Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In tutto l’ambito europeo l’Ottocento letterario si struttura cronologicamente in altrettanti "periodi", che hanno inizio con il romanticismo e che poi divengono il realismo, il naturalismo e da ultimo la cosiddetta "fin de siècle", divisa tra simbolismo, decadentismo ed estetismo. Ma ciò che è decisivo nella sua varietà di espressione è il movimento romantico degli anni postrivoluzionari e napoleonici, con la ricerca di una nuova letteratura e di una nuova antropologia, di una visione del mondo non più subordinata agli schemi del razionalismo settecentesco e della tradizione classicistica. Anche nell’universo letterario, come in quello politico e sociale, si afferma la coscienza di una svolta, di un mutamento irreversibile rispetto al passato, persino quando si cerca di continuarlo o di restaurarlo.
È il tempo dell’industrializzazione e dell’ascesa della borghesia e questo processo investe anche il linguaggio e l’immaginazione, mentre la vecchia "repubblica delle lettere" lascia il posto a una realtà inquieta e informe, dove lo scrittore deve riscoprire il proprio ruolo intellettuale e ciò che egli produce deve fare i conti con le leggi economiche del mercato.
Ideato nell’Inghilterra secentesca per indicare la materia tratta dai romances, narrazioni di contenuto cavalleresco e fantastico, solo nella seconda metà del Settecento il termine "romantico" circola nella cultura per designare il mistero della natura, le fantasmagorie del paesaggio, la ricchezza fluttuante del reale. In un primo tempo, soprattutto in Francia, si preferisce parlare di pittoresco, e bisogna attendere l’inizio del nuovo secolo per incontrare una vera e propria definizione del termine che diviene il punto di riferimento costante per coloro che intraprendono il difficile cammino verso la modernità. Ed è in Germania che la nuova poetica romantica trova la sua enunciazione più sicura e ardita.
Per August Wilhelm von Schlegel, uno dei fondatori della rivista "Athenäum", "romantico" è tutto ciò che anima il "moderno", in opposizione allo spirito classico del mondo antico e precristiano: “Questo nome gli conviene senza fallo, poiché deriva da quello di lingua romanza, sotto cui si comprendono l’idiomi vulgari che nacquero dalla mescolanza del latino con li antichi dialetti germanici, in quella guisa che la nuova civiltà europea s’andò formando dalla mescolanza, in prima eterogenea, ma poi co’l tempo divenuta intima, de’ popoli del Nord con le nazioni depositarie delle preziose reliquie dell’Antichità. La civiltà antica, per lo contrario, era semplice nel suo principio”. La contrapposizione riesce qui illuminante più di qualsiasi ragionamento. Da una parte il mondo omogeneo del passato; dall’altra la stratificazione delle culture che fa del romanticismo un organismo mobile ed eterogeneo, una concomitanza di opposti, una conquista faticosa del presente. Novalis, l’amico dei fratelli Wilhelm e Friedrich Schlegel, dirà a sua volta che romantico è ciò che è lontano, l’infinito dentro e fuori di noi.
Così Stendhal, più tardi, quando non è ancora il romanziere de La Certosa di Parma e di Il rosso e il nero, pensando alla solitudine che investe lo scrittore quando la sua forza non può più rifarsi a un costume letterario tradizionale, ma va oltre le convenzioni per lanciare una sfida a tutti i modelli del passato, un gioco tra il caso e l’azzardo, scrive a sua volta che “il faut du courage pour être romantique, car il faut hasarder”. Siamo intorno agli anni Venti dell’Ottocento, allorché tra Francia e Italia, con un ritardo di qualche anno rispetto al mondo tedesco, rimbalza il dibattito critico sul romanticismo, e l’invito stendhaliano all’"azzardo", allo scatto in avanti che produce attrito con il passato coglie esattamente il senso dell’alterità che caratterizza la nuova poetica europea.
Va d’altro canto ricordato che il primo Ottocento è pervaso dalla percezione della discontinuità, della frattura nel corso della storia che nel giro di pochi anni ha visto succedersi la Rivoluzione francese, Napoleone, la Restaurazione e il mutamento radicale del destino di popoli e nazioni.
