Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il secolo dei filosofi e dell’Encyclopédie, il secolo di Newton e della ragione scientifica sembrerebbe anche il secolo della prosa nelle sue molteplici varietà stilistiche e nella sua sorprendente ricchezza di forme discorsive che vanno dall’eloquenza sino alla conversazione, al dialogo con il lettore su tutto ciò che interessa l’uomo e il suo universo culturale. Si direbbe non ci sia posto per la fantasia se non come veicolo del vero e della riflessione, tanto più dopo il grande fuoco d’artificio della stagione barocca e l’esempio francese del grand siècle, regalmente apollineo.
Così la poesia del primo Settecento riordina su dominanti razionalistiche il mobile gioco combinatorio dell’ingenium secentesco e lo converte nel wit regolato delle poetiche arcadiche e cartesiane, in nome di un classicismo che ripropone con sapiente mestiere e con lucida misura la precisione visiva dell’ut pictura poësis, dove la parola ha il profilo di un oggetto e la nitidezza di un disegno geometrico ornatamente essenziale. Il gusto che vuole faire aux yeux briller la vérité si allea al bon sens e al culto rigoroso, ma elegante, della tradizione. Di qui deriva una lirica neo-oraziana di moderno decoro e anche aperta ai toni alti dell’ode, una poesia didascalica e satirica che da Pope a Parini attesta una vitalità pari alla squisitezza, e infine la celebrazione poetica della scienza e dei suoi eroi che immette nell’universo newtoniano, ormai muto e anonimo come una grande macchina perfetta, l’incanto decorativo delle favole antiche.
Ma la natura non è soltanto un museo di allegorie e personificazioni, cosmo strutturato dalle leggi di una meccanica razionale, perché l’uomo che pure ne fa parte reca in sé quella che Locke aveva definito uneasiness, l’inquietudine, l’aspirazione a qualcosa che manca, il turbamento di una condizione emotiva connaturata all’essere umano.
E per la generazione letteraria che si affaccia alla ribalta europea dopo la metà del secolo è proprio questa consapevolezza a orientare una nuova ricerca poetica che alla regolarità della ragione oggettiva sostituisce la forza del sentimento individuale, l’entusiasmo non più inteso come eccesso irrazionale – secondo quanto ammetteva Shaftesbury – ma come fervore, intensa emozione, verità profonda di un io che deve ascoltare solo se stesso. Non per nulla si sviluppa la discussione sul carattere autonomo del genio e dall’empirismo scaturisce l’estetica, ossia la filosofia di una sensibilità creativa, della pulcritudo cognitionis sensitivae. Non è più il tempo dell’eros galante, del divertimento, del capriccio rococò, ma dell’elegia campestre, della meditazione in rapporto diretto con la natura, dell’inno grave e appassionato che – come in Klopstock – attinge il linguaggio dell’interiorità dall’esperienza del pietismo. In una natura dove per il razionalismo non hanno più posto i valori simbolici del sacro, presenti ancora nel grande tempio barocco, la poesia tenta di recuperare il mito e lo cerca all’interno della parola, nel profondo della voce, mentre rimanda a un corpo e al suo oscuro contesto di passioni e impulsi indistinti. Come intuisce Burke, il sublime, cioè la percezione di uno spazio smisurato, pone fine al classicismo delle idee chiare e distinte e la parola non funziona più come uno specchio – per usare una formula critica di comodo – ma come una lampada, come una rivelazione che scaturisce dall’idea stessa del linguaggio. D’altra parte come dimenticare Vico, Herder o forse anche Diderot, e la riscoperta di una vitalità verbale legata a un mondo primitivo e a una storia iscritta nel corpo vivente di ogni metafora? Quanto più la modernità afferma se stessa, tanto più si direbbe che sperimenti il fascino del primordio, dell’origine lontana; ed ecco, infatti, lo straordinario di un falso quale l’Ossian di Macpherson e più ancora il ritorno alla grande poesia biblica all’insegna del sublime. Così, se al primitivo ebraico subentra la classicità come la ricostruisce il pagano e neoclassico Winckelmann contro il capriccio della rocaille e del barocco – essa diviene a sua volta il luogo della felicità perduta, l’utopia di un reale che coincide con la forma, quasi un paesaggio d’esilio investito dalla luce struggente di una nostalgia.
La stessa Weimar di Goethe è il simbolo regale della rinuncia.
