Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il secolo delle rivoluzioni
Chi fosse alla ricerca di un’espressione capace di racchiudere il significato storico del Settecento, si troverebbe di fronte a una difficoltà opposta a quella rilevata per il Seicento. In quel caso il problema era la mancanza di una “etichetta convenzionale” (Burke) sulla quale far convergere un ampio consenso. Per il Settecento il problema potrebbe essere semmai quello di sottrarsi a un’etichetta quasi d’obbligo, quella di “secolo delle rivoluzioni” (e anche un po’ delle riforme). Ma poiché in fondo la definizione ci sembra adeguata e pertinente, rinunciamo al tentativo senza rimpianti ma non senza una spiegazione.
Ci sono molte buone ragioni per definire il Settecento un secolo rivoluzionario. Gli storici vi hanno infatti individuato una moltitudine di “rivoluzioni”: una rivoluzione demografica, una agricola, una industriale, una intellettuale e culturale – l’Illuminismo – oltre naturalmente le due classiche rivoluzioni politiche, quella americana e quella francese. Come vedremo, l’opportunità di utilizzare il termine ‘rivoluzione’ per descrivere i mutamenti avvenuti in questi diversi ambiti è stata ed è materia di controversie. Molto dipende ovviamente da cosa si intende per “rivoluzione”. Quanto radicale e rapido deve essere un cambiamento per meritare di essere definito “rivoluzionario”? Una rivoluzione che si dispiega nel corso di decenni – come può avvenire per le rivoluzioni economiche o culturali – può essere ancora chiamata tale? Ogni rivoluzione inoltre può – e in un certo senso deve – essere inquadrata in dinamiche di lungo periodo che inevitabilmente ne ridimensionano la portata innovativa.
Ma quale che sia la valutazione che possiamo dare delle varie discontinuità “rivoluzionarie” del Settecento, rimane un buon motivo per conservare al secolo questa etichetta. Ed è il fatto che il Settecento ha saputo di essere, e in larga misura ha voluto essere, un secolo rivoluzionario. I secoli che lo hanno preceduto hanno visto mutamenti forse ancora più radicali di quelli settecenteschi: la scoperta dei nuovi continenti e l’avvio di una storia veramente mondiale, la lacerazione confessionale, la formazione del moderno Stato territoriale, le prime rivoluzioni della modernità, quella olandese e quella inglese, la nascita della scienza moderna, per citare solo i maggiori.
Ma di queste fratture oggettive, per usare un termine politicamente poco corretto, gli Europei del Cinque e Seicento non hanno tratto fino in fondo le conseguenze. Per certi aspetti hanno cercato disperatamente di disconoscerle, di legittimare il nuovo come un ritorno all’antico, in definitiva di ridimensionarne la portata eversiva. Nell’America si sono viste delle “Indie occidentali”, nella Riforma un recupero della verità originaria del cristianesimo. Da Copernico a Newton ci si è illusi che il diritto di sottoporre la natura a un esame razionale potesse convivere con il dovere di sottomettersi all’autorità quando si trattava di religione o politica.
Il Settecento può essere considerato il primo secolo moderno perché la sua modernità, nel senso di discontinuità con il passato, l’ha rivendicata orgogliosamente. Semmai gli si potrebbe rimproverare di esserlo stato meno di quanto proclamava, di aver sottovalutato, un po’ ingenuamente il peso delle resistenze, delle vischiosità e della continuità materiali, culturali e sociali con il passato.
Illuminismo, pubblica felicità e sfera pubblica
A metà del Seicento René Descartes affermava che“a parte le verità di fede, che ho sempre messo al primo posto, ho ritenuto di potermi liberamente disfare di tutte le altre mie opinioni”. Poco più di un secolo dopo, Denis Diderot scrive: “imponetemi il silenzio in materia di religione e di governo e io non avrò più nulla da dire”. Due prese di posizione speculari che riassumono efficacemente la distanza che separa la stagione della rivoluzione scientifica da quella dell’Illuminismo. Descartes, come Galileo, rivendicava la legittimità dell’uso spregiudicato della ragione per indagare i fenomeni naturali, ma accettava l’autorità della Chiesa in materia di religione e quella del principe in campo politico. Il principio nihil de Rege et parumde Deo – (“si parli poco di Dio e per nulla del Re”) era quasi universalmente accettato, almeno fino alla “crisi della coscienza europea” di fine Seicento individuata da Paul Hazard. Naturalmente sappiamo che nel Seicento, dell’uno e dell’altro, di Dio e del Re si parlò moltissimo. Ciò che veniva rifiutata era però la possibilità di una coesistenza legittima di opinioni contrastanti su queste materie. In sostanza era possibile solo esprimere liberamente la propria adesione all’ortodossia – politica e religiosa – vigente all’interno di ciascuno Stato. Per gli uomini dell’Illuminismo, invece, confinare il pensiero critico all’ambito della scienza naturale, escludendone l’indagine sulla religione, l’uomo e la società, è una limitazione inaccettabile, tanto più che al cuore del progetto illuministico vi è la volontà di progresso materiale e morale della società, il conseguimento della “pubblica felicità”.
