteplice dei punti di vista, entro cui si costituisce l’osservazione sul mondo. Per questo il suo emblema più vero sembra essere la strada, il luogo degli incontri e delle conoscenze in divenire sulla mappa sempre precaria e aggrovigliata del reale. E non stupisce neppure che ai romanzieri si affianchino i viaggiatori con le loro testimonianze avventurose ma vere.
Il romanzo porta anche alla biografia e, se vi si aggiunge l’introspezione mistica, al viaggio interiore nello spazio dell’anima, sino ai fantasmi secolarizzati del romance.
Al pari di una nuova scienza della natura, matematica e sperimentale, si costituisce anche una scienza dell’uomo, un’antropologia interpretativa dei suoi comportamenti, che mette a frutto in una sintesi tutta moderna l’etica aristotelica, il neostoicismo cristiano e il probabilismo della retorica, senza ignorare, ma tacendola, la lezione implacabile di Machiavelli.
Nel contesto di una corte ormai identificata con lo Stato assoluto, l’uomo viene descritto come un attore lucido e sospettoso poiché, come ammonisce il Gracián dell’Oracolo manuale, la vita è “milizia” contro la “malizia” umana. È necessario dunque guardare di là dalle apparenze, dietro le maschere e le facciate, il gioco nascosto delle passioni e degli interessi, sapendo decifrare l’intrigo e il segreto delle macchinazioni sempre in agguato.
La saggezza sta, dunque, in questo desengano, in un’arte severa e attenta della “dissimulazione onesta” che, sola, può difendere la libertà della coscienza. Chi legge i moralisti del Seicento pensa subito a una pittura di grandi vortici di ombre e di luci, di contrasti cupi, violenti, estremi, nel gusto di un teatro caravaggesco. L’impressione si fa ancora più precisa quando si considera la loro prosa: una prosa di struttura saggistica a periodi brevi, ad antitesi appuntite, a cadenze secche, in cui si realizza l’ideale di uno stile senecano o laconico (uno style coupé), non a caso al centro delle polemiche letterarie nei primi decenni del secolo. È un altro tratto barocco dell’Europa, sullo sfondo della guerra dei Trent’anni e della Fronde.
Dalla scienza galileiana e poi newtoniana viene alla letteratura una prosa razionale di comunicazione scientifica, assai diversa da quella dell’enciclopedismo aristotelico e delle sue varianti magico-naturalistiche. Essa si contrappone al costume ludico dell’acutezza, al virtuosismo dell’erudizione analogica, in nome di una scrittura piana e naturale, che vuole indirizzarsi anche all’artigiano, e le nuove accademie scientifiche, da Roma a Londra e a Parigi, confermano tutte questo costume della chiarezza argomentativa, aliena dagli orpelli dell’ornamentazione barocca. Ma il Galileo del Saggiatore, che in fondo è una specie di discorso del metodo prima di Cartesio, dimostra anche come possa darsi una retorica del vero, un’ironia dell’intelligenza indagatrice, capace di congiungere l’esattezza di una dimostrazione o di un esperimento con i modi affabili e vari di una conversazione appassionata. Il dibattito scientifico sanziona nuovi generi comunicativi quali la lettera, il rendiconto, la notizia, la replica dialogata, la memoria, e invita all’eleganza della naturalezza rifiutando l’enfasi di un vecchio rito accademico. È uno scienziato anche Pascal che scrive le Provinciali contro la casistica dei Gesuiti: solo che qui l’eleganza si converte in lucidità quasi feroce, in ironia armata di sarcasmo inflessibile.
Il classicismo barocco
Sin dagli inizi del secolo, non appena s’infiamma la moda dell’acutezza metaforica, coloro che la condannano come una corruzione del gusto ripropongono l’etica di un classicismo per così dire virile e non effemminato, in cui l’ingenium abbia il suo contrappeso armonico nel iudicium e nel principio concomitante del “decoro”.
A parte i conservatori di stretta osservanza, i letterati che si sentono moderni ma estranei a una retorica dell’intellettualismo astratto e insieme sensuale, optano per una poetica degli effetti e del pathos, rifacendosi a una teatralità interiore sul modello di uno stoicismo in cui entra anche, per i cattolici, la spiritualità degli Esercizi di Ignazio di Loyola. Così, insieme con un dialogo polemico che si ramifica di decennio in decennio, dalle discussioni sull’Adone del Marino sino a quelle sul Cid di Corneille, si sviluppa in più centri un’esperienza di poesia che si dichiara oraziana e pindarica, gnomica e lirica, con un’inflessione drammatica. Il suo equivalente più alto, se dall’Europa continentale si passa all’Inghilterra, è il Paradiso perduto di Milton, oramai nella sfera di un’estetica del sublime e della magnanimità puritana.
Ma il vero approdo del classicismo barocco sembra la letteratura del Grand Siècle, quello che corrisponde al lungo regno di Luigi XIV il Grande (1643-1715), tra Molière, Racine, Bossuet e Boileau, allorché essa si integra nell’ordine e nello splendore di una monarchia assoluta. Allora l’idea della classicità si ricongiunge all’intuizione di una bellezza fondata sulla natura e sul vero e apre così la strada all’Europa letteraria del sentimento e della ragione, mentre la querelle degli antichi e dei moderni colpisce anche il barocco. Basta però dare ascolto all’alto e puro parlato di Racine per riscoprirvi le tensioni e i mostri interiori del secolo: l’apoteosi e le rovine, l’eros e la tristezza funebre, la grazia e la malinconia nera, il sole e le tenebre che non hanno confine. Tanto sulla scena quanto nella solitudine di una biblioteca o di uno studio il Seicento è davvero il secolo della contraddizione e del genio.