A parte il Blake dei Songs of Innocence, lo Schiller poeta degli Dèi della Grecia non può che commemorare una perdita e un’assenza, a cui associa nello stesso tempo il mito moderno del poeta sentimentale che si riconosce – fra Rousseau e Kant separato dalla natura e dunque solo con il destino di cercarla e di ritrovare la verità e l’innocenza anche nello “stato artificioso” della cultura. Il Prometeo dello Sturm und Drang finisce così in un Ulisse introspettivo alle prese con l’odissea del proprio spirito diviso, simile forse al Torquato Tasso di Goethe. E non sorprende che al di là dei differenti genî e codici nazionali nel linguaggio poetico dell’ultima generazione settecentesca, formatasi fra razionalismo ed empirismo, affiori una nuova intonazione drammatica e un’incisività ritmica proiettata verso lo spazio vertiginoso di una fantasia interiore, in cui fermenta anche l’ansia riflessa del sogno rivoluzionario. La musica, poi, con il suo possente slancio sinfonico restituisce anche alla parola una scandita e libera densità semantica. I miti rinascono come archetipi della coscienza moderna, come geroglifici di un’immaginazione consapevole del “disincanto” che è ormai connaturato alla sua stessa potenza metaforica di unire il soggetto e l’oggetto, l’io e la natura infinita.
Dalla statua alla tela del ragno
Nel corso del secolo il meccanismo della scienza barocca si trasforma in sistema di forze meccaniche, in cui anche l’individuo – la monade di cui ragionava il grande Leibniz – è un vivo centro dinamico. Ma per il Condillac del Traité des sensations l’uomo somiglia piuttosto a una statua, a una sorta di automa che si anima lentamente sotto gli impulsi dei desideri e delle reazioni del proprio organismo sensoriale a contatto con il mondo esterno.
Questa concezione sensistica trova un fondamento biologico nell’analisi medica dell’irritabilità nervosa, soprattutto per merito di uno scienziato e poeta come lo svizzero Haller, e l’automa meccanico si precisa nell’aspetto funzionale di uno strumento vibrante, quasi un concerto organico di sensazioni. Non è un caso, infatti, che da Hume a Rousseau, per non citare Diderot, la sensibilità nel suo tessuto di fibre e nervi sia concepita come un complesso strumento musicale, all’interno di un universo fisico dove valgono solo le leggi dell’acustica, delle vibrazioni nell’aria e tra i corpi. Se poi La Mettrie nell’Homme-machine ritorna al modello dell’automa e dell’orologio, Montesquieu si richiama invece al modello della tela di ragno – anch’esso di origine barocca – per concludere che “on ne peut remuer un de ces fils sans le mouvoir”. Fragile e prodigiosa, la tela rappresenta appunto la trama delle sensazioni, l’architettura mobilissima delle associazioni psichiche, il teatro effimero dei fantasmi che formano la vita della coscienza e il suo legame indissolubile con il caso. Così, più l’empirismo e la medicina portano l’attenzione sulla dinamica interna della natura umana, più nel sistema razionalistico si incunea l’ombra di un’origine oscura, come una dissonanza che sorga dall’universo informe degli istinti. Anche sulla strada della sensibilità, quando la si scandaglia nel profondo, si intravede la componente problematica dell’uomo e la letteratura è appunto uno di questi scandagli, magari sotto forma di un arabesco e di un divertimento.
