Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Seicento è stato un secolo complicato, certamente per gran parte di coloro che lo hanno vissuto, ma anche per coloro che se ne sono occupati. Lo storico inglese Peter Burke ha osservato come gli studiosi del XVII secolo non abbiano a loro disposizione “alcuna etichetta convenzionale” generalmente accettata come quella di “Rinascimento” per il Cinquecento, o di “Illuminismo” per il Settecento. È vero, ma non è detto che questo sia uno svantaggio. Queste etichette sono spesso fuorvianti e sempre insufficienti per sintetizzare la complessità di un periodo storico.
Schiacciato fra due secoli “progressivi”, moderni o addirittura rivoluzionari, il Seicento non ha avuto per lo più una buona stampa. Secolo di crisi, “secolo di ferro”, di guerre, rivolte, oscurantismo, assolutismo e “rifeudalizzazione”, pseudopoesia, il Seicento appare, nel migliore dei casi, come una parentesi oscura, un contrattempo nel percorso trionfale di affermazione della modernità. In Italia ha a lungo pesato l’immagine manzoniana di un secolo “sudicio e sfarzoso”, segnato dal dominio straniero, dall’arroganza di una nobiltà inetta e retriva, dal conservatorismo culturale e sociale, dal controllo oppressivo della Chiesa controriformistica e dal tradimento di una borghesia mercantile e finanziaria che pure nel Cinquecento era sembrata ancora così dinamica. D’altra parte il fatto che l’Italia del Seicento avesse legato le sue sorti a una Spagna la cui declinación (decadenza) veniva lamentata dai suoi intellettuali più attenti già dall’inizio del secolo, non è stato d’aiuto.
Ma se si sceglie un altro punto di osservazione le conclusioni possono essere molto diverse e vedere nel Seicento un secolo di crisi, un secolo “tragico”, appare difficile. Il “secolo di ferro” diventa, almeno nella sua seconda parte, il Gran Siècle dell’egemonia politica e culturale della Francia di Luigi XIV, oppure il Gouden Eeuw (epoca d’oro) del primato economico e marittimo dell’Olanda, o, più modestamente la Stormaktstid (età della grandezza) in Svezia, da Gustavo II Adolfo a Carlo XII. Visto da Parigi, Amsterdam o Stoccolma il Seicento appare meno tragico o malinconico di quanto non appaia se visto da Magdeburgo – città martire della guerra dei Trent’anni –, Madrid, o anche Milano.
Posti di fronte a queste definizioni e immagini così fortemente contrastanti, gli storici si sono spesso rifugiati in espressioni che sottolineano l’ambivalenza del Seicento, un ”secolo di contrasti”, un “secolo in chiaroscuro”. Forse tra questa la migliore è quella di “età barocca”, non perché il barocco esaurisca la dimensione culturale di questo secolo, che è anche classicista e varie altre cose, ma perché questo termine, controverso fin nella sua etimologia e così spesso abusato nel linguaggio comune, si presta particolarmente bene a trasmettere l’idea di eccesso, inquietudine, irregolarità, stupore, illusione e, appunto, coesistenza degli opposti.
La decadenza mediterranea nella civiltà europea
Queste immagini contraddittorie riflettono e amplificano – forse –un dato reale. Uno dei tratti caratterizzanti del Seicento è il compimento di quel sovvertimento degli equilibri europei – soprattutto a danno dell’Italia ma più in generale dell’Europa mediterranea – che forse era già implicito nell’apertura delle rotte oceaniche ma che per tutto il Cinquecento non si era tradotto in atto.
I contemporanei hanno la netta percezione che qualcosa sia successo nei rapporti di forza fra l’Europa settentrionale e atlantica e quella mediterranea, ponte fra la cristianità e le altre civiltà dell’Eurasia, e anche per questo per secoli all’avanguardia nello sviluppo della civiltà europea.
