Introduzione alla scienza e tecnologia del Vicino Oriente antico
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Se la riflessione sul significato storico della scienza greca ha accompagnato gran parte delle vicende culturali della civiltà occidentale, la ricostruzione e la valutazione delle conoscenze naturali e delle capacità tecniche dell’uomo o degli uomini preistorici risale a meno di due secoli fa. Sino al 1860 circa, la stragrande maggioranza dei naturalisti e degli intellettuali occidentali era convinta che l’uomo fosse apparso da pochissimo tempo alla superficie della terra. Ovviamente, coloro che aderivano alla narrazione biblica o alla esegesi cristiana non credevano che le vicende umane risalissero a più di una manciata di millenni. Tuttavia, anche pensatori convinti che la Terra avesse avuto un’origine ben più remota, forse di centinaia di milioni di anni, e persino autori di ipotesi protoevoluzionistiche tra fine Settecento e i primissimi anni dell’Ottocento dichiaravano che la comparsa dell’uomo (creato da una intelligenza superiore o risultato finale di un perfezionamento graduale della natura) era un fenomeno geologicamente e forse storicamente recente. Inoltre, il fatto che il propositore più convinto dell’esistenza di esseri umani coevi con i grandi mammiferi della fine del Pleistocene o degli inizi del Quaternario, Jacques Boucher de Crèvecœur de Perthes fosse stato anche l’autore, nel 1841, di un saggio, De la création, essai sur l’origine et la progression des êtres, in cui sosteneva che il processo di sviluppo naturale delle forme viventi fosse determinato dalla crescita delle capacità psichiche dei vari tipi di organismi succedutisi sulla Terra, e fosse un fervente sostenitore della metempsicosi, non aiutava certo a scalfire le convinzione sia dei credenti sia di coloro – sempre più numerosi – che nel corso degli anni 1840 e 1850 aderiscono a une delle diverse teorie disponibili per spiegare il progredire della vita dalle forme più semplici sino alla più complessa, l’uomo, per l’appunto.
Sono le scoperte di numerosi reperti lapidei chiaramente lavorati dall’uomo per costruire coltelli, asce e punte di frecce che, intorno alla fine del 1850, convincono due eminenti geologi inglesi, Hugh Falconer e Sir Joseph Prestwich a visitare la collezione di Boucher de Perthes ad Abbeville, nel Nord della Francia e a convalidare l’ipotesi dell’esistenza dell’uomo preistorico – per usare l’espressione dell’epoca. Alcuni storici sostengono che il riconoscimento ufficiale delle scoperte di Boucher de Perthes nel 1859 ha avuto un impatto sulla cultura europea e occidentale forse maggiore della pubblicazione, lo stesso anno, dell’Origine delle specie di Charles Darwin. A partire dal 1860, il ritmo delle scoperte di reperti ossei, di tracce di vari tipi di insediamenti umani e di attività artigianali ad esse associate si fa quasi frenetico. Tra il 1870 e il 1900 l’“archeologia preistorica” diviene una disciplina alla moda, e musei e collezioni di reperti preistorici sorgono ovunque nel mondo occidentale. L’Italia ospita nel 1871, a Bologna, il secondo congresso internazionale di archeologia preistorica, e nel 1875 viene fondato il Regio Museo Nazionale Preistorico Etnografico di Roma, fortemente voluto da Luigi Pigorini, pioniere degli studi di paletnologia nel nostro Paese.
A partire dagli anni Cinquanta del XX secolo, sistemi sempre più affidabili di datazione dei reperti, e, negli ultimi anni, le tecniche di ricostruzione del DNA di esseri umani o di umanoidi vissuti centinaia di milioni di anni fa, hanno permesso di costruire mappe complesse di insediamenti umani a livello globale e del complesso intreccio di forme di vita da cui è emerso l’uomo contemporaneo, ben prima che gruppi di umanoidi siano in grado di lavorare la pietra o di abbandonare la vita nomade.
Come già, e per secoli, le tracce della grande civiltà egizia, così alcuni resti impressionanti di attività di uomini preistorici, dal cerchio di pietre di Stonehenge in Inghilterra alle grandi figure di animali tracciate sul terreno, che si estendono a volte per chilometri, in America Latina e in Europa, hanno dato vita a fantasiose leggende, tutte fondate sul presupposto che uomini così primitivi mai e poi mai avrebbero potuto realizzare manufatti di tale perfezione, o compiere i calcoli astronomici che sembrano aver determinato l’orientamento di pietre e strutture architettoniche. Per quel che concerne i grandiosi resti della civiltà egizia, non è raro sentire ancor oggi parlare (a volte con sgomento, sui canali delle televisioni pubbliche) dei supporti extraterrestri di cui queste popolazioni, tecnicamente così primitive, avrebbero usufruito per le loro imprese.
Le ricerche sulle tecniche e sulle conoscenze dell’uomo preistorico procedono, pur nei limiti dei reperti disponibili, e sono oggi in grado di documentare momenti epocali nella storia dell’umanità, come il diffondersi di popolazioni di uomini su tutta la superficie del globo, la costruzione dei primi insediamenti a seguito dello sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento, lo sviluppo di tecnologie del bronzo e del ferro che hanno costituito le premesse per lo stabilirsi di grandi imperi e di grandi civiltà, in Europa e nel Medio Oriente, in Cina e in America Latina. Dopo tutto, senza le osservazioni e le innovazioni tecnologiche di popolazioni umane di cui molto poco sappiamo, non sarebbe stato possibile accumulare quel bagaglio di conoscenze e di capacità di intervento sui fenomeni naturali senza il quale la specie umana non avrebbe potuto crescere in numero e in capacità di sopravvivenza. Il rimanere stupiti dinanzi ai rari monumenti che ci restano dovuti all’ingegno di uomini preistorici, o l’optare per interpretazioni fantasiose per spiegarne l’origine sta solo ad indicare una sorta di banale paternalismo verso i nostri lontani antenati.
