Introduzione alla letteratura della Grecia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella tradizione occidentale la civiltà greca gode di un posto privilegiato. Fino dal mondo romano, infatti, i Greci sono stati considerati maestri nella letteratura, nella filosofia, nelle arti, e nei secoli questa celebrazione della superiorità ellenica è entrata a far parte anche della consapevolezza diffusa. I nostri debiti nei confronti della civiltà greca restano grandi, ma per comprenderne davvero il significato serve a poco continuare a celebrare il cosiddetto “miracolo greco”. Assai più interessante risulta cercare di comprendere il reale contesto culturale in cui la letteratura greca è nata, e soprattutto rimarcarne le differenze e le specificità rispetto alla nostra cultura.
Sulla civiltà greca pesa un fardello prezioso: quello della sua perfezione. Se i Greci stessi consideravano già la propria “ellenicità” come una caratteristica che li rendeva superiori agli altri popoli, quelli che chiamavano barbaroi, anche i loro discepoli e poi padroni, i Romani, riconobbero sempre che nel campo della letteratura e delle arti i Greci erano stati i maestri. Tanto che furono proprio i Romani a costruire, per la prima volta, l’immagine ideale dell’Ellade – una realtà fuori dal tempo, popolata di poeti, filosofi, artisti appartenenti esclusivamente al passato: una mitica terra che poco aveva in comune con la Grecia contemporanea, ridotta ormai a semplice provincia dell’impero. Questo carattere meraviglioso della civiltà greca – il “miracolo greco”, come a volte lo si è chiamato – ha continuato a restar vivo nei secoli, e anzi, soprattutto a partire dal XIX secolo esso è stato ulteriormente mitizzato. Vediamo qualche esempio.
Eccoci a Londra, l’anno è il 1807. Da poco sono stati messi in mostra gli Elgin Marbles, ossia i marmi del Partenone, e l’evento attrae immediatamente una folla di curiosi e di amanti dell’arte antica. Fra loro c’è anche Heinrich Füssli, il pittore di origine svizzera che da anni è professore di pittura alla Royal Academy: l’autore de L’incubo, de La follia di Kate e di altre magnifiche tele di ispirazione romantica. Dunque Füssli, o meglio Fuseli, come lo chiamano in Inghilterra, va a vedere i marmi e, ammirato, se ne esce in questa esclamazione: “Quei Greci erano dèi, quei Greci erano dèi!”. L’emozione dell’artista svizzero, sottolineata anche dal pesante accento tedesco con cui la esprimeva, andava direttamente al cuore della questione: la Grecia è un luogo sacro all’arte e alla bellezza, in quella terra hanno abitato non uomini, ma dèi.
Per la verità, questa ondata di filellenismo (o di “ellenomania”, come è stata talora definita) non costituisce un fenomeno soltanto inglese. Ecco che cosa scriveva nel 1799, in Germania, Wilhelm von Humboldt: “I Greci si distaccano dal cerchio della storia [...] Noi fraintendiamo la nostra relazione con loro se osiamo applicare ai Greci i criteri di valutazione validi per il resto della storia mondiale. Per noi la loro conoscenza non risulta solo piacevole, utile o necessaria: in essi soltanto noi troviamo l’ideale di ciò che noi potremmo essere e realizzare. Mentre qualsiasi altra parte della storia ci arricchisce di umana saggezza o esperienza, dalla frequentazione dei Greci noi traiamo qualcosa di più che terreno, o meglio, qualcosa di vicino al divino”. La sostanza è sempre la medesima: i Greci sono degli dèi. Questa affermazione, già di per sé estremamente forte, ne presuppone però un’altra, per certi aspetti ancora più forte: ossia che i Greci “non sono come gli altri”, i Greci sono diversi, infinitamente superiori agli altri popoli, e in quanto tali non possono essere confrontati con gli altri. Come scriveva Shelley a John Gisborne, “che cosa c’è che vi si possa paragonare?” I Greci sono dèi e il divino, per definizione, non ammette confronti. Dove starebbe altrimenti la sua “divinità”?
Oltre che alle straordinarie realizzazioni nel campo dell’arte, questo carattere eccezionale della cultura dei Greci è legato, inutile dirlo, alla loro letteratura. Le stesse parole che usiamo stanno lì a dimostrare l’influsso che la letteratura greca ha esercitato sulla nostra cultura. Il termine “storia”, per esempio, dal latino historia, altro non è se non quanto Erodoto dichiarava all’inizio della sua opera: “questo è il resoconto della historia svolta da Erodoto di Alicarnasso...”, quando historia, ovviamente, non significava ancora “storia”, come in seguito, ma semplicemente “ricerca”, “indagine”. Quella che Erodoto aveva svolto, e di cui presentava il resoconto scritto: senza immaginare che, di lì a poco, sarebbe stato considerato il fondatore di una disciplina definita, appunto, “storia”. La stessa cosa si potrebbe dire a proposito di altri generi del nostro sistema letterario, come “tragedia” o “commedia”; così come potremmo ricordare “filosofia” – quel greco “amore per il sapere” che per noi è diventata perfino una disciplina scolastica – oppure “retorica”. Anche quando parliamo di “poesia” usiamo una parola greca. Gli antichi abitanti dell’Ellade definivano infatti la capacità di comporre versi con il termine poiesis: ricorrendo ad un’immagine piuttosto concreta, bisogna dire, visto che poiesis significa propriamente “fabbricazione”, “costruzione”. Ad ogni “poesia” che nasce, dunque, noi torniamo a fabbricare la parola alla maniera in cui – sembrerebbe – ci hanno insegnato i Greci. Questo significa forse che, prima dei Greci, la poesia non esisteva? Prima di provare a rispondere a questa domanda, sarà bene aggiungere qualche altra considerazione.
Anche quando parliamo dei vari tipi di poesia, usiamo parole greche. La “lirica”, per esempio, il genere che comprende nomi come Samuel Taylor Coleridge o Umberto Saba, è una categoria inventata dai Greci. Allo stesso modo noi usiamo espressioni greche quando parliamo di poesia “epica” – la Gerusalemme Liberata (1581) del Tasso o i Lusiadi di Camões appartengono a questo genere – e ancora a termini greci noi ricorriamo quando si parla di poesia “didascalica” – quella che “insegna” a fare qualcosa, come le Georgiche di Virgilio insegnavano in versi a coltivare i campi – o la poesia “epigrammatica”, che certo è più divertente di quella didascalica. I Greci dunque hanno marcato così profondamente la nostra cultura in fatto di poesia, che non solo ci hanno imposto il loro nome per definirla, ma hanno anche tracciato per noi le linee secondo cui dovevamo costruirla. Questo significa dunque che sono stati i Greci a inventare la poesia?