Invero, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento sembra cadere la fiducia che la conoscenza del passato costituisca una guida sicura per l’interpretazione del presente, ogni volta nuovo, sensazionale e lacerante. La storia si fa problema, realtà da ricostruire e da comprendere nel profondo degli individui e dei movimenti collettivi, come insegna un pensiero liberale che ha meditato sull’evento grandioso della Rivoluzione francese. Ma, proprio nella misura in cui l’uomo avverte l’elemento drammatico della storia, la letteratura trascrive i problemi generali dell’epoca per penetrare dietro le quinte della scena pubblica e sorprendere gli uomini nel loro abito più vero e quotidiano, nel linguaggio raccolto del "cuore", ossia della soggettività sempre in rapporto con altri mondi individuali. Il mistero dell’uomo rimanda a quello della società, alla sua dialettica inesorabile del potere e della violenza, del disordine e della giustizia.
La dissoluzione del sistema classico
Senza dubbio l’imporsi all’attenzione della storia contemporanea è uno dei fattori che armano la critica al classicismo, cioè a un sistema che ha elevato a norma la prassi letteraria e la mitologia legata a un tempo oramai trascorso, perché, scrive Friedrich Schlegel, “nell’universo della poesia niente sta fermo, tutto diviene e si muta e si muove armonicamente”. E in tale prospettiva l’epica, la lirica e il dramma moderni non coincidono più con i loro modelli greci, anche perché in contrasto con il postulato dei classicisti vengono ora investiti e trasformati dal romanzo, il genere moderno ove si intrecciano gli elementi più diversi, non più ordinati da una gerarchia prestabilita. Non è un caso che si stabilisca un nesso genetico tra romanzo e romantico, nel momento in cui il romanzo diviene una dominante del sistema letterario oramai in trasformazione. Si ha in tal modo una relativizzazione delle diversità tra i generi che vengono inclusi nell’irregolare e polimorfo novel, che proprio attraverso l’esplorazione dell’io, dell’eroe-personaggio, persegue una rappresentazione del mondo nella sua temporalità storico-drammatica; e questa complessità eterogenea sembra poi garantire al romanzo la possibilità di essere “uno specchio di tutto il mondo circostante”, una vera e propria "immagine dell’epoca", una sorta di epopea borghese, come avrebbe affermato lo Hegel postromantico dell’ Estetica.
Volendo risalire all’origine di tale processo di combinazione aggregativa che caratterizza la poesia postclassica, i romantici riscoprono Shakespeare come colui che ha per primo rappresentato la dinamica psicologica dell’uomo e le immagini interiori con cui l’individuo rivive e rielabora il mondo esterno. Non si tratta naturalmente di imitare Shakespeare, ma di apprendere la sua tecnica di drammatizzare un linguaggio lirico e di fonderlo con le cadenze della prosa, con gli scatti di un parlato quotidiano, di nuovo a contatto con la vita, con il movimento a un tempo imperioso e oscuro del reale. Appare chiaro che il romanticismo assume la letteratura come un sistema aperto che si rapporta sempre alla vita del proprio tempo e non ha altro modello che l’attualità di colui che scrive e la sua memoria, la sua capacità di ricreare la parola che gli viene dal passato e soprattutto dagli strati profondi della propria esistenza. Non per nulla si comincia a esplorare, dopo Rousseau, il luogo misterioso dell’infanzia e il mondo della fiaba, l’immaginario onirico dell’arte popolare e dell’oralità teatralizzata, come accade, sulle orme di Herder, a Brentano, Arnim e Grimm sul doppio versante del racconto fantastico e dell’interpretazione etnologica che poi diverrà lo studio del folklore. Ma la scoperta del "popolare" significa anche il recupero delle tradizioni e dei valori di un popolo, la ricerca o la conferma della sua identità nazionale, in parallelo con l’avvento dei nazionalismi insorgenti e con i moti liberali dell’età della Restaurazione, soprattutto nel centro Europa. La ragione e il mito possono allora unirsi in una nuova inquietudine, quella che esploderà, alla fine, nel 1848 e che continua, trasformata anche in dura lotta sociale, nei decenni successivi dell’imperialismo e dell’ultima illusione europea. Intanto, attraverso questo percorso di ritorno alle origini, il romanticismo, magari con le fantasmagorie romanzesche di Walter Scott, riscopre pure il Medioevo, il periodo barbaro e selvaggio in cui è venuto meno l’ordine unitario dell’impero romano e le chansons de geste e l’arte gotica diventano l’espressione corale di una collettività nazionale da cogliere nella sua singolarità e nella sua separatezza. Così nasce poi la storiografia moderna dell’Europa postromana nella doppia figura della filologia romanza e della filologia germanica. E sono proprio gli storici, del resto, a usare il passato come una possibile contrapposizione al presente, quando il suo carattere di civiltà borghese si scontra con la loro certezza o la loro nostalgia aristocratica.