La comprensione delle conoscenze scientifiche, in primo luogo astronomiche, e delle tecniche agricole, militari e amministrative prodotte dalle popolazioni dell’Asia Minore e della Mesopotamia ha tratto enorme beneficio dallo sviluppo della conoscenza della scrittura cuneiforme, i cui primi elementi sono stati elaborati dai Sumeri circa 3500 anni prima della nostra era. Affidata a tavolette di creta essiccate, la scrittura sumera subisce mutamenti radicali che accompagnano il succedersi dei grandi imperi che dominano la regione sino a circa il VI secolo a.C., sostituita poi dalla scrittura egizia, anche se l’ultimo esempio noto di scrittura cuneiforme risale all’anno 75 d.C. Gli esperti di scrittura cuneiforme distinguono tre forme principali, la sumera, la accadica (usata dagli Assiri e dai Babilonesi) e la ittita. Come per l’uomo preistorico, le prime conoscenze della scrittura cuneiforme risalgono solo agli anni Cinquanta dell’Ottocento, ma studi complessi della grammatica e del corpo di testi ancora disponibili nelle varie forme della lingua cuneiforme risalgono solo alla seconda metà del XX secolo, e parte del patrimonio a noi tramandato non è ancora comprensibile agli studiosi. I responsabili dell’innovativo progetto internazionale Cuneiform Digital Library Initiative calcolano che in collezioni pubbliche o private esistano a tutt’oggi circa 500 mila reperti testuali, di cui circa 250 mila già catalogati e a diposizione degli studiosi grazie al progetto digitale. Si tratta di documenti che coprono un arco di tempo dal 3.500 a.C. sino all’inizio della nostra era, e accompagnano il sorgere delle prime forme di Stato, di articolazione complessa di diverse società umane e dell’emergere di competenze professionali, incluse quelle tecniche e scientifiche in senso lato. A queste tavolette sono affidate le prime sistematiche osservazioni degli astri e dei pianeti a noi note, precise istruzioni sulla conduzione di aziende agricole e di campagne militari e sulla contabilità di uno stato altamente centralizzato. È interessante notare che i cacciatori di storie fantasiose sulle origini dell’umanità si sono tenuti alla larga dal difficile se non (per i più) impossibile mondo delle scritture cuneiformi, anche se, dal punto di vista della testimonianza che questo patrimonio offre dei primi sviluppi della nostra civiltà, il corpus letterario ancora allo studio degli esperti non è meno imponente né meno drammaticamente interessante delle piramidi d’Egitto.
Per la loro imponenza, fascino e per i molti interrogativi che le tecniche di costruzione impiegate hanno suscitato e suscitano tuttora, i templi, le città e le sepolture degli antichi Egizi hanno da sempre suscitato l’ammirazione della cultura Occidentale. Se poco è sopravvissuto delle civiltà che hanno preceduto quella greca e romana, quel poco scompare dinanzi alle piramidi e ai templi egizi. La tradizione vuole che molti filosofi e dotti greci, ivi incluso il grande Platone, abbiano passato periodi in Egitto a studiare i segreti della natura e dei saperi presso i sacerdoti di quell’impero. A partire dal Rinascimento europeo e per alcuni secoli pochi dubitano che la civiltà egizia sia stata la più perfetta raggiunta dall’umanità, e steli e urne egizie hanno cominciato ad ornare – e ornano ancor oggi – persino la capitale della cristianità. La spedizione del generale Bonaparte in Egitto (1798-1801) non è stata molto fortunata dal punto di vista militare, ma ha contribuito a dare un impulso straordinario agli studi sulla civiltà egizia, anche se al prezzo di spogliare il paese di una parte importante del suo immenso patrimonio. Una delle tante scoperte archeologiche della spedizione è stata quella della stele di Rosetta, risalente al 195 a.C., che riporta un testo redatto in caratteri geroglifici, in demotico (la lingua egiziana corrente), e in greco antico. Dopo secoli di inutili e spesso fantasiosi tentativi di decifrare i misteriosi simboli della lingua egizia, è oramai possibile intraprenderne uno studio approfondito e scoprire molti dei segreti della storia, delle credenze religiose, scientifiche e mediche di quelle popolazioni su un periodo di circa 2000 anni. Le tecniche di costruzione delle piramidi e dei molti ciclopici templi ancora visibili non sono tuttavia specificate nel corpus di scritti rinvenuti, e continuano ad alimentare una letteratura spesso non proprio ispirata a rigore filologico e scientifico. Come Giovanni Di Pasquale documenta nelle pagine dedicate alle scienze e alle tecniche egizie, gli studi degli ultimi tre decenni hanno contribuito a chiarire alcuni aspetti delle conoscenze e delle grandi capacità architettoniche degli antichi egizi. In particolare, appare definitivamente tramontato il mito di eserciti di schiavi utilizzati nelle grandi imprese edilizie volte a celebrare la divinità dei vari faraoni, a favore di una comprensione di tecniche complesse di organizzazione e divisione del lavoro in grado di massimizzare lo sforzo collettivo di centinaia e centinaia di uomini che utilizzavano semplici strumenti quali la leva o rulli di scorrimento.
Anche se molto si è appreso sulle tecniche e le conoscenze naturalistiche e scientifiche degli antichi Egizi, le campagne di scavi che ancora si susseguono e la messe di nuovi documenti portati alla luce promettono di gettar luce su altri aspetti di una civiltà che con i suoi monumenti, le sue pratiche mediche e le sue tecnologie ha interessato gli studiosi del mondo occidentale sin dall’epoca romana e dei primi imperi islamici.