C’è chi risponderebbe direttamente “sì” a questa domanda. E se a riprova della propria convinzione cominciasse a recitare versi di Omero come questi (Odissea 8, 523 sgg.):
“Così piange una donna, prostrata sul corpo dello sposo, caduto davanti ai suoi uomini per proteggere dal giorno funesto i figli e la città. E lei che l’ha visto dibattersi e morire attorno a lui riversa acute le sue grida …”
oppure decidesse di sillabare questo frammento di Saffo
“la Luna è tramontata con le Pleiadi. È mezzanotte, trascorre l’ora e io dormo sola”
certo anche noi non esiteremmo a convenire che l’esperienza poetica dei Greci è stata straordinaria. Quella moglie prostrata sul corpo del marito è l’emblema di tutte le dolenti, di qualsiasi guerra; mentre la luna che scompare nel cielo, mentre Saffo dorme da sola, costituisce la cifra stessa dell’abbandono. Con tutto ciò, affermare che sono stati i Greci ad “inventare” la poesia, non avrebbe senso. Tanto quanto non lo ha, a nostro parere, continuare a credere nel “miracolo greco”, impostando ogni problema culturale come se fosse una competizione fra “noi” (che ci identifichiamo ovviamente con i Greci) e gli “altri”.
Ciascuna cultura, infatti, ha avuto ed ha la propria poesia. E se qualcuno, nel passato, ha cercato di resistere il più possibile a una simile idea, per esaltare anche in questo modo la superiorità dell’Occidente, certo oggi, nella generale globalizzazione in cui siamo immersi, un atteggiamento del genere appare sempre più insensato. In ogni caso, si potrà convenire sul fatto che ciascuna cultura ha come minimo elaborato un modo per costruire discorsi “poetici” nel senso che sono diversi da quelli quotidiani, di ordinario consumo: capaci cioè di distinguersi dalla semplice chiacchiera o dalla discussione su chi ha ragione e chi ha torto durante una lite. Nella vita sociale, infatti, vi sono occasioni in cui è necessario organizzare il flusso del discorso in un modo tale che esso colpisca più immediatamente l’attenzione, che possa essere più facilmente ricordato, e soprattutto che sia possibile ripeterlo, più o meno nella stessa forma, anche a distanza di tempo. Si tratta di enunciati religiosi, profetici, cerimoniali, ma anche di discorsi destinati all’intrattenimento: testi cioè recitati di fronte ad un uditorio da qualcuno che, aiutandosi con le risorse e i trucchi dell’arte, racconta una storia di guerra o di sentimento – commuovendo profondamente il suo pubblico, questo è bene ricordarlo, influenzandone addirittura i comportamenti e la memoria. Tutto ciò è poesia, nel senso più vasto del termine. In casi del genere, infatti, si compie la seguente operazione: ci si sforza di mettere insieme le parole ricorrendo a regole che assolutamente non si impiegherebbero nel parlare comune. Proviamo a fare qualche esempio.
Chi mai, chiacchierando con il proprio vicino di casa, si sforzerebbe di scegliere vocaboli che cominciassero tutti con lo stesso suono? Tipo: “Prendo per prima la palla pesante… ”. Eppure, questa è una delle principali regole che venivano seguite nella composizione dell’antica poesia germanica, o in quella latina dell’epoca arcaica. Tanto meno ci si impegnerebbe, sempre nel parlare comune, ad organizzare il discorso in modo tale che le singole frasi o segmenti di frase avessero un andamento parallelo, che si richiamassero cioè fra loro per suoni e significato. Eppure questo è uno dei principi su cui si fondava l’antica poesia ebraica, come dimostrò il grande Robert Lowth, nelle sue Lectures on the Sacred Poetry of the Hebrews pubblicate nel 1787; ma è su principi simili che si fonda, di nuovo, la poesia latina delle origini. Meno che mai si ci si sforzerebbe di ordinare le parole in “stringhe” che non solo contenessero tutte lo stesso numero di sillabe e di accenti, ma fossero ogni volta concluse dalla medesima sillaba che conclude anche una stringa precedente. Eppure queste sono le regole applicate nella poesia romanza, anche italiana, dove ciascun verso deve contare lo stesso numero di sillabe, deve prevedere gli stessi accenti e presentare una rima finale.
Eccola qua, dunque, la “poesia”, quella che c’è stata e c’è anche senza i Greci: un modo eccezionale di organizzare il discorso – in genere ricorrendo al principio dell’analogia, della similarità, della ripetizione degli stessi elementi – per comunicare un contenuto ritenuto altrettanto eccezionale.
Da questo punto di vista, dunque, la poesia è esistita prima, dopo e indipendentemente dai Greci. Nei fatti, però, non si può negare che la letteratura occidentale sia stata profondamente influenzata da quella greca. Non tanto perché, per definirla, noi usiamo ancora le parole e le categorie che i Greci ci hanno tramandato, come dicevamo sopra; ma soprattutto perché il sangue della letteratura greca, se possiamo chiamarlo così, non ha mai smesso di scorrere nelle vene della poesia successiva.
L’influenza degli autori greci è stata tale, che le loro opere (a volte anche nella forma di ingombranti presenze) hanno continuato per secoli ad influire sulla produzione letteraria europea. Non parliamo solo dei Romani che hanno sviluppato la loro poesia o la loro filosofia ispirandosi a quella dei Greci, o traducendola direttamente; di Racine e di Corneille che si rifecero alla tragedia attica; del Settecento che si appassionò ad Anacreonte; dell’Ottocento inglese o tedesco che si nutrì dei lirici e di Pindaro… Qualche esempio più indiretto – più paradossale? – potrebbe risultare non meno istruttivo. L’Eneide di Virgilio, si sa, non sarebbe pensabile senza la presenza di Iliade e Odissea; ma non si può neppure dimenticare che, a sua volta, la Divina Commedia non sarebbe mai esistita senza l’Eneide: ciò significa che, pur non avendo mai potuto leggere Omero, anche Dante è stato “influenzato” dalla poesia omerica. Continuare in questo gioco, solo apparentemente funambolico, sarebbe facile. Le tragedie di Seneca, è ben noto, non sarebbero mai esistite senza i grandi tragici greci Eschilo, Sofocle ed Euripide – ma questo ci porta a concludere che lo stesso Shakespeare, pur non avendo mai letto i tragici greci, ma avendo subito l’influenza di Seneca tragico e della tradizione da lui ispirata, senza la Grecia non avrebbe mai scritto quello che ha scritto. Non ultimo perché la parola tragedy – con cui venivano spesso designate le pièce del teatro elisabettiano – essendo di origine greca (tragodia), non ci sarebbe stata. Possiamo dunque affermare che senza i Greci la nostra poesia, almeno la nostra, non sarebbe mai esistita?