La critique universelle fra prosa e poesia
La varietà sinuosa della linea serpentina, teorizzata da Hogarth per rendere il capriccio della mutevole bellezza, non prende corpo soltanto nell’enciclopedismo problematico del Tristram Shandy, ma anche nella mappa composita dell’esperienza letteraria settecentesca, sovvertendo i confini dei generi istituzionalizzati ed esaltando quelli tanto meno canonici del romanzo, dell’autobiografia e del melodramma, accanto alla favola, al pamphlet, al rendiconto scientifico, al capriccio satirico e al resoconto erudito che si fa a sua volta romanzesco. A fianco del classicismo normativo si insedia un laboratorio di combinazioni più libere e inquiete che hanno nella critica il loro centro generativo, anche quando vi dominano la grazia e la leggerezza digressiva del rococò. Si afferma un nuovo stile, colloquiale e sorridente, vivo e sciolto sino all’accento più quotidiano della prosa di giornale e del saggio d’attualità sul commerce des hommes. L’acutezza critica può allearsi allora con il gusto satirico e affidarsi tanto all’epigramma quanto all’esprit della commedia, mentre la poesia si avvicina alla prosa come vuole Houdar de La Motte quando nell’ode la Libre eloquence raccomanda il verso libero in quanto più aderente all’oratio soluta del pensiero. Allo stesso modo il verso raffinatissimo (che Pope adotta nel The Rape of the Lock o Parini nel Giorno) trascrive la critica di costume – di casa nel romanzo – nel registro capovolto di una mock epic deformata dalla stilizzazione maliziosa della parodia. Anche nel tono alto della tradizione didascalica si impone alla fine la qualità media della prosa, la stessa che si trova nel realismo romanzesco di un Fielding, soprattutto quando egli dialoga con il lettore tra le maschere di una mitologia derisa. E insieme con la satira e il genere breve della letteratura epigrammatica rivive il microcosmo della favola, dopo il prodigio di La Fontaine, con Lessing, Mandeville e Gozzi. È nella fiaba, infatti, che il meraviglioso della decorazione rocaille, ospitando animali parlanti, oggetti magici, cabale astrologiche coniuga insieme un’antica saggezza popolare e una ragione ideologica tutta moderna. Ma il fiabesco può nascondere anche l’orrore, quello che si cela nel racconto allegorico dei Gulliver’s Travels, nel nichilismo paradossale di Swift; mentre nel conte filosofico di materia francese, dalle Lettres persanes a Candide e Micromégas, l’ironia è a un tempo secca e festosa, alla maniera di un balletto che l’assurdo dei costumi umani e l’illusione di ogni pensiero sull’armonia possibile dell’universo, soprattutto dopo il terremoto e la catastrofe di Lisbona. Lo scrittore volterriano intrattiene con il suo lettore una sorta di dialogo socratico di un vero non più metafisico, ma pratico, legato alla condizione fisica dell’uomo. Il pathos della ragione si annulla così nel virtuosismo inventivo delle sue agili marionette, nello scatto di una prosa tanto funambolica quanto naturale sempre, per così dire, a colpo sicuro – ormai lontano dall’orizonte patetico dell’homme sensible, pronto anche alla commozione del pianto.
Dalla natura immutabile alla passione oscura
Se il realismo descrittivo sembra ubbidire a una logica pittorica, a mano a mano che l’intelligenza critica – soprattutto con il Laocoonte di Lessing – distingue le arti del tempo da quelle dello spazio, la parola drammatica si fonde con quella epica dell’uomo appassionato che è la potenza di una voce primigenia, remota e insieme presente; ed è in questa prospettiva che si tornano a leggere Omero, Dante e Shakespeare fuori dalle convenzioni della “bella natura”, soprattutto allorché il grande Johnson della Preface interpreta Shakespeare come il poeta della general nature, ossia dell’universalità delle passioni che appartengono a tutti i tempi e a tutti i luoghi.
La traduzione di Letourneur adatta poi la lingua shakesperiana alla cultura francese, ma l’effetto resta lo stesso – anche se non raggiunge l’altezza della tradizione tedesca – dallo Sturm und Drang sino a Schiller, dopo la rivolta contro il gusto classico e razionalistico di Francia.
L’imitazione della natura nella sua verità non più idealizzata consiste proprio nel far parlare le passioni e i loro conflitti, in quello scatenamento fatale che il Voltaire tragico ignora nella retorica declamante del suo teatro e che invece non sfugge al furore alfieriano del Saul, non per nulla in consonanza con l’Enquiry di Burke e con la sua rivendicazione del terrible power del sublime. Ma già prima di Burke, quando ancora era intatto il principio dell’ut pictura poësis, nell’Essai sur la poésie et la peinture Dubos correla il piacere estetico della sensibilità all’intensificarsi dell’emozione e illustrando la dinamica dell’organismo psichico Condillac nel Traité des sensations sostiene che “il desiderio è il più pressante dei nostri bisogni, sicché appena un desiderio è soddisfatto ne pensiamo un altro”. Passione e desiderio costituiscono, dunque, il fondo vitale dell’uomo.
Nell’antitesi fra noia e inquietudine, torpore e sensazione forte che ricorre nei testi di poetica, ma anche in quelli di confessione autobiografica se non addirittura di diario – come quando Madame du Deffand scrive “l’ennui est l’avant gout du néant, mais le néant lui est préferable” – va forse cercata una delle radici del sublime che Burke ricava come categoria psicologica, e non più retorica, dall’associazionismo di Locke e Hume e dall’empatia positiva nei confronti di uno spettacolo tragico che, anche se doloroso, diletta.