Hegel può allora costruire una geniale estetica della storia sull’ideale di un’armonia classica interna a ogni letteratura sino al tempo filosofico della fine dell’arte.
A questo punto si comprende anche perché la sensibilità romantica si affermi prima là dove meno radicata e operante appare la tradizione del classicismo e agiscono fermenti già antichi, come la poesia elegiaca di Young e Gray, la fenomenologia del sublime di Burke, il novel sentimentale in Inghilterra o la battaglia di Lessing contro la drammaturgia francese, la rivolta dello Sturm und Drang prima di Goethe e Schiller, la scoperta della poesia popolare di Herder in Germania. In Italia e in Francia, a parte i gruppi conservatori, il prestigio di un alto linguaggio letterario condiziona, si direbbe, la sperimentazione del nuovo o la rende più eclettica, dal Foscolo di Jacopo Ortis all’ Atala o ai Martyrs di Chateaubriand. I promessi sposi sono tutt’altra impresa sulla strada europea che da Scott conduce a Balzac.
Resta comunque vero che un sistema che predica l’originalità individuale e scende nel labirinto dell’io sino agli strati dell’inconscio non può muoversi in un’unica direzione: anche di fronte al reale lo scrittore può essere paragonato a una lampada che trae dall’intimo delle sue energie espressive e gnoseologiche le ragioni del proprio fare artistico, l’emozione che si fa meditazione pacata, come vuole Wordsworth. Il principio mimetico della poesia come pittura viene dissolto nell’idea di una autentica rivelazione verbale, di un’ontologia che nasce dalla forza stessa dell’immagine, dalla proiezione di un’esperienza interiore. Il poeta inventa perché riflette su se stesso e si sente diverso, alienato dalla natura, il suo canto è anche un parlare, un dialogo dell’io con i propri fantasmi e i propri conflitti. Che poi a tutto questo corrisponda anche la consapevolezza di una lacerazione, quella che Hegel condanna nell’ironia romantica, è il segno di una condizione drammatica dell’io lirico, da cui ha origine, allorché si oggettiva in azione rappresentata, un nuovo teatro drammatico fra fantasia e realismo, analisi introspettiva e melodramma.
L’istanza realistica implicita nell’avventura romantica, intanto, emerge e si sviluppa con la seconda generazione dell’Ottocento. Se nella poesia nasce un linguaggio di sensazioni e di simboli moderni, che tentano di ricreare una natura perduta e desacralizzata, nella prosa, cioè nel romanzo, ciò che s’impone è la logica descrittiva del realismo e del naturalismo sul modello non più della filosofia idealistica ma della scienza positiva e della sua religione laica del fatto. Anche il pubblico, che è in primo luogo quello della città e della metropoli, si allarga e chiede alla letteratura di farsi intrattenimento, spettacolo, emozionalità avventurosa, documento melodrammaticamente reale. E c’è insieme una nuova enciclopedia di generi quotidiani, quella del giornalismo e della sua scrittura effimera, a cui si accompagna una nuova costruzione dello spazio grafico e delle sue modalità percettive. L’impressionismo della modernità pittorica si insinua anche nei processi della lettura e vi introduce il bisogno della sensazione inedita, lo stimolo nervoso dello choc oramai connaturato alla vita urbana e alla presenza brulicante di una folla, di una prima confusa civiltà di massa. Mentre l’estetica del bello si storicizza, non solo in funzione del tempo ma anche della moda, la sensibilità accoglie sotto la nuova insegna dell’interessante il brutto e il banale, la mescolanza della bellezza e della volgarità, definita di lì a poco kitsch. Si forma un gusto di massa, quello celebrato dai fulgori chiassosi delle Esposizioni universali.