Questo possiamo affermarlo, pur rendendoci conto che semplificare i processi culturali fino a ridurli al gioco del “chi ha influenzato chi”, sarebbe come minimo ingenuo. È ovvio infatti che l’influenzato – si tratti di Virgilio, di Dante o di Racine – trasferisce in ciò che scrive non solo quel che riceve dall’influenzante, ma anche la sua propria cultura e le sue esperienze personali, e in misura spesso predominante. Dante non esisterebbe senza Virgilio e dunque senza Omero, d’accordo – ma il cristianesimo? Continuiamo comunque a pensare, perché è vero, che senza la letteratura dei Greci la nostra sarebbe diversa da ciò che è. Questo però ci pone di fronte ad una seconda domanda, forse ancora più importante della precedente. Siamo sicuri che la letteratura greca – specie se riguardata con gli occhi della nostra letteratura – sia veramente quello che a noi sembra? In altre parole, siamo sicuri che la letteratura dei Greci fosse una “letteratura” come la nostra? Ecco un secondo tema che non si può fare a meno di affrontare.
Torniamo alla poesia e prendiamone l’aspetto più esterno, la sua forma – ma si sa che, in poesia, la forma è quasi tutto. Anche i Greci, infatti, avevano il loro modo di organizzare il discorso poetico, ricorrendo a quelle famose regole che non avrebbero mai applicato nel parlare comune. Il greco antico era una lingua di tipo quantitativo, ossia una lingua in cui le sillabe – a differenza di quanto avviene in italiano – si distinguevano in base alla loro durata, lunga o breve. Quando componevano poesia, dunque, i Greci sceglievano le parole in modo tale che, una volta allineate in una certa “stringa”, esse presentassero lo stesso tipo di alternanza fra sillabe brevi e sillabe lunghe. In altre parole, i poeti greci creavano i loro versi – l’esametro, il pentametro, il trimetro giambico, i metri lirici ecc. – organizzando secondo schemi fissi l’alternarsi delle diverse “durate” sillabiche nelle parole. Il lettore moderno, che leggesse Omero, Esiodo o Callimaco in traduzione, deve dunque sapere che sta comunque leggendo qualcosa di diverso rispetto a ciò che questi autori avevano scritto. La sostanza fonica della sua lettura, infatti, sarà diversa. E non solo perché muta la lingua – questo avviene anche quando si legge Baudelaire o Shelley in traduzione – ma perché muta soprattutto la musica più astratta e profonda della lingua. La maniera greca secondo cui i versi si costruivano e si prolungavano ritmicamente l’uno nell’altro – sillabe lunghe, brevi, lunghe ecc. – e insieme l’alternarsi di accenti di parola che erano innalzamenti o abbassamenti nel tono della voce, presupponevano infatti una struttura del linguaggio che l’italiano, semplicemente, non possiede.
Ma non si tratta solo di questo. La poesia greca è altra, diversa, così come lo è la letteratura greca in genere, soprattutto perché altra rispetto alla nostra era la cultura da cui nasceva. Si tratta di un aspetto della letteratura greca che, per fortuna, può essere percepito anche attraverso una traduzione. Basta che, come sempre avviene quando si leggono testi provenienti da un popolo che non esiste più, il lettore non rinunzi ad esercitare la propria fantasia: cercando cioè di restituire il più possibile ai testi quei contorni culturali che essi avevano quando erano vivi. Credo anzi che, in un caso del genere, alcuni preferirebbero parlare di esercizio della nostalgia: e dato che si tratta di ricreare nella memoria un mondo tramontato per sempre, forse non avrebbero torto.
Cominciamo con Omero. Virgilio, lo sappiamo, si ispirò a lui per creare l’Eneide. Salvo che Virgilio era un poeta alla maniera di Dante o di Milton, anche lui cioè componeva con l’ausilio della scrittura. Omero no. Anzi, Omero non c’era neppure, c’erano dei cantori, degli aedi che, fondandosi sulla memoria, componevano di fronte al pubblico una lunga serie di versi, in cui si narrava l’incontro fra Ettore e Andromaca o l’avventura di Odisseo nella grotta del Ciclope. L’epica greca, infatti, nasce come poesia orale, produzione fondata su formule, regole di mnemotecnica, abilità improvvisatoria. Il cantore epico non poteva arrestarsi, tornare indietro, cancellare, aggiungere… La sua opera si consumava una volta per tutte, nella performance epica, nasceva e moriva con l’occasione pubblica che l’aveva generata. Solo in seguito, quando ormai anche la civiltà greca non seppe più fare a meno della scrittura, si procedette a raccogliere e redigere ciò che noi oggi chiamiamo Iliade e Odissea.
Ecco dunque la prima occasione che potrebbe presentarsi al lettore moderno per esercitare la propria fantasia, ovvero la propria nostalgia. Man mano che si inoltra, con Odisseo, nella grotta del Ciclope – una grotta da cui è impossibile uscire, a motivo dell’enorme masso con cui il mostro ne ha bloccato l’ingresso – man mano che si fa prendere dalla commozione di fronte al piccolo Astianatte che vede suo padre per l’ultima volta, provi a sovrapporre queste scene con quella dell’aedo Demodoco che si esibisce nella reggia dei Feaci (Odissea VIII, 261 sgg.): “Giunse l’araldo portando a Demodoco la cetra sonora, in mezzo alla sala si pose l’aedo […] Toccò le corde e intonò il canto …” Perché così nascevano, vivevano e si tramandavano questi che, a noi, sembrano solo splendidi pezzi di letteratura.