Attraverso l’analisi dell’Enquiry il sublime si contrappone ora in modo definitivo al bello, perché di là della sfera dell’ordine, dell’armonia, della chiarezza si estende lo spazio indistinto dell’oscurità e della notte, della verticalità e dell’abisso, di ciò che è immenso e informe, dove la sensazione dominante per l’uomo che ne fa esperienza è un orrore mescolato al piacere, un brivido che è anche euforia. Si entra così in un universo di passioni buie, di trasalimenti ambigui, di sensazioni attonite ed esaltate, le stesse che più tardi nella Critica del giudizio Kant trascende e rimuove nel sublime intellettuale di una mente capace nella sua finitezza di concepire l’infinito.
Ma il sensualismo associativo di Burke, che presuppone la vitalità di un corpo sfiorato dalla minaccia dell’annientamento, trova ben altra corrispondenza fuori dalla parola e dalle sue perturbanti suggestioni negli incubi figurativi di Füssli o Piranesi e nei deliri atroci dell’ultimo Goya visionario. Infatti il dibattito intorno al sublime, a cui presto si aggrega la variante attenuata del pittoresco, annuncia un mutamento di gusto che, a partire dagli anni Sessanta, si esprime nella cultura e nella vita quotidiana con il bisogno dell’anomalo, dell’eccitante, del sensazionale: è l’age of sensibility – come oggi qualcuno la designa – se non addirittura di una sorta di preromanticismo. Caduti i confini ordinati di una natura agréable, idealizzata nei giardini all’italiana non meno che nei boschi di Parnaso, sugli scenari della letteratura irrompono paesaggi aspri e selvaggi, desolati e rupestri, solitudini di rovine e foreste misteriose percorse da viandanti che ne subiscono la sottile fascinazione, mentre interiorizzano l’atmosfera e il terrore. L’Ossian di Macpherson celebra appunto questa immaginazione che invade il reale, sospesa fra elegia e canto di guerra al suono di un’arpa gaelica, sul ciglio di una montagna, dinanzi a un cielo in tempesta in una notte di luna. E i lettori se la porteranno dentro a lungo, da Goethe ad Alfieri, da Rousseau al giovane Napoleone; ma alla fine, anche dopo i perigli nell’esotico e nell’eccentrico, le passioni si confrontano con il quotidiano, con il paesaggio domestico di una città o di una campagna, dove ciò che cambia con l’uomo è la casa e il suo interno borghese, dalla scala al caminetto, al divano, ai tendaggi.
Il pittoresco della realtà, accanto a quello della rêverie, ci riconduce al teatro e più ancora al romanzo.
Il quotidiano, il teatro, il romanzo
Così come si insinua nel melodramma – dalla sapienza sentimentale di Metastasio al patetico enigmatico di Da Ponte reinventato da Mozart – l’analisi delle passioni nel loro gioco diretto all’interno della macchina sociale – non più della cour, ma della ville – diviene il centro della rappresentazione teatrale, sia che si tratti della commedia larmoyante o di quella di costume, con lo sguardo appuntito sulla vita di ogni giorno anche nella tragedia borghese, che poi si converte in dramma e in messa in scena dei conflitti umani entro un mondo senza eroi.
Sale alla ribalta una nuova intimità sentimentale, un realismo della vita borghese e un eros che diviene affetto, un modo di essere della coscienza libera e franca e insieme una comicità interna alle cose e alle situazioni con un contrappunto spesso satirico che ha una funzione di giudizio critico anche quando non nasce – come in Beaumarchais o in Lessing – dallo spirito condiviso dell’Aufklärung. Ed ecco così animarsi una prosa dalla conversazione quotidiana anche nei suoi accenti melodrammatici, quasi a specchio di una gerarchia sociale quanto mai precisa e concreta, come dimostra la Venezia di Goldoni. In questo contesto diventa chiaro, allora, perché contro le accuse di immoralità rinnovate dal ginevrino Rousseau, al teatro venga riconosciuto un ufficio morale che coincide con un atto di conoscenza e di apertura critica verso la socialità come spettacolo. E in ultima analisi è la stessa difesa che viene fatta per il romanzo, ora che finalmente, dopo le premesse barocche, se ne incomincia a esplorare lo statuto così problematico rispetto alle gerarchie della tradizione classica.