Verso il realismo e oltre
Dopo la Rivoluzione francese l’artista non può che rimettersi in discussione: egli si trova nell’alternativa di puntare direttamente all’azione politica o di tentare di darsi un rinnovato statuto ideologico di sacerdote laico, di profeta senza Dio, con il rischio di restare alla fine un bohémien, un vagabondo, un flâneur ai margini dell’ordine sociale e delle sue convenzioni, di tutto ciò che i romantici tedeschi avevano chiamato filisteo. Il rapporto tra l’arte e la vita muta radicalmente e la letteratura prende coscienza del proprio squilibrio, del destino della parola come opposizione e critica al reale. Si compie così la rivoluzione che era iniziata con l’Illuminismo e che fa dello scrittore un "intellettuale", un osservatore che scruta e giudica il presente nel momento in cui la sua indipendenza dipende, a sua volta, dalla possibilità di un lavoro retribuito. Ed ecco la strada complementare del giornalismo. Ciò che conta è un romanzo, come quello di Balzac o di Dickens, che è insieme invenzione, testimonianza, esplorazione, conoscenza della società e del suo inesorabile tessuto umano. Il narratore sta già costruendo, prima che venga lo scienziato, una sociologia, una descrizione critica del presente.
Honoré de Balzac
Sull’uomo onesto
Papà Goriot
È faticoso desiderare continuamente senza potersi mai soddisfare. Se foste uno senza sangue, una sorta di mollusco, non avreste nulla da temere. Ma abbiamo un sangue bollente da leone e un appetito da farci commettere venti sciocchezze al giorno. Soccomberete quindi a questo supplizio, il più orribile tra quelli che abbiamo scorti nell’inferno del buon Dio. Ammettiamo che siate saggio, che beviate latte e componiate elegie. Generoso come siete, bisognerà, dopo noie e privazioni da far diventare rabbioso un cane, che cominciate come sostituto di qualche disgraziato in un buco di città dove il governo vi getterà mille franchi di stipendio come si getta il pasto al cane di un macellaio. Abbaia ai ladri, difendi il ricco, manda alla ghigliottina gente di fegato. Grazie tante! Se non avrete protezioni, marcirete nel vostro tribunale di provincia. Verso i trent’anni, se ancora non avrete gettato la toga alle ortiche, sarete giudice a milleduecento franchi all’anno. Verso la quarantina sposerete la figlia di qualche mugnaio che vi porterà seimila franchi di rendita. Bella roba! Se avrete protettori, a trent’anni sarete procuratore con mille scudi di stipendio e sposerete la figlia del sindaco. Se commetterete qualcuna di quelle bassezze politiche come leggere sulle schede elettorali Villèle invece di Manuel (fa rima, questo tranquillizza la coscienza) a quarant’anni sarete procuratore generale e potrete diventare deputato. Notate, figliolo, che avremo fatto qualche strappo alla coscienza, avremo sofferto vent’anni di noie e di intime miserie, e che le nostre sorelle avranno passato i venticinque anni e saranno ancora zitelle. Ho l’onore, per giunta, di farvi notare che in Francia ci sono dieci procure generali e che ad aspirare alla carica siete ventimila, fra cui alcuni tipi ameni che per salire un gradino venderebbero la famiglia. Il mestiere vi disgusta? Vediamone un altro. Il barone di Rastignac vuol fare l’avvocato? Splendido. Bisogna patire per dieci anni, spendere mille franchi al mese, avere una biblioteca, uno studio, andare in società, baciare la toga di un collega perché ci passi qualche causa, pulire con la lingua il pavimento del Palazzo. Se fosse un mestiere vantaggioso, non farei obiezioni. Ma trovatemi a Parigi cinque avvocati che a cinquant’anni guadagnino più di cinquantamila franchi l’anno. Bah! Piuttosto che avvilirmi così, preferirei fare il corsaro. D’altra parte, come fare soldi? C’è poco da stare allegri. Sposarvi? Sarebbe legarvi una pietra al collo. E poi, se vi sposaste per denaro, che fine farebbero i vostri sentimenti d’onore, la vostra nobiltà? Tanto vale cominciare subito a ribellarvi contro le convenzioni umane. Strisciare come un serpente ai piedi di una donna, leccare i piedi a sua madre, commettere bassezze da disgustare una troia, puah!, sarebbe ancora nulla se trovaste almeno la felicità. Ma con una moglie sposata