Rivolgiamoci adesso alla Musa. Molto spesso, si sa, i poeti invocano la Musa, o pretendono di averne una. È una cosa che gli autori del passato hanno fatto spesso, e che talora fanno anche oggi. Ma che cos’è per noi la Musa? Una figura letteraria, un dato della tradizione, al più un’affascinante presenza simbolica tramite cui il poeta può raffigurare la propria ispirazione – il momento magico in cui la poesia, finalmente, prende corpo. Per il poeta greco, specie quello di tradizione orale, le cose andavano in modo molto diverso. La Musa invocata nei poemi omerici, o le Muse incontrate da Esiodo nel prologo della Teogonia, sono presenze reali. Il poeta greco ha un rapporto religioso con la poesia, egli crede che, senza l’intervento della divinità, il suo canto non nascerebbe. Per questo invoca la Musa e le chiede di cantare, per lui, i fatti che si accinge ad esporre. Il poeta greco è un “collaboratore attivo” della Musa, di suo egli metterà la voce umana, le parole, ma la poesia gli giungerà da lei – e se lei non vorrà, o non sarà disposta, la poesia non nascerà. Nella mitologia greca le Muse sono considerate figlie di Mnemosyne, la Memoria. Ma attenzione a questa “memoria”! Mnemosyne infatti non rappresenta la memoria passiva, il serbatoio di fatti o di eventi che ciascuno di noi porta dentro di sé (quello che, per la sua strabocchevole capienza, ossessionava le notti del Funes di Borges). Mnemosyne è la memoria attiva, non colei che ricorda, ma colei che fa ricordare. Questo è per i Greci la Musa: è lei che “fa ricordare” al poeta ciò che si accinge a cantare.
Stiamo parlando di memoria – ma perché non parlare allora di oblio? Anche per i Greci infatti, come per noi, queste due nozioni vanno insieme. Salvo che in terra greca memoria e oblio appaiono articolate fra loro in modo decisamente differente rispetto alla nostra esperienza: e soprattutto, risultano profondamente connesse al significato e alla funzione della poesia.
Quando si parla di oblio greco, naturalmente, la parola che viene subito alle labbra è léthe, il sostantivo che indica sia l’atto di dimenticare, sia la mitica fonte che produce oblio in coloro i quali ne bevono le acque. Oltretutto a léthe si connette alethés, l’aggettivo che significa ciò che è “vero”, così come il sostantivo alétheia. Un termine che nasce all’interno di un contesto mitico e religioso molto preciso, e sul cui valore – in rapporto con altre entità quali Dike “Giustizia”, Mómos “Biasimo”, Áte “Accecamento” e la stessa Mnemosyne “Memoria” – ha scritto pagine di grande interesse Marcel Detienne in Maîtres de Vérité dans la Grèce archaïque. In questo caso, però, a noi interessa un “oblio” greco meno consueto, meno popolare di léthe: lesmosyne.
Dal punto di vista linguistico, questa parola evoca infatti la condizione del lésmon, ossia quella di chi è “dimentico”, “oblioso”, o anche di chi, attivamente, produce la dimenticanza. Perché occuparsi proprio di lesmosyne? Perché questo termine poco noto ci permette di risalire fino ad una delle testimonianze più antiche che la Grecia ci abbia tramandato in materia di memoria e di oblio. Si tratta della Teogonia di Esiodo. Verso l’inizio dell’opera, allorché il poeta viene a parlare delle Muse, egli ne descrive in questo modo la nascita e le funzioni (Teogonia 55):
“Le partorì nella Pieria, unitasi al padre Cronide, Mnemosine (Mnemosyne), regina dei clivi di Eleuthere, perché fornissero oblio (lesmosyne) dei mali e tregua agli affanni”
Ecco dunque lesmosyne fare il suo tempestivo ingresso sulla scena dell’oblio. Ma in quale singolare polarità! Delle Muse infatti ci viene detto che sono figlie della dea Memoria (Mnemosyne) e però, contemporaneamente, che il loro scopo è quello di produrre oblio (lesmosyne), anche se dei mali. Lo schema sottinteso a questa polarità è molto chiaro. In quanto collaboratrici attive del poeta arcaico – e fonte per lui di “rammemorazione” dei singoli temi che intende trattare – le Muse sono figlie della memoria; ma proprio per questo, ossia in quanto divinità che presiedono alla produzione poetica, esse ne incarnano anche la virtù principale, quella consolatoria – e dunque producono dimenticanza. In questo oscillare delle Muse fra ricordo ed oblio – fra custodia della memoria poetica da un lato, e produzione della dimenticanza benefica dall’altro – sta racchiuso uno dei tratti principali della poetica greca arcaica.
Parlando di differenze fra l’esperienza poetica dei Greci e quella delle epoche successive, però, non si può certo tacere del mito. Gran parte della letteratura ellenica, infatti, è ispirata alla materia narrativa che anche noi, con parola greca, definiamo “mito” (mythos). Questo vale per la poesia epica, ma vale anche per le opere storiche (in cui la tradizione mitologica mantiene sempre il proprio posto) e per la filosofia (che a volte cerca di liberarsene, a volte di impadronirsene), e così di seguito. Di mito si nutre poi una delle maggiori creazioni della letteratura greca, la tragedia. Gli eventi reali, contemporanei o storici che fossero, non trovavano posto sulla scena tragica. Se I Persiani di Eschilo sembrano aver fatto eccezione a questa legge, drammatizzando i luttuosi avvenimenti che seguirono alla disfatta persiana di Salamina, di norma il poeta greco portava sulla scena solo la storia di Agamennone, un eroe della guerra di Troia, o la rovina di Edipo, un personaggio che apparteneva ad una generazione addirittura anteriore a quella che combatté a Troia. E quando tutt’intorno infuriava la guerra del Peloponneso, sulla scena andavano le vicende di Elena e Menelao, non le disfatte dell’armata ateniese. Di mito si nutre comunque anche la lirica corale di Pindaro, quella che celebra i vincitori nelle gare sportive – nobile, troppo nobile antecedente delle moderne cronache sportive. È dal mito, infatti, che Pindaro trae esempi e paradigmi; è dal mito che si lascia guidare per distinguere ciò che è grande da ciò che è meschino, ciò che è giusto da ciò che è ingiusto. Senza il mito la poesia greca non esisterebbe e, aggiungiamo, senza poesia non ci sarebbe neppure mito. Per i Greci infatti le due cose andavano insieme. Ma che cos’è per noi il mito?
Lasciamo da parte il moderno equivoco – perché di questo si tratta – che dal Settecento in poi ci ha indotto a considerare “mito” anche il racconto fantastico o leggendario proveniente da società diverse da quella dei Greci. Tanto che noi parliamo tranquillamente di “miti aztechi” o di “mitologia africana”, come se il mito costituisse una categoria di pensiero, o di cultura, valida in ogni tempo e identica per tutti i paesi del globo. Ma anche considerando mito soltanto quello greco, non possiamo ignorare che, nella percezione comune, il racconto di Leda sedotta dal cigno/Zeus, o quello di Agamennone ucciso dalla moglie Clitennestra per noi costituiscono al massimo degli intrecci. Racconti di fantasia, drammatici o affascinanti, talora leggeri o persino civettuoli (basta pensare all’uso che del mito greco fece l’Arcadia nel Settecento): ma pur sempre favole, miti appunto.