Non vi è dubbio che il romanzo abbia una parte principale nel sistema letterario del Settecento e ne costituisca l’asse più orientato verso il realismo, se per realismo si deve intendere l’esplorazione dei rapporti umani nella dimensione domestica di una storia privata e nella fattualità di una cronaca variamente avventurosa. Con il trionfo del romanzo, inoltre, si afferma una mescolanza di generi e di stili che portano alla sperimentazione di nuovi termini narrativi, giungendo sino al caso limite di Sterne, mentre ai temi delle passioni e degli affetti si intreccia il momento dell’economia, la dialettica degli interessi e del guadagno in aggiunta a quella del potere, calata a sua volta nel mondo familiare.
Se da una parte si confrontano un mondo aristocratico e un mondo borghese, dall’altra si raffigura l’individuo medio che costruisce il proprio mondo non più da picaro ma da borghese operoso, e il Robinson Crusoe di Defoe ne diviene il paradigma anche nel suo ottimismo puritano. Separandosi dal romance, il romanzo in quanto novel si identifica con il genere dell’individualità moderna, della soggettività che compie la propria esperienza accanto ad altre e scopre in se stessa un Bildungsroman, cioè una storia che si sviluppa, una formazione che prende corpo d’incontro in incontro, di prova in prova.
In questo nuovo orizzonte narrativo anche il mondo femminile acquista consistenza significativa e non solo perché costituisce un pubblico più largo al quale si può destinare la produzione romanzesca. Di fatto la femminilità diviene ora la controparte dell’educazione sentimentale con i volti memorabili, come altrettanti ritratti, di Moll Flanders, Julie, Mignon, Pamela, Thérèse, la presidentessa di Tourvel e Charlotte, per tacere di Fanny Hill e Justine. Se poi dalla finzione si passa alla realtà il primo nome da fare di nuovo in un salon è quello di Madame du Deffand con la sua passione disperata per il giovane Walpole e con il suo amore di lettrice non solo di Voltaire e Racine, ma anche di Fielding e Richardson. È naturale allora che femminilità ed eros introducano insieme al problema delle virtù quello della sensualità, tanto più quando vi si mescola il sottile veleno della seduzione libertina, a Londra come a Parigi. Così anche il romanzo borghese e poi il romance gotico convivono con il récit di Sade e le sue lucide, terribili ossessioni, geometriche come una macchina infernale intorno alla violenza e al piacere, alla crudeltà e al desiderio, all’impulso erotico che, mentre trasforma il corpo in una cosa, ritrova nel fondo buio di un’ebrezza fredda e spietata l’istinto di morte, il sublime vuoto di un nulla senza senso. Ma Sade resta un’eccezione rimossa ai margini estremi della letteratura, chiuso in una segreta. Basta, del resto, il Richardson di Clarisse per raffigurare alla luce del sole il seduttore perverso e far esprimere alle sue eroine, con la voce della letteratura epistolare, l’ambivalenza emotiva di repulsione e attrazione, il complesso della vittima che si identifica con il carnefice quanto più la crudeltà si integra con la mollezza indifesa. Il pudore virtuoso, insomma, cela la sua oscura allegoria nel linguaggio opaco della carne, les entrailles come avrebbe detto Diderot.
Ora secca e nervosa, ora mossa e quasi oratoria, tra bienséance e spregiudicatezza, la prosa romanzesca tenta di fissare lo spettacolo quotidiano della vita contemporanea, accomunando moralità, licenza, ordine, trasgressione, idillio, avventura, intrigo, erotismo, onore, melodramma, pregiudizio ed emancipazione in una topografia sempre più netta, più vicina alla realtà che muta, di case borghesi e ville gentilizie, di architetture e di interni domestici, di locande e di strade, di campagne: e sullo sfondo i dirupi, i castelli, i monasteri, le cripte, i corridoi labirintici della fantasia gotica, le geometrie capovolte del romanzo nero. È un realismo ancora alla prova, scenografico e teatrale anche nel suo taglio domestico, come può esserlo un’incisione di Hogarth. Ma nel dialogo dell’immaginario e del reale che lo alimenta si disegna una nuova antropologia, un nuovo senso della temporalità e della storia. Il romanzo s’incontra allora con la storiografia, con l’interpretazione del mondo umano e del suo divenire.