La legittimità della riflessione critica sugli ordinamenti politici e sociali deriva anche dal fatto che nel Settecento diventa largamente prevalente, se non egemone, un’immagine della società centrata sugli individui, sui loro diritti, sui loro rapporti reciproci e su quelli con lo Stato. Quella che gliilluministi chiamano la “pubblica felicità” è quindi in sostanza la somma della felicità che i singoli individui hanno il diritto di perseguire e che le istituzioni hanno il dovere di promuovere con politiche adeguate. Il fine dell’azione dei poteri pubblici non è più quindi la potenza dello Stato e il prestigio del monarca. Ma se la società è il mezzo e l’individuo il fine, diventa legittimo verificare l’adeguatezza dei mezzi – le istituzioni sociali e politiche, ora desacralizzate – al raggiungimento del fine, ovvero la felicità dei singoli, ed eventualmente intervenire per modificarli. E diventa pure legittima la partecipazione dei singoli, più o meno direttamente, all’elaborazione politica. L’emergere di una sfera pubblica, intesa come “rete di discorsi pubblicamente accessibili che riguardano questioni di interesse collettivo” è certo uno degli aspetti più rivoluzionari del Settecento.
Famiglia e individualismo
Il fatto che la società europea del Settecento sia concepita (e in qualche misura sia effettivamente) sempre più come “società degli individui” non ha solo conseguenze sul piano politico ma investe tutto lo spettro delle relazioni interpersonali, a cominciare dai legami – economici, di potere, affettivi, giuridici – che costituiscono la ragnatela intricata e flessibile delle relazioni famigliari.
Qui lo storico si muove su un terreno estremamente insidioso. Salvo che per gli aspetti strettamente giuridici, la storia della famiglia e della parentela, soprattutto nelle sue dimensioni sentimentali ed emotive, si presta male a periodizzazioni rigorose. Affermare categoricamente che nel Settecento nasce l’amore romantico, o la famiglia nucleare affettiva, o che tramonta il modello patriarcale significa esporsi a facili smentite. Non è difficile individuare amori romantici e famiglie coniugali affettive secoli prima o ravvisare la persistenza, a Novecento inoltrato, di modelli famigliari e di parentela dati per estinti da secoli. In parte ciò dipende dalla vaghezza della terminologia adottata, in parte dalla diversità dei contesti sociali e geografici ai quali ci si riferisce.
Comunque sia, fin dall’inizio dell’Ottocento gli osservatori più precoci e acuti dell’avvento del mondo moderno, come Alexis de Tocqueville, hanno sottolineato il nesso strettissimo fra avvento di una società egualitaria e individualista e il tramonto di quello che Tocqueville chiamava esprit de famille. L’esprit de famille poggiava su una concezione organica e corporata della famiglia, vista come un’istituzione destinata alla riproduzione biologica e sociale alla quale gli interessi dei singoli individui dovevano essere necessariamente subordinati; per esempio, istituzioni come il fedecommesso e il maggiorascato, che prevedevano la trasmissione del patrimonio indiviso a un unico figlio maschio, con evidente danno per i cadetti e le femmine, destinate, nei Paesi cattolici, al chiostro.
La critica più radicale e limpida a questa concezione dei rapporti fra famiglia e individuo la troviamo in pagine famose di uno dei più illustri illuministi italiani,Cesare Beccaria. Finora, scrive Beccaria, la società è stata pensata come “un’unione di famiglie” nella quali la felicità delle persone è sacrificata “a un idolo vano che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone”. La società che Beccaria ha in mente è invece “un’unione di uomini”, liberi di costruire autonomamente il proprio destino e perseguire la propria felicità privata.
Ciò naturalmente non significa che la famiglia europea e le relazioni fra i generi e le generazioni siano radicalmente cambiate nel giro di pochi anni. L’ideologia e la pratica del bene di famiglia si è dimostrata notevolmente tenace. Inoltre i limiti dell’emancipazione individuale proposta dagliilluministi sono evidenti. Le donne ne sono ancora sostanzialmente escluse. Tutto ciò non deve farci trascurare il rilievo di questa sorta di rivoluzione copernicana che ribalta il rapporto fra persona e società, nelle sue diverse manifestazioni, dallo Stato alla famiglia, aprendo la strada, nel bene e nel male, all’individualismo moderno.