La stessa cosa non vale per gli autori greci. Per loro infatti il mito costituiva una sorta di linguaggio, un modo di comunicare con i valori, o i disvalori, della società; un codice culturale in forma narrativa, che aveva dalla sua la forza persuasiva del racconto. A volte non era neppure necessario raccontarlo per intero, il mito – Pindaro fa quasi sempre così – basta introdurne uno scorcio, un frammento, un’allusione. Il solo lampeggiare del mito aveva già la forza di comunicare un significato o di suggerire un’emozione. Per quanto filosofi e psicoanalisti si siano sforzati, fra Otto e Novecento, di restituire al mito la dignità di un discorso “vero” – se non altro per la sua capacità di rivelare le pulsioni segrete dell’inconscio – nessuno è mai arrivato al punto di esaltare il potere comunicativo del puro nome mitologico senza altre determinazioni. Ecco invece quello che scriveva un poeta ateniese del IV secolo a. C., Antifane, in una commedia che, guarda caso, come titolo aveva proprio Poiesis (fr. 189 Kassel-Austin, II, 418-419):
“la tragedia è un’arte fortunata, perché gli spettatori conoscono l’intreccio già prima che il poeta lo racconti. Basta ricordarglielo. Appena pronunziato il nome di Edipo, già si sa tutto il resto – il padre Laio, la madre Giocasta, le figlie, i figli, che cosa ha sofferto, la sua colpa. Allo stesso modo basta che uno dica Alcmeone, e con questo si è già parlato anche dei suoi figli, di come egli sia impazzito e abbia ucciso sua madre, e di come Adrasto entri in scena, poi esca, poi rientri ancora…”
La semplice menzione del nome di un eroe mitico – Edipo, Alcmeone – ha la capacità di richiamare immediatamente alla memoria non solo una rosa di personaggi (Edipo: Laio, Giocasta, Eteocle e Polinice, Antigone e Ismene…; Alcmeone: Anfotero e Acarnano, Erifile, Adrasto…), ma anche una sequenza di eventi narrativi (patricidio e incesto, fratricidio, matricidio, purificazione e così di seguito) organizzati secondo determinati modelli culturali (sofferenza, colpa, follia e così di seguito). Questo è il mito per i Greci. Una rete invisibile, che percorre e contiene tutta la loro cultura. Basta tirarne un lembo, e il resto segue.
Parlando dell’importanza del mito, e della sua importanza per comprendere la produzione letteraria dei Greci, una domanda sorge spontanea: i Greci credevano veramente nei racconti mitologici? E che sentimento provavano quando si trovavano di fronte, sulla scena teatrale, ad eroi e personaggi che rimandavano alla sfera del mito? In realtà, si ha l’impressione che a teatro, o ascoltando semplicemente il canto del poeta, la credenza nei miti si realizzasse secondo modalità diverse rispetto a quelle che potremmo immaginare noi moderni. Diodoro Siculo ci mette sulla buona strada (Bibliotheca, 4, 8):
“a teatro [...] non crediamo all’esistenza dei centauri mezzi uomini e mezzi animali, né a quella di un Gerione con tre corpi, ma non per questo apprezziamo di meno le favole (mythologiai) di questo genere e nell’applaudirle rendiamo omaggio al dio”
I Greci a teatro credevano e non credevano, dunque, alle favole mitologiche – ma si guardavano bene dal rifiutare loro l’applauso e soprattutto dal rendere omaggio al dio. Com’era possibile? Una risposta possono fornircela alcune riflessioni di Gorgia. Nell’Encomio di Elena (fr. 11, 9 sg. Diels-Kranz), il sofista di Lentini esprimeva tutta la sua fiducia nei poteri della poesia. Questo logos fornito di metron, come egli lo definisce, è capace di produrre gli effetti più disparati sulla psyche degli uomini: spavento, compassione desiderio struggente [...] I “divini incantesimi di parole” (entheoi dia logon epodai) agiscono su di noi con la stessa forza della “fascinazione” (goeteia) e della “magia” (mageia): “E quanti, a quanti, e quante cose fecero e fanno credere, plasmando un falso discorso!” La poesia dunque crea falsità e ci spinge a prestarvi in fede in forza delle sue malie. Di fronte ai suoi poteri le difese razionali cedono – si crede, e basta. Altrove, comunque, il discorso di Gorgia si fa ancora più interessante, perché al problema della credenza poetica si associa, abbastanza inaspettatamente, quello della giustizia e della saggezza. Si tratta di un breve passaggio conservatoci da Plutarco (fr. 23 Diels-Kranz: Plutarco, De gloria Atheniensium 5, 348 c; “Quomodo adulescens poetas audire debeat”, 15 d):
“La tragedia fiorì e divenne famosa [...] offrendo con i suoi miti e le sue passioni (mythois kai pathesi) un inganno (apate) in base al quale, come dice Gorgia, chi inganna è più giusto (dikaioteros) di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio (sophoteros) di chi non è ingannato”.
Secondo Gorgia, insomma, la poesia tragica è un inganno non solo meritorio, ma anche spiritualmente vantaggioso: chi lo pratica è un ingannatore “giusto”, chi ne è vittima un ingannato “più saggio” di chi si sottrae all’inganno. Ecco dunque un programma, invero originale, che permette di credere e non credere contemporaneamente, ovvero di comportarsi da creduli ottenendone, in cambio, un vantaggio morale. Di fronte alla poesia drammatica – quando “a teatro non crediamo all’esistenza dei centauri mezzi uomini e mezzi animali [...] ma non per questo apprezziamo di meno le favole di questo genere e nell’applaudirle rendiamo omaggio al dio”, come diceva Diodoro – noi prestiamo fede all’incredibile perché l’inganno di cui si è vittime è giusto e ci rende migliori. Sia detto per inciso, ma quante religioni – specie se messe di fronte alle contraddizioni del proprio credo – non sarebbero pronte a sottoscrivere un simile programma di verità? Gorgia dunque attribuiva una straordinaria importanza alla fede poetica. Oltre duemila anni dopo, peraltro, Samuel Taylor Coleridge professerà convinzioni non dissimili. Ricordando il progetto delle Lyrical Ballads, egli racconta infatti quanto segue (Biographia Literaria, a cura di P. Colaiacomo, 1991, 235 sgg.): “I miei sforzi” dice “sarebbero stati rivolti a persone o caratteri soprannaturali … ma in modo tale da proiettare su di loro, dalla nostra intima natura, un interesse umano e una parvenza di verità sufficienti a conferire a queste larve dell’immaginazione quel momento di volontaria sospensione della incredulità (suspension of disbelief) nel quale consiste la fede poetica”.