Verso la complessità della storia
Dall’antiquaria e dall’erudizione, ad esempio quella illuminata e cattolica di Muratori, continuatore quanto mai originale dei padri maurini, si sviluppa con il pensiero postcartesiano una coscienza storica moderna che rinuncia alla metafisica delle cause finali per rivolgersi allo studio di un universo tutto umano. Se il Vico anticartesiano rielabora una vera e propria antropologia storica, dove è già presente il concetto moderno di cultura, la Scienza nuova non entra però quasi per nulla nel circuito europeo della République des Lettres, e viene dagli uomini dell’Illuminismo l’indagine programmatica sul passato e sulle sue istituzioni, sulla molteplicità dei fenomeni attraverso cui la ragione si è fatta faticosamente strada fino ai tempi moderni della luce, dello spirito critico che comprende e giudica, sentendosi poi corresponsabile di quanto accade nel presente. Così narrazione e discorso riflessivo si fondono nel grande quadro della società, dei suoi meccanismi istituzionali e dei gruppi o delle stirpi che vi operano all’interno. Ricostruire il passato vuol dire allora approfondire l’esattezza erudita attraverso una filosofia militante che crede nel progresso e nel suo movimento unitario, ma riconosce anche una pluralità di forme e di valori allo stesso modo in cui si osserva la varietà dei climi e la loro influenza sui costumi. E tuttavia il vero pluralismo non si deve chiedere all’esprit des lumières che parla francese, orgoglioso dell’universalità di una lingua e della sua excellence, della “supériorité en delicatesse et en raffinement”, ma va ricercato nel liberalismo anglosassone e nella reazione delle culture nazionali che riaffermano la dignità delle proprie lingue e delle proprie origini contro un modello astratto di sistema e riscoprono allora la propria storia, la propria diversità quale parte di un patrimonio comune. Cosmopolitismo e carattere nazionale non si negano, poiché si confrontano e si completano di fatto a vicenda. E mentre da questa contrapposizione ha origine anche il dramma storico, ossia il teatro di un eroe intimamente legato a una terra e a una comunità, a una piccola patria che si ribella al dispotismo livellatore, la razionalità illuministica negata comincia a tradursi in immaginazione storica e in sensibilità interpretativa, a cui non è estranea neppure l’esperienza estetica, per ciò che è individuale e unico non solo nel mondo europeo, ma anche nei continenti di là dagli oceani. Il tempo e lo spazio si dilatano, la modernità moltiplica i luoghi, i rapporti, le situazioni. Dopo la guerra dei Sette anni, che spezza a metà il secolo e segna un tempo di crisi, anche l’America inglese fa il suo ingresso nella cultura storiografica europea e ne alimenta la polemica, la presa di posizione critica nei confronti di un ancien régime ormai sulla difensiva.
Si comprende poi come gli scrittori salutino e celebrino l’evento della rivoluzione americana e più ancora – tornando a Parigi – la grande avventura rivoluzionaria giacobina, prima che giunga il Terrore a capovolgere il loro entusiasmo in delusione o rifiuto. Ma di fronte all’esplosione che sembra investire la stessa natura umana e travolgere tutti i suoi artefici, storici e intellettuali non hanno ancora strumenti interpretativi adeguati, possono rispondere soltanto con la perplessità e l’attenzione o, se schierati contro, con l’intelligenza di un pensiero che dinanzi all’ideologia della tabula rasa si dichiara conservatore. Più acuto di altri, Burke ideologo delle Reflections on the French Revolution individua nello spirito astratto del sistema e nella tentazione totalitaria della ragione ordinatrice l’essenza difettiva della Rivoluzione e indica, come alternativa vittoriosa, il fondamento della tradizione, la forza dei costumi che assicurano insieme la diversità e la costanza, il pluralismo dei valori connaturati alla vita.
Le Reflections, come si sa, sono alla base dell’interpretazione conservatrice del fenomeno rivoluzionario, ma propongono anche un’idea della complessità che non sacrifichi il vitale al razionale proprio perché, per citare le stesse parole di Burke “la natura dell’uomo è intricata e i fini della società estremamente complessi”. Alla fine del secolo anche la letteratura si trova dinanzi allo stesso problema tanto sul fronte della società quanto su quello dell’individuo: nella lirica come nel romanzo. Mentre sale all’orizzonte l’astro guerriero di Bonaparte, è infatti il tempo di Foscolo e Chateaubriand, Schlegel e Hölderlin, Wordsworth e Coleridge.