in questa maniera sareste infelice come le pietre di una fogna. Tutto sommato è meglio fare la guerra agli uomini che lottare con la propria moglie. Questo è il bivio della vita: scegliete, giovanotto. Ma avete già scelto. Siete andato dalla cugina di Beauséant e avete annusato il lusso. Siete andato da madame de Restaud, la figlia di papà Goriot, e avete fiutato la parigina. Quel giorno siete rincasato con sulla fronte scritta una parola d’ordine ch’io ho letto benissimo: Arrivare! Arrivare a qualsiasi costo. Bravo! mi sono detto. Ecco un tipo in gamba, che mi va a genio. Vi servivano soldi. Dove trovarli? E avete salassato le vostre sorelle. Tutti gli uomini, chi più chi meno, profittano delle sorelle. I vostri millecinquecento franchi, strappati Dio sa come, in un paese dove ci sono più castagne che monete da cento soldi, marceranno come soldati al saccheggio. E dopo, cosa farete? Lavorerete? Il lavoro, come lo intendete voi oggi, procura nella vecchiaia una camera da madame Vauquer a dei tipi come Poiret. Arricchire in fretta: questo è l’obiettivo che in questo momento si pongono cinquantamila giovani nella vostra condizione. Voi siete uno in mezzo a questa folla. Pensate agli sforzi che dovrete compiere e all’asprezza della competizione. Dovrete divorarvi tra voi come ragni prigionieri in un vaso, visto che non esistono cinquantamila buoni posti. Sapete come ci si fa strada qui? Con la forza del genio o con la corruzione. Si deve entrare in questa massa d’uomini come una palla di cannone o insinuarvicisi come una peste. L’onestà non serve. Ci si piega sotto il potere del genio, odiandolo, cercando di calunniarlo, perché prende senza dividere con gli altri. Però ci si piega, se non cede. In una parola, lo si adora in ginocchio se non si è riusciti a seppellirlo nel fango. Ma la corruzione trionfa, il talento è raro. Sicché la corruzione è l’arma della mediocrità che abbonda, e dappertutto ne sentirete la punta. Vedrete donne che hanno mariti con seimila franchi di stipendio in tutto, che ne spendono più di diecimila in vestiti. Vedrete impiegati pagati milleduecento franchi comprare terreni. Vedrete donne prostituirsi per salire sulla carrozza del figlio di un pari di Francia, che può percorrere a Longchamp la carreggiata centrale. Avete visto il povero papà Goriot costretto a pagare la cambiale di sua figlia, il cui marito ha cinquantamila franchi di rendita. Vi sfido a fare due passi a Parigi senza imbattervi in intrighi infernali. Scommetterei la testa contro un cespo di quell’insalata che in casa della prima donna che vi piacerà, per quanto ricca, bella e giovane, finirete in un vespaio. Tutte sono tenute alla briglia dalle leggi, in lite su tutto con i mariti. Non finirei più se dovessi spiegarvi i traffici che si fanno per gli amanti, i vestiti, i figli, la famiglia, la vanità, raramente per la virtù, statene certe. L’uomo onesto è dunque per tutti il nemico. Ma chi credete sia l’uomo onesto? A Parigi è quello che sta zitto e rifiuta di dividere con altri.
H. de Balzac, La commedia umana, scelta e cura di M. Bongiovanni Bertini, Milano, Mondadori, 1994
E questo è il realismo, sorto dal romanticismo ma antiromantico, che s’impone dopo la delusione del ’48, allorché si istituzionalizza il conflitto tra l’artista e la società borghese messa a nudo dal socialismo critico di Karl Marx. In Francia la poetica inaugurata dal disegno iperbolico della Comédie humaine trova in Flaubert il suo portavoce pessimistico e giunge sino a Zola e al naturalismo come lo stile della rappresentazione oggettiva, dell’artificio che finge di negare l’artificio di un io nascosto che guarda, racconta. Non per niente si può parlare persino di "romanzo sperimentale". In Russia, per passare all’altro estremo dell’Europa, a conferma della latitudine e della varietà del fenomeno, il realismo assume un’intensità etico-esistenziale, sia che con Dostoevskij penetri nel profondo dell’uomo e delle sue angosce tra crimine e mistero, sia che con Tolstoj porti uno sguardo epico ma implacabile sulla storia dell’uomo tra natura, innocenza, corruzione e libertà. Ogni lingua, si capisce, dà un’intonazione diversa all’impulso della verità rappresentata.