Se i Greci hanno ceduto all’inganno della poesia, i romantici inglesi non sono stati da meno, teorizzando esplicitamente la necessità di sospendere l’incredulità di fronte al soprannaturale. Di fronte alla poesia, i confini fra il credere e il non credere vengono cancellati. E certamente anche noi continuiamo in qualche modo a operare questa sospensione, pur se oggi il posto della poesia nel senso di Coleridge – le perturbanti vicende descritte in The Rime of the Ancient Mariner (1798) o in Christabel (1816) – è stato occupato da differenti tipi di “finzioni”. Il programma di verità della poesia – della finzione poetica, letteraria o cinematografica – non sembra essere molto cambiato. La volontaria accettazione dell’apate, ovvero il ricorso alla suspension of disbelief – non saprei, però, se allo scopo di divenire “più saggi” – continuano a svolgere la loro funzione.
Ma c’è un altro aspetto della letteratura greca che, più di ogni altro, potrebbe oggi creare equivoci o illusioni, così come già li ha creati nel passato. Illusioni che si sono spesso rivelate creative, è bene dirlo, visto che nel corso dei secoli – proprio perché invitavano a fraintendere la natura autentica della poesia greca – esse hanno prodotto opere di straordinario valore. Basta pensare ad Orazio, che scrive le sue Odi per proseguire il cammino dei poeti lirici di Lesbo, Saffo e Alceo, e invece va in una direzione molto diversa. La lirica oraziana è bellissima, inutile dirlo: chi può resistere al fascino del Soratte, imbiancato di neve, che campeggia all’inizio del carme nono del primo libro? Ma è pur sempre una poesia interamente “scritta”, colta, che sviluppa una metrica così regolare da evocare più l’immagine di una pagina di solfeggio che non la dolcezza di una melodia. Ma non anticipiamo. Il (possibile) fraintendimento radicale di cui parliamo, riguarda il pubblico, ovvero il destinatario, a cui la poesia greca si rivolgeva.
Niente come ciò che chiamiamo “lirica” può aiutarci a mettere a fuoco i contorni del problema. Quando parliamo di lirica, infatti, il nostro pensiero corre inevitabilmente ad un poeta chiuso nel suo studiolo – prigioniero della memoria o catturato dal male di vivere – che scrive una poesia destinata, prima di tutto, a se stesso. Non a caso, perfino in linguistica si parla di “funzione lirica” – contrapposta alla funzione esortativa, o a quella referenziale – quando si vuol indicare un tipo di discorso che si rivolge in primo luogo a colui che lo pronunzia. Il moderno poeta lirico compone per se stesso e poi per quelle maschere, o controfigure, dell’io che sono le anime ugualmente liriche – lettori sensibili, a cui si possono comunicare ricordi o pensieri d’amore. Tutto ciò è molto bello e, anzi, senza la categoria della “lirica” gran parte della nostra migliore produzione poetica sarebbe destinata a scomparire – anche della peggiore, in verità. Ma questo mostra soltanto che, per noi, la poesia lirica, intesa nel modo che abbiamo detto, è in definitiva la poesia per eccellenza: quella che tutti i grandi poeti moderni scrivono e hanno scritto, quella che compone il liceale o colui al quale è toccato in sorte un animo troppo sensibile per la vita che fa. Di una cosa però possiamo essere certi: la nostra poesia lirica non ha nulla a che fare con quella dei Greci.
Pensare che Saffo, quando si dispera per l’abbandono dell’amata, o per il rivale che le siede a fronte, faccia la stessa cosa di un Petrarca o di un Saba, sarebbe un’illusione. Non perché Saffo non potesse coltivare pensieri simili, in qualche modo, a quelli che animano le composizioni dei lirici moderni, ma perché la poetessa di Lesbo non scriveva per se stessa, chiusa in una stanza. Al contrario, le sue composizioni erano indirizzate a un pubblico – eccola, la parola importante – che si raccoglieva nel tìaso femminile, o in altre dimore familiari, per ascoltare le sue composizioni.
Le poesie di Saffo nascevano non solo dal sentimento e dall’esperienza personale, ma anche e soprattutto dall’occasione. C’era un pubblico ad attenderla, e questo significava che la poetessa avrà dovuto onorare anche una certa tradizione, ossia un certo insieme di temi canonici (più nobilmente i Greci li chiamavano topoi) che le avrebbero semplificato il compito di farsi capire ed apprezzare. Che cos’ha a che fare, tutto questo, con il moderno poeta lirico? Come se non bastasse, Saffo non si limitava a declamare in pubblico le sue liriche, ma addirittura le cantava, accompagnandosi con la lira. Lo stesso discorso vale naturalmente per tutta la poesia eolica, Alceo prima di ogni altro: anche lui poeta appartenente a un gruppo, cantore pubblico di liriche il cui significato era profondamente legato alla performance, al luogo, all’occasione. Ma un discorso analogo vale ovviamente anche per tutto il resto della lirica greca, sia che fosse eseguita da un solista (monodica) o da un coro (corale). In ogni caso, infatti, il lirico greco aveva un pubblico concreto di fronte a sé.
Torniamo per un momento ai generi letterari cui abbiamo accennato sopra. Non è forse vero che anche il cantore epico aveva davanti prima di tutto un pubblico? E come sarebbero potuti esistere i grandi tragediografi o commediografi attici, se non ci fosse stato un pubblico pronto ad accogliere, favorevolmente o sfavorevolmente, le loro composizioni? Ma anche le Storie di Erodoto furono destinate, ad Atene, alla pubblica lettura, tanto che per esse si parla talvolta di “pubblicazione orale” (un’espressione che suona talmente contraddittoria, alle nostre orecchie, che dovrebbe farci immediatamente capire quanto diverso era l’orizzonte culturale in cui si iscriveva la produzione letteraria greca). Quanto a Socrate, si sa che egli esercitò il suo magistero filosofico senza mai scrivere un rigo: mentre Platone, suo discepolo, ci ha lasciato una straordinaria quantità di opere scritte in cui, contestualmente, viene talvolta deprecato l’uso dei caratteri dell’alfabeto. A questo proposito, vale la pena di raccontare una vicenda intellettuale che riguarda, in ugual misura, Socrate il maestro, Platone il discepolo e tutti coloro che, in varia misura, si sono adoperati a ricostruire il pensiero socratico.