L’Illuminismo “industriale” e la rivoluzione industriale
L’Illuminismo è legato da molti fili con un’altra grande rivoluzione settecentesca, quella industriale, ed entrambe le rivoluzioni hanno vissuto negli ultimi decenni momenti non sempre facili dal punto di vista storiografico. All’Illuminismo è stata rimproverata una scarsa creatività filosofica e scientifica, rispetto a movimenti che lo hanno preceduto, come il Rinascimento o la rivoluzione scientifica del Seicento. È stato rimproverato anche di essersi risolto in un progetto di dominio e di manipolazione dell’uomo e della natura che ne contraddiceva le proclamate finalità di liberazione.
Per quanto riguarda la rivoluzione industriale, molti dubbi sono stati avanzati sulla sua stessa esistenza. È stato osservato come i tassi di crescita dell’economia non siano stati nei decenni finali del secolo particolarmente elevati, che l’adozione su vasta scala della macchina a vapore sia avvenuta solo nel corso dell’Ottocento e che in ogni caso le trasformazioni riguardarono solo alcuni settori dell’economia inglese in aree geograficamente circoscritte. A beneficiare del ridimensionamento di questa rivoluzione settecentesca sono stati, ancora una volta, il Seicento e l’Ottocento. Da una parte si è preferito sottolineare come la rivoluzione industriale sia un processo di lunga durata, più evolutivo che rivoluzionario, connesso strettamente con la “rivoluzione industriosa” e la protoindustria, che l’hanno preceduta a partire dal Seicento. Dall’altra si è anche sottolineato come solo a partire dalla metà dell’Ottocento, con il trionfo dell’acciaio, della nuova industria chimica ed elettrica e con la rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni, il mondo sia entrato definitivamente in una nuova era.
Il concetto di “rivoluzione industriale” è comunque sopravvissuto e anzi, negli ultimi anni, ha dimostrato una rinnovata vitalità. Se è vero che uno sguardo cronologicamente più ampio ci consente di cogliere meglio la sua natura, non per questo dobbiamo sottovalutare il significato di rottura rappresentato dalle trasformazioni economiche che ebbero luogo in Inghilterra negli ultimi decenni del Settecento. L’immagine che oggi abbiamo della rivoluzione industriale è certo meno prometeica di quella tradizionale ma non per questo meno rivoluzionaria. Si tratta certo di una rivoluzione permanente, le cui onde d’urto si sono progressivamente estese a tutto il globo ma non bisogna dimenticare che questo terremoto ha avuto il suo epicentro in un luogo e un momento preciso: l’Inghilterra di fine Settecento.
Questa collocazione spazio-temporale ha riportato l’attenzione sul rapporto fra Illuminismo e trasformazioni economiche. Coniando l’espressione “Illuminismo industriale”, lo storico Joel Mokyr ha voluto sottolineare come la rivoluzione industriale non sia comprensibile senza tener conto non solo dell’apporto della rivoluzione scientifica, ma anche e forse soprattutto del mutamento della cultura scientifica diffusa, con il moltiplicarsi di accademie, società di lettura, riviste, e della nuova considerazione di cui gode nel Settecento il sapere tecnico che acquista così una maggiore capacità di dialogo con la cultura scientifica in senso stretto.
L’alba dell’egemonia europea
Proprio le nuove interpretazioni della rivoluzione industriale ci spingono a considerare con maggiore attenzione l’evoluzione delle relazioni economiche, ma anche politiche e culturali, fra l’Europa e il resto del mondo. Fin dalla sua prima fase,infatti, la trasformazione economica dell’Europa non sarebbe comprensibile senza tener conto dell’afflusso di risorse – prodotti alimentari e materie prime – provenienti dagli altri continenti. È difficile considerare una semplice coincidenza il fatto che la Gran Bretagna, negli stessi anni, dia avvio alla prima fase dell’industrializzazione e si imponga come potenza egemone del sistema di scambi intercontinentale. Limitarsi a considerare l’interazione fra le diverse dinamiche – economiche, culturali e politiche – interne all’Europa sarebbe fuorviante, per quanto riguarda il Settecento ancor più che nei secoli precedenti. La storia, se non globale, è certamente già mondiale.
E, da questo punto di vista, nel XVIII secolo si assiste a una svolta di grande portata. Durante i primi due secoli dell’espansione europea, vi era stata un’evidente asimmetria fra quanto accadeva nello scacchiere atlantico e americano e gli sviluppi in Asia meridionale e orientale. Nel primo caso gli Europei avevano potuto dettare le proprie condizioni e plasmare la nuova geografia economica e culturale in funzione dei propri interessi e priorità. In Oriente invece avevano dovuto adattarsi a condizioni preesistenti e, nonostante l’indubbio successo conseguito inserendosi nei circuiti economici asiatici, erano stati i potentati asiatici a stabilire le regole del gioco, limitando, come fece la Cina dei Ming e dei Qing, o addirittura eliminando – si veda il Giappone dei Tokugawa– le intromissioni occidentali. L’esiguo margine di vantaggio di cui gli occidentali potevano godere in alcuni settori della tecnologia militare – velieri e armi da fuoco – fino alla metà del Settecento non fu decisivo.