E lo stesso si deve ripetere per il teatro del naturalismo, a cominciare da quello analitico di Ibsen e dai suoi drammi "familiari". Come il romanzo, anche il teatro non può rinunciare alla propria origine nazionale, sia pure in un circuito rapidamente europeo.
Il rapporto tra scrittore e lettori, anche per effetto dell’ascesa di una classe media borghese, si modella sempre di più sulle leggi economiche del mercato e della "chose littéraire", come la designa l’acutezza critica di Sainte-Beuve. Se alla metà del secolo è oramai inserita in questo processo di industrializzazione, si apre anche per la letteratura un nuovo capitolo di mediazione commerciale, che deve costruire il consenso e il successo di un’opera, anche a costo di una denuncia giudiziaria (basti pensare a Madame Bovary). I codici interpretativi non vengono più soltanto dalla critica alta d’élite, ma anche dalla pubblicistica, dalla notizia di giornale, dalla discussione che si rivolge all’uomo comune e al suo mondo di desideri e di attese. Reduce dal suo viaggio negli Stati Uniti, Tocqueville ha intuito presto i caratteri fondanti della società di massa: dove si legge per appagare il bisogno dell’emozione sensazionale, per sostituire al grigiore della consuetudine quotidiana l’incanto dell’immaginario, il fascino dell’ignoto, con la stessa tecnica di un manifesto pubblicitario, di uno spettacolo che si consuma nell’istante. E per la verità la prima industria culturale conosce già la produzione seriale del feuilleton, del romanzo a puntate che dialoga con i lettori e plasma via via i propri personaggi secondo le loro reazioni o le loro richieste, combinando i generi più diversi, dal racconto d’avventura al quadro di costume, dall’intrigo al mistero poliziesco. E persino Dostoevskij ne tiene conto nelle sue lucide e labirintiche reinvenzioni romanzesche. Questo vuol dire che i livelli narrativi si moltiplicano e interagiscono tra loro, contano alla fine i meccanismi, le possibilità combinatorie, le geometrie conflittuali.
Di più, a partire dalla metà del secolo, ecco il positivismo, strettamente legato al processo della organizzazione industriale, che esalta la scienza come strumento di conoscenza e dominio del reale, predicando una fede neoilluministica nel sicuro progresso della società. Di qui i paradigmi della biologia, della fisiologia, della meccanica, che passano alla letteratura e che si traducono, sul piano della riflessione critica, nella teoria dell’ambiente di un Taine o nella botanica spirituale di un Sainte-Beuve. E la stessa fortuna tocca al darwinismo, non importa se anche attraverso il rifiuto che suscita nello spiritualismo antievoluzionistico di tradizione religiosa. Ma è un fatto innegabile che la parola romanzesca, anche quando sottoscrive il vero della scienza, lo trasfigura in un quadro di immagini e di situazioni nuove, in una intuizione originaria del vivere, come accade in Verga, allo stesso modo in cui l’impressionismo, tenendosi stretto alle cose e alle loro vibrazioni, esprime le ragioni profonde, gli stupori e i brividi dell’anima moderna allorché si specchia nello spettro mobilissimo del colore.
Auguste Comte
Progresso sociale e rapporto con il pensiero antico
Corso di filosofia positiva, Lezione XLVII
Ogni idea di progresso sociale era necessariamente interdetta ai filosofi dell’antichità, per mancanza di osservazioni politiche abbastanza complete ed estese. Nessuno di essi, anche tra i più eminenti e saggi, si è potuto sottrarre alla tendenza, allora tanto universale quanto spontanea, a considerare direttamente lo stato sociale contemporaneo come assolutamente inferiore a quello dei tempi precedenti.