Siamo quasi al termine del Fedro di Platone (275d sgg.), e Socrate ha appena finito di raccontare a Fedro il mito egizio relativo a Theuth: il dio inventore dei caratteri dell’alfabeto, la cui scoperta fu rifiutata dal saggio re Thamus con l’argomento che la scrittura non sarebbe stata capace di trasmettere vera sapienza ma solo un’apparenza di essa. Dopo di che Socrate continua in questo modo:
“la scrittura rassomiglia in modo terribile alla pittura di esseri viventi. Perché gli esseri che essa crea ci stanno davanti come se vivessero: ma se li interroghi, mantengono un dignitoso silenzio. Così è per i discorsi scritti. Crederesti che potessero parlare come se fossero dotati di pensiero, ma se tu li interroghi per chiarire ciò che dicono, essi sono in grado di significare solo una cosa, e sempre la stessa.”
Si tratta di un passo che è stato studiato e discusso centinaia di volte, quello da cui forse meglio che da altri si ricava che, per il Socrate di Platone, la parola scritta è una parola fittizia, la quale simula la presenza di pensiero senza peraltro possederla: così come la pittura di esseri viventi simula la presenza di vita reale. Ragion per cui, se qualcuno pretende di chiedere di più a un discorso scritto, se uno vuole interrogarlo, andando al di là della lettera effettiva, resterà infallibilmente deluso. Come chi pretendesse, in un certo senso, di abbracciare delle immagini dipinte trattandole da creature vere.
Le conseguenze di queste affermazioni platoniche sono abbastanza sconvolgenti: e non solo se riguardate dal punto di vista dei rapporti fra cultura orale e civiltà della scrittura. Con il suo giudizio pesantemente negativo sui “discorsi scritti”, ritenuti incapaci di significare al di là di se stessi, il Socrate di Platone condanna non solo l’uso dei caratteri dell’alfabeto ma anche, indirettamente, la pratica di qualsiasi filologia, di qualsiasi ermeneutica o arte dell’interpretazione. Discipline che corrispondono proprio all’arte di “far parlare” i testi, comparando, sommando, arguendo – insomma adoperandosi a far dire al testo sempre qualcosa di più rispetto a quello che vi sta positivamente scritto. Posto di fronte a un qualunque testo, il filologo si sentirà in dovere di “farlo parlare”, come del resto correntemente si dice: ovverosia, di far fare al discorso scritto ciò che, per il Socrate di Platone, esso non è assolutamente in grado di fare.
Del resto non ci sono dubbi che la filologia presupponga inevitabilmente l’esistenza e la pratica della scrittura. Scriveva Alfred Louis Kroeber più di cinquant’anni fa nel capitolo dedicato alla configuration della filologia nella storia della cultura umana (Configurations of Culture Growth, 1944, 234, 216): “Invariabilmente è stato un linguaggio scritto e riconosciuto come language of civilization, di solito utilizzato come canone religioso, ad essere sottoposto a studio filologico”. Altrove, parlando della grammatica come l’aspetto forse più determinante nell’attività filologica, Kroeber era ancora più esplicito: “Non ci sono indicazioni del fatto che qualsiasi individuazione dell’esistenza di una grammatica, al di là di sporadici lampi, sia stata raggiunta da popoli senza scrittura”. La filologia, scienza della parola, per nascere ha bisogno di poter contare su parole fisse, ripetibili, confrontabili con altre: anche in tempi diversi. Dunque ha bisogno di parole scritte. Essa sorge al momento in cui la comunità si trova a disporre di un grande testo – i poemi omerici, l’Eneide, la Bibbia – e si pone il problema di interrogarlo fino a spremerne il significato più riposto e quindi, si presume, anche più vero. La filologia, soprattutto sotto il suo aspetto ermeneutico, nasce proprio contraddicendo l’affermazione socratica secondo cui i “discorsi scritti”, se li si “interroga per chiarire ciò che dicono, sono in grado di significare solo una cosa, e sempre la stessa”. Il filologo – antico o moderno – la pensa esattamente all’opposto di Socrate. I discorsi scritti sanno rispondere, eccome: basta interrogarli nel modo giusto. E anzi, se li si interroga secondo un metodo di carattere, in qualche modo, giudiziario, si riuscirà a far dire loro nientemeno che la verità.
Se dunque il Socrate di Platone condannava, con la scrittura, anche la filologia, a maggior ragione avrebbe condannato una filologia che si rivolgesse direttamente su di lui, dichiarando di voler estrarre la natura viva del suo insegnamento, e della sua vita, dalle testimonianze scritte che possediamo riguardo a tutto ciò. Come si può pretendere, avrebbe subito obiettato, di ricostruire la mia biografia, la mia indole, la mia sapienza, attraverso la testimonianza di caratteri scritti? I caratteri scritti simulano il pensiero, ma non lo posseggono: interrogati, non sanno rispondere, o meglio ripetono sempre e soltanto la stessa cosa. Il paradosso di una filologia del pensiero socratico sta esattamente in questi termini. Non c’è solo la difficoltà di ricostruire, attraverso testimonianze indirette, il contenuto di un insegnamento che si fondava esclusivamente sul dialogo con l’interlocutore-discepolo: c’è soprattutto quella di sottoporre le testimonianze socratiche ad un tipo di analisi che il soggetto stesso di queste testimonianze, colui al quale si rivolgono le cure dell’interprete, palesemente avrebbe rifiutato.