L’ultimo quarto del secolo sembra il punto di svolta. L’Italia di fine Seicento appare come un paese povero – “the extreme misery and poverty that are in most of the Italian governements” di cui parla Addison – che di fronte alla concorrenza sempre più aggressiva di Olandesi, Francesi e Inglesi ha abbandonato progressivamente tutti quei settori – della manifattura, del commercio, e in ultimo anche della finanza – sui quali per secoli aveva costruito la sua prosperità. Ma l’Italia appare anche, e forse soprattutto, un paese culturalmente arretrato, ai margini della circolazione culturale che sempre più intensamente percorre l’Europa. Proprio mentre, tra Sei e Settecento, si va costruendo “un’idea di Europa quale spazio di una specifica civiltà, al suo interno articolato in una rete gerarchicamente organizzata di culture nazionali” (come scrive Marcello Verga nel saggio “La Spagna e il paradigma della decadenza italiana tra Seicento e Settecento”, in Alle origini di una nazione, 2003), l’Italia scivola in una posizione marginale. Non solo non riesce più a esportare i prodotti dei suoi artigiani, ma neppure idee e immagini.
Il rogo di Giordano Bruno il 17 febbraio del 1600 e il processo e la condanna di Galileo Galilei nel 1632-33 da parte delle autorità ecclesiastiche, sono diventati i simboli dell’interpretazione che imputa questo ripiegamento della cultura italiana essenzialmente all’azione repressiva della Chiesa controriformistica. Ma si tratta di una lettura semplicistica. Il complessivo declino italiano, relativo o assoluto che sia, non è certo addebitabile solo all’influenza nefasta dell’oscurantismo controriformista o della dominazione spagnola, come si usava fare fino a mezzo secolo fa. La crisi italiana va compresa in un contesto almeno europeo e probabilmente mondiale. È parte di una crisi dell’antico asse che unisce il Mediterraneo all’Oceano Indiano: pur avendo costituito per millenni la spina dorsale dell’Eurasia, esso viene drammaticamente rimesso in discussione dalla “rivoluzione spaziale planetaria”.
La rivoluzione scientifica
L’interpretazione pessimistica del Seicento appare particolarmente inadeguata se si guarda agli sviluppi intellettuali. La condanna di Galileo ha assunto il suo significato simbolico di precaria effimera vittoria dell’oscurantismo anche perché proprio in quei decenni la cultura europea stava vivendo una trasformazione radicale.
Si è cercato spesso di dimostrare, negli ultimi decenni, che la rivoluzione scientifica – così come la scoperta dell’America, la rivoluzione industriale o quella francese – non si sia mai verificata e che, in ogni caso, abbia avuto ben poco di rivoluzionario. Naturalmente non è difficile individuare prodromi e precursori che consentano di parlare di una lenta e progressiva evoluzione piuttosto che di un mutamento radicale e relativamente rapido. La scienza secentesca deve molto a quella rinascimentale che, a sua volta, ha legami profondi – rivendicati con orgoglio – con quella dell’Antichità classica e – meno sottolineati – con il sapere medievale. Ma insistendo sulla continuità si rischia di smarrire l’essenziale, di perdere di vista il nuovo modo di considerare la natura che si impone in Europa in questa fase. Due nomi per riassumere questa nuova prospettiva sul mondo: il già citato Galileo – a riprova del fatto che alla metà del Seicento l’Italia aveva ancora qualcosa da dire in campo scientifico e filosofico oltre che artistico, e Bacone. Se ne potrebbero naturalmente nominare altri: Cartesio, Leibniz, Huygens, Boyle e, naturalmente, Newton i cui Philosophiae naturalis principia matematica del 1687 rappresentano forse il frutto più compiuto della rivoluzione scientifica. È Galileo a formulare più precocemente il modello normativo di indagine scientifica, fondato da una lato sulle “sensate esperienze” dall’altro sulle “matematiche dimostrazioni”. Solo ciò che è dimostrabile rigorosamente non attraverso la semplice osservazione ma l’applicazione rigorosa del metodo sperimentale, e ciò che è quantificabile può essere oggetto di analisi propriamente scientifica. Quello che è stato battezzato il “paradigma galileiano” quindi fissa criteri rigorosi di conoscenza verificabile e, nel contempo, esclude un vasto campo di esperienze che a questi criteri non sono assoggettabili.