Questa inevitabile disposizione era tanto più naturale e legittima in quanto l’epoca di questi lavori filosofici coincideva essenzialmente, come spiegherò in seguito, con quella della necessaria decadenza del regime greco o romano. Ora, questa decadenza che, considerando l’insieme del passato sociale, costituisce certamente un vero progresso, in quanto preparazione indispensabile al regime più progredito dei tempi posteriori, non poteva essere in alcun modo giudicata in questa maniera dagli antichi, che non potevano immaginare una simile successione. Ho già indicato, nella precedente lezione, il primo schema generale del concetto, o piuttosto del sentimento, di progresso dell’umanità, come all’inizio necessariamente dovuto al cristianesimo il quale, proclamando direttamente la superiorità fondamentale della legge di Gesù su quella di Mosè, aveva naturalmente formulato quest’idea, fino a quel momento sconosciuta, d’uno stato più perfetto che sostituisce definitivamente uno stato meno perfetto, preliminarmente indispensabile fino ad una determinata epoca. Sebbene il cattolicesimo così non abbia fatto, senza dubbio, che servire da organo generale allo sviluppo naturale della ragione umana, questo prezioso compito costituirà egualmente sempre, agli occhi imparziali dei veri filosofi, uno dei più bei titoli per la nostra imperitura riconoscenza. Ma, indipendentemente dai gravi inconvenienti del misticismo e della vaga oscurità, che sono inerenti ad ogni impiego qualsiasi del metodo teologico, tale schema sarebbe certamente insufficiente a costituire una qualche valutazione scientifica del progresso sociale. Infatti questo progresso così si trova necessariamente chiuso dalla formula stessa che lo proclama, poiché esso è assolutamente limitato, nella maniera più assoluta, al solo avvento del cristianesimo, al di là del quale l’umanità non potrebbe fare un passo. Ora, poiché l’efficacia sociale di ogni qualsiasi filosofia teologica è oggi e per sempre essenzialmente esaurita, è evidente che questo concetto presenta ormai, in realtà, un carattere eminentemente reazionario, come ho già dimostrato, a conferma di una incontestabile esperienza, che non cessa d’essere compiuta sotto i nostri occhi. Da un punto di vista puramente scientifico, si comprende facilmente che la condizione di continuità costituisce un elemento indispensabile della nozione definitiva del progresso dell’umanità, nozione che rimarrebbe necessariamente impotente a dirigere l’insieme razionale delle speculazioni sociali, se rappresentasse il progresso come limitato, per sua natura, ad uno stato determinato, da lungo tempo raggiunto.
Per questi diversi motivi, si può, da questo momento, capire a prima vista, che la vera idea di progresso, sia parziale, sia totale, appartiene in modo esclusivo e necessariamente, alla filosofia positiva, che nessun’altra, a questo riguardo, potrebbe supplire. Solo questa filosofia potrà rivelare la vera natura del progresso sociale, cioè caratterizzare il termine finale, mai completamente realizzabile, verso il quale essa tende a dirigere l’umanità, e a far conoscere nel contempo il cammino generale di questo sviluppo graduale.
Auguste Comte, Corso di filosofia positiva, Torino, UTET, 1967
Se poi nel romanzo si trasferisce una sorta di ricerca musicale, quanto più diviene forte la lezione di Wagner e di Schopenhauer, quasi in contrappunto con Darwin o Huxley, il fenomeno risulta determinante nella poesia e nella sua sintassi metaforica, che non è più quella della stagione romantica, anche se ne continua l’impulso originario, perché vuole fondare una realtà dell’immaginario simbolico attraverso la forza evocativa della musicalità verbale come se la trama dei versi fosse uno spartito di suoni suggestivi, di fluttuanti corrispondenze misteriose. Sia pure con qualche approssimazione, e non dimenticando la poetica parnassiana del poema come "gioiello", manufatto splendidamente conchiuso in se stesso, si può affermare che il simbolismo è l’atmosfera comune dell’Ottocento postromantico e che Baudelaire ne rappresenta l’archetipo più alto e inquietante, quasi l’angelo decaduto nell’inferno quotidiano della metropoli moderna. Apparentato per più tramiti alla limpida indagine impressionistica, il simbolismo riconosce la propria abdicazione alla totalità della vita e tenta di recuperare l’autonomia di una parola che sia rivelazione e memoria di essenze, segno originario di un cosmo fuori del tempo, ma percepibile solo attraverso la temporalità di un’analogia musicale. La sua variante pittoresca è il decadentismo, così come l’estetismo ne prolunga il principio dell’arte nell’arte nel mito dell’esperienza, dell’epifania che può illuminare, sulla traccia di una parola sottile e vibrante, la materia informe dell’esistenza, il romanzo nascosto in ogni essere umano, nell’abisso tranquillo del suo silenzio. In gioco è poi la nozione stessa dell’io e come si sarebbe detto più tardi, la perdita del centro.