Per fare della vera filologia socratica, insomma, bisognerebbe disporre di lui in persona: Socrate. Il quale, sempre secondo la terminologia usata dal Socrate di Platone, si configurerebbe come il “padre” (Fedro 275e, 278a) di tutti i discorsi che lo riguardano, dunque il loro possessore, capace di rappresentarli autorevolmente, anche di difenderli. Se Socrate fosse qui, allora si potrebbe riallacciare il necessario legame familiare fra il suo discorso, quello che desidereremmo appunto ricostruire, e i discorsi sviluppati in proposito dai vari interpreti: lui li avrebbe anzi definiti quei discorsi che, “figli o fratelli (del suo), sono nati in altre anime di altri uomini” (Fedro 278a). Per parlare di Socrate in un modo per lui accettabile, sarebbe insomma necessario ristabilire la forma del dialogo. Socrate, del resto, era come ossessionato dal desiderio del dialogo, del discorso io/tu, quello che nasce dalla viva presenza di due interlocutori. È come se alla sua natura ripugnasse di essere trasformato nell’oggetto di un discorso che lo riguardava ma in cui, contemporaneamente, non era in grado di interloquire. Questo poteva avvenire allorché le parole venivano registrate e fissate con l’ausilio dei caratteri dell’alfabeto, realizzando quello che a lui appariva solo “immagine”, éidolon, del discorso “vivente e animato” (276a). Ma la stessa sensazione di umbratile e muta inconsistenza Socrate sembra provarla anche allorché il discorso resta, sì, di carattere orale, ma si svolge comunque in assenza di colui che ne costituisce l’oggetto. Ed ecco l’ultimo atto della vicenda intellettuale che abbiamo voluto raccontare.
Siamo verso gli inizi dell’Apologia, al momento in cui Socrate prigioniero si rammarica di trovarsi a controbattere non solo degli accusatori che si trovano in quell’aula, ma anche detrattori ormai remoti, che lo hanno calunniato nel corso degli anni persuadendo gli ateniesi con le loro falsità. Adesso questi (Platone, Apologia di Socrate, 18d) “dopo avervi messo su con l’invidia e la calunnia... si sono resi tutti irreperibili: di fatto non riesco a farne venire nessuno in tribunale per confutarlo, costretto a difendermi proprio come se combattessi contro delle ombre, e a confutare senza che alcuno risponda”
Allo stesso modo del discorso scritto, muto éidolon, anche il discorso di chi è assente è ombra: e soprattutto anche lui, proprio come il discorso scritto, se viene interrogato non può rispondere. Fra i due tipi di discorso, quello scritto e quello pronunziato lontano da chi ne costituisce l’oggetto, Socrate stabilisce un affascinante parallelismo: entrambi corrispondono a immagini fittizie, entrambi sono incapaci di replicare a chi li interroga. Il fatto è che, ciascuno a suo modo, discorso scritto e discorso in absentia costituiscono la negazione del dialogo.
Se abbiamo deciso di soffermarci un po’ più a lungo sulla vicenda di Socrate e della sua idea del “discorso”, lo abbiamo fatto soprattutto per sottolineare l’importanza che la dimensione orale, dialogica, interattiva ricopre nella produzione culturale dei Greci. Si pensa e, quando lo si fa, si scrive non per un destinatario astratto ma per un pubblico vivo e concreto. Ed è all’interno di questo specifico contesto relazionale che hanno composto e recitato i loro versi quei poeti che predilessero i giambi aggressivi, come Semonide o Ipponatte, o quelli che si dedicarono all’elegia, come Teognide. Il corpus della poesia teognidea, in particolare, non sarebbe neppure concepibile senza quel luogo sociale – così “greco”– che porta il nome di simposio. Un contesto di ritualizzato divertimento, dove il bere insieme era regolato da prescrizioni specifiche e dove i convitati partecipavano attivamente all’esibizione poetica: proponendo in versi enigmi da risolvere, producendosi a coppie in giochi di botta e risposta, improvvisando a turno su un tema assegnato. La conclusione di questa rapida carrellata non può che essere la seguente: il carattere che, più di ogni altro, marca la differenza fra la nostra poesia e quella dei Greci, fra noi e loro, è lo spazio, l’apertura: il gioco fra la voce viva del poeta e la presenza, altrettanto viva, degli uomini che ascoltano la sua voce. E che a volte perfino la rilanciano. Il pubblico. Di questa dimensione aperta e sociale la poesia greca non ha mai fatto a meno; la nostra, invece, si è spesso avvantaggiata della sua assenza.
C’è un momento, comunque, in cui la letteratura greca si avvicina – finalmente? – alla nostra, in cui cioè l’alterità radicale della poiesis cede il passo ad una dimensione diciamo moderna del comporre. Questo momento è costituito dall’ellenismo.
A partire dal IV e soprattutto dal III secolo a.C., infatti, in Grecia la poesia lascia le piazze, le sale o le scene, e si rifugia in biblioteca. Adesso i poeti sono diventati degli eruditi, dei bibliotecari appunto, i quali compongono le loro opere consultando i libri dei mitografi e, soprattutto, i poemi di coloro che li hanno preceduti. Omero cede il passo ad Apollonio Rodio (III a.C.), l’eroe della nuova poesia è Callimaco, un erudito al servizio dei Tolomei, nella città in cui ha sede la biblioteca più grande di tutto il mondo antico: Alessandria d’Egitto. Il modello poetico creato da autori come questi si fonda innanzi tutto sul principio della dottrina – per loro il mito è meno un linguaggio capace di comunicare con la cultura della società in cui vivono, che non una forma di eleganza, un modo per strizzare l’occhio al lettore e chiedergli complicità nella comune conoscenza delle storie più rare. Così come una tacita forma di intesa, o di esclusione, del lettore, è presupposta dai frequenti rimandi a versi scritti da altri poeti. Ciascuna di queste cripto-citazioni chiede infatti a chi legge: mi riconosci? Entrata in biblioteca, la poesia si è fatta meta-poesia (bellissima!). Adesso il poeta ha a sua disposizione un archivio di testi talmente smisurato, che può anche accontentarsi di richiamare abilmente il già scritto. Mentre a volte il filologo non si distingue più dall’artista.
Sarà proprio da questo modo di far poesia che prenderà le mosse la poesia latina, fino dai suoi inizi. Ma cosa ancor più rilevante, i poeti latini si ispireranno al modello di lettura che questi eruditi/artisti dell’ellenismo fornirono dei grandi classici che li avevano preceduti. Omero verrà letto con gli occhi di Apollonio e con quelli dei grandi esegeti alessandrini che ne avevano spiegato ed annotato il testo; il mito greco sarà recepito attraverso le preziosità di Callimaco, dovrà essere dotto, oscuro, allusivo. L’infanzia della poesia latina si presenterà, dunque, sorprendentemente matura. Dietro le spalle dei Romani, come già dietro quelle di Callimaco e Apollonio, ci sono ormai enormi scaffali, in cui Omero, Esiodo, Eschilo, Saffo, Alceo, Platone, Demostene, Erodoto hanno assunto forma di rotoli: ordinati, levigati, allineati uno accanto all’altro come in un lindo colombario. È davvero una fortuna, poter o dover leggere tutto ciò prima di comporre opere nuove? Chi può dirlo. In ogni caso, questa è già la letteratura dei moderni.