Poi, nel giro di pochi decenni, quelli che separano la battaglia di Plassey (1756) dalla presa di Seringapatam (1799), l’equilbrio si altera bruscamente. L’intero subcontinente indiano, per estensione e popolazione paragonabile al complesso dell’Europa, cade sotto il dominio britannico. I grandi imperi asiatici, nonostante le enormi risorse umane ed economiche, non appaiono più in grado di sostenere la competizione tecnologico-militare con gli Stati europei. È questo l’inizio della lunga stagione di egemonia globale europea che si sarebbe conclusa solo due secoli dopo. Questo ribaltamento degli equilibri mondiali può essere certamente interpretato come il punto di arrivo di processi avviati da tempo, ma resta il fatto che la sua concretizzazione è molto rapida.
Un’altra rivoluzione settecentesca dunque, che ha avuto ripercussioni delle quali è difficile esagerare la portata. Ripercussioni economiche, come si è detto, ma anche sugli assetti del sistema degli Stati europei, perché d’ora innanzi il concetto di equilibrio europeo deve essere riformulato tenendo conto degli equilibri mondiali. Come gli osservatori più acuti comprendono già nella prima metà del secolo, la conservazione di un equilibrio continentale tra Francia, Austria, Prussia, e Russia nasconde sempre meno bene la realtà di un’egemonia mondiale britannica.
Rivoluzioni politiche
Veniamo ora le rivoluzioni par excellence, ovvero le grandi rivoluzioni politiche considerate dalla tradizione storiografica, ma anche dal senso comune, lo spartiacque non solo fra l’Antico Regime e i nuovi assetti politici e sociali liberali, rappresentativi e in seguito democratici, ma più, in generale, fra Tradizione e Modernità. E con ottime ragioni. In fondo è proprio nelle rivoluzioni politiche che emerge con maggiore evidenza l’intenzionalità e la consapevolezza del carattere rivoluzionario del Settecento.
Nei secoli precedenti non erano certo mancati rivolgimenti politici drammatici, rivolte e congiure. Non pochi sovrani europei erano stati deposti ed erano morti di morte violenta. Anche l’esecuzione giudiziaria di Luigi XVI ha dei precedenti nelle esecuzioni di Carlo I e di Maria Stuart. E non erano mancate neppure le rivoluzioni propriamente dette, non solo rivoluzioni religiose, come la Riforma, ma anche rivoluzioni politiche, vale a dire quel particolare tipo di mutamento sociale in cui non sia ha semplicemente un avvicendamento traumatico al vertice del sistema politico o anche un cambiamento di regime, ma una messa in discussione radicale delle basi di legittimità dell’ordinamento politico e sociale vigente. Perché si possa parlare di rivoluzione occorre che non ci sia solo una lotta per il potere fra gruppi e fazioni ma anche una contrapposizione fra diverse posizioni ideologiche. Da questo punto di vista anche la rivolta contro gli Asburgo dei Paesi Bassi nel Cinquecento o i conflitti civili dell’Inghilterra del Seicento meritano l’appellativo di rivoluzioni. Ma i principi ai quali anche i rivoluzionari, e non solo i difensori dell’ordine costituito, facevano appello erano rivolti al passato. Poteva trattarsi di quelle che erano considerate le libertà tradizionali del popolo inglese o delle città dei Paesi Bassi, oppure della difesa della religione riformata, concepita come recupero della purezza evangelica di fronte alla minaccia papista o anglicana. In ogni caso si trattava di rivoluzioni “orientate al passato”, ovvero rivoluzioni che immaginavano di essere delle restaurazioni, anche se le loro conseguenze furono di fatto innovative.
L’“orientamento al futuro”, la volontà consapevole di rifondare – o almeno di riformare in profondità – la società e le istituzioni sulla base di principi ritenuti razionali e universali, caratterizza, seppur non esclusivamente, le rivoluzioni (e in parte anche le politiche riformatrici dei sovrani) del Settecento. I rivoluzionari americani e soprattutto quelli francesi non si sentono più obbligati a ricercare in un passato mitizzato la legittimità delle loro istanze. La ragione laica viene ritenuta sufficiente a indicare e a giustificare la via da seguire. Il passato non è più un deposito di saggezza a cui attingere ma un accumulo di detriti e scorie che frenano il progresso dell’umanità e ostacolano il conseguimento della felicità, pubblica e privata, e dei quali è necessario quindi disfarsi.