È chiaro, ancora una volta, che l’artista non si riconosce più nella macchina sociale della borghesia, e questo dissenso lo conduce a una scelta, a un’avventura che mette in forse il suo stesso destino. Sulla strada impervia di Baudelaire, che conduce la poesia alla decifrazione visionaria dell’irrazionale e della dissonanza o del peccato dell’essere, Rimbaud diviene veggente, Verlaine insegue il fascino di un dolce, struggente parlato musicale, e Mallarmé suggerisce la magia dei simboli assoluti, il potere di una parola di nuovo pura. E dal fondo della provincia italiana Pascoli, a tratti, non è da meno. Ma, in ogni caso, nel rigore consapevole della propria alienazione, lo scrittore dell’ultimo Ottocento sperimenta i nodi irrisolti della modernità: l’esteta che non vuole contaminarsi con la volgarità del commercio quotidiano e nega ogni senso sociale dell’arte, l’attivista aggressivo che invoca Nietzsche, Bergson e Darwin per imporre l’eccezionalità dell’individuo superiore, del protagonista spettacolare, magari alla D’Annunzio, lo sradicato (o il buffone) che gestisce la propria inettitudine di comunicare come una condanna e un oscuro sentore di morte, testimoniano la crisi di una civiltà che muove verso l’esperienza traumatica e cruenta del primo conflitto mondiale. Così, anche per gli storici della letteratura, il XIX secolo ha forse termine nell’agosto del 1915, quando il mito della razionalità della storia e della certezza del progresso si frantuma nell’assurdo della guerra e di una cieca distruzione dissipatrice. Dagli ultimi contrafforti dell’Ottocento Tolstoj e Nietzsche, con il vigile radicalismo dei profeti disarmati, avevano visto lontano.
Stéphane Mallarmé
Brise marine
La chair est triste, hélas! et j’ai lu tous les livres.
Fuir! là-bas fuir! Je sens que des oiseaux sont ivres
D’être parmi l’écume inconnue et les cieux!
Rien, ni les vieux jardins reflétés par les yeux
Ne retiendra ce coeur qui dans la mer se trempe
O nuits! ni la clarté déserte de ma lampe
Sur le vide papier que la blancheur défend
Et ni la jeune femme allaitant son enfant.
Je partirai! Steamer balançant ta mâture,
Lève l’ancre pour une exotique nature!
Un Ennui, désolé par les cruels espoirs,
Croit encore à l’adieu suprême des mouchoirs!
Et, peut-être, les mâts, invitant les orages
Sont-ils de ceux qu’un vent penche sur les naufrages
Perdus, sans mâts, sans mâts, ni fertiles îlots...
Mais, ô mon coeur, entends le chant des matelots!
Come è triste la carne... E ho letto tutti i libri
Fuggire! laggiù fuggire! Ho udito il canto di uccelli
Ebbri tra l’ignota schiuma e i cieli. Nulla,
Neppure gli antichi giardini riflessi negli occhi,
Potrà trattenere il mio cuore che s’immerge nel mare.
O notti! neppure il deserto chiarore della mia lampada
Sul foglio ancora intatto, difeso dal suo candore
E neppure la giovane donna che nutre il suo bambino.
Partirò! Nave che culli le tue vele
Leva l’ancora verso un’esotica natura!
Una Noia, crede ancora, desolata da speranze crudeli,
Ai fazzoletti agitati nell’ultimo addio. E forse
Gli alberi che attirano la tempesta
Il vento farà inclinare sui naufragi
Perduti, senz’alberi, lontani da fertili isole...
Ma ascolta, mio cuore, il canto dei marinai!
Stéphane Mallarmé, Poesia e prosa, a cura di C. Ortesta, Parma, Guanda, 1982