Il nome di Francis Bacon ricorda invece la dimensione sociale ed economica della nuova cultura scientifica europea. Interessato in primo luogo alle potenzialità pratiche della conoscenza, Bacone ritiene che essa dischiuda all’umanità prospettive illimitate di miglioramento e di progresso. Con grande chiarezza Bacone addita alla scienza – applicata – un compiuto finora inedito. Non deve limitarsi a interpretare la realtà, deve e può cambiarla radicalmente. Per questo critica aspramente il disprezzo elitario con cui i ceti privilegiati del tempo guardavano al “sapere meccanico”, alle competenze tecniche degli artigiani.
Nel complesso, l’unione del paradigma galileiano e del programma baconiano impone non solo un nuovo approccio alla conoscenza ma un nuovo rapporto fra uomo e natura, una duplice rivoluzione senza cui sarebbero impensabili la stessa rivoluzione industriale e i tre-quattro secoli di egemonia occidentale che seguiranno.
Il Leviatano e i suoi sudditi
Per Filippo IV d’Asburgo viene coniata l’espressione el Rey Planeta, più aggiornato dal punto di vista astronomico, Luigi XIV sceglie di essere il Re Sole. Per Giacomo I d’Inghilterra – VI di Scozia – i re vengono giustamente “detti essi stessi dèi perché la loro autorità è il corrispettivo terrestre dell’onnipotenza divina”. Il Seicento appare comprensibilmente come il “plenilunio delle monarchie” nel quale il potere che si proclama assoluto, cioè non istituzionalmente circoscritto del sovrano, conosce un limite solo nella legge divina e in quella naturale. Gli antichi Stati repubblicani appaiono ormai realtà residuale e, all’interno di ogni regno, l’autonomia politica della nobiltà, delle città e delle chiese sembra sgretolarsi di fronte all’espansione degli apparati statali al servizio del sovrano.
Ma anche nel suo aspetto politico il Seicento si dimostra complesso e contraddittorio. Il potere dei re, nel suo concreto esercizio come nelle formulazioni teoriche, non raggiunge mai quel carattere assoluto che alcuni sovrani e alcuni pensatori vorrebbero attribuirgli. Nonostante l’ampliamento degli apparati finanziari, amministrativi, fiscali e militari, il re non può prescindere dalla collaborazione con la nobiltà e i ceti privilegiati, primo fra i quali il clero, la cui influenza sociale ed economica sul territorio è ancora molto forte.
Inoltre la stessa teorizzazione della sovranità illimitata dello Stato, del Leviatano incarnato dal monarca, ha esiti ambivalenti. Il maestoso, articolato e complesso edificio della società medievale fatto di privilegi, di libertà al plurale, di autonomie gelosamente difese, di diseguaglianze che si ricompongono, almeno idealmente, in una provvidenziale unità organica, ne risulta distrutto. Nelle sue formulazioni più conseguenti e coerenti, l’assolutismo lascia di fronte al monarca, nella sua lontananza astronomica, una massa omogenea e atomizzata di sudditi. La società politica non appare più un corpo composto di corpi, ma una giustapposizione di individui, mossi solo da bisogni e paure.
Anche senza arrivare al radicalismo di Hobbes, nel Seicento in effetti la società viene sempre più considerata e analizzata come un complesso di individui sostanzialmente uguali nei loro interessi e nei loro eventuali diritti, pochi o tanti che siano. Non a caso è in questa fase che nasce la statistica moderna. A interessare i primi “aritmetici politici”, come venivano chiamati, è innanzitutto ciò che è misurabile, la quantità della popolazione, il reddito, la capacità produttiva contributiva della popolazione. In fondo è l’applicazione del paradigma galileiano allo studio della società, un altro aspetto della rivoluzione scientifica che non cambia solo il modo con cui gli uomini immaginano il loro rapporto con il cosmo e la natura ma anche quello con cui immaginano e definiscono le loro relazioni reciproche. Se vogliamo usare la terminologia dell’antropologo Louis Dumont, nel Seicento si profila la transizione da una società olistica, pensata cioè come un corpo organico, a una società individualistica, concepita come la semplice risultante delle interazioni fra individui.