Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Eric Hobsbawm ha scritto che la vita materiale di un inglese della fine del Settecento era più simile a quella dei legionari di Cesare che a quella che avrebbero vissuto i suoi discendenti tre o quattro generazioni dopo. Non è un’esagerazione o un paradosso. Praticamente tutti gli indicatori fondamentali che potremmo prendere in considerazione – ad esempio la durata media della vita, la produttività del lavoro, la quantità di reddito o di energia procapite disponibile, la velocità dei trasporti e così via – ce lo confermerebbero, mostrandoci come il mondo – meglio, l’Europa occidentale – ancora all’inizio dell’Ottocento fosse più simile a quella di due – o se per questo anche tre – millenni prima che a quella di un secolo dopo.
Semmai si potrebbe rimproverare ad Hobsbawm un eccesso di prudenza. Perché fare riferimento solo alla vita materiale? Anche per molti aspetti politici, sociali e culturali, un europeo della fine del Settecento si sarebbe trovato meno spaesato nella Roma dei Cesari che nella Londra tardovittoriana o nella Roma giolittiana. L’Ottocento infatti non solo altera radicalmente le condizioni della vita materiale, il rapporto con l’ambiente, ma trasforma anche i rapporti fra le generazioni e i generi, fra i ceti e le classi, fra le culture e le civiltà. Nel corso di questo secolo il mondo si trasforma a una velocità senza precedenti. Le “frontiere del possibile”, ma anche quelle del pensabile, si ampliano enormemente.
Un cambiamento molto più rapido e profondo di quanto i più arditi riformatori, rivoluzionari, philosophes e sçavants del secolo precedente, così fiduciosi e ottimisti, osassero immaginare. Nel 1770 Louis-Sébastien Mercier prova a immaginare come sarebbe stata la Parigi dell’anno 2440. Mercier è convinto delle potenzialità della ragione umana e non pone limiti ai traguardi raggiungibili “avendo a disposizione l’arma della geometria, delle arti meccaniche e della chimica”. Ma nella sua Parigi del XXV secolo, ordinata e moralizzata, la gente continua pur sempre a muoversi a piedi o in carrozze trainate da cavalli. Una realtà molto diversa dalla caotica e dissoluta Parigi della Belle Époque, percorsa da tram e metropolitane mossi dall’elettricità.
Il nuovo mondo industriale
L’ampliamento delle frontiere del possibile è legato all’avvio di quello che l’economista Simon Kuznets chiama lo “sviluppo economico moderno”, cioè una crescita sostenuta e prolungata del reddito pur in presenza di un forte incremento demografico. Una novità assoluta nella storia dell’umanità che smentisce il pessimismo di Thomas Malthus.
Di rivoluzione industriale si parla già in verità a proposito del Settecento, e la cronologia canonica, con buone ragioni, ne fa decorrere l’inizio dall’ultimo quarto del XVIII secolo. Tuttavia almeno fino al terzo decennio dell’Ottocento, la crescita complessiva dell’economia è lenta, anche perché i settori interessati dall’industrializzazione sono pochi, seppur importanti: quello tessile e quello siderurgico, e nemmeno in questi si coinvolgono tutte le fasi della filiera produttiva. Il ricorso al carbone come fonte di energia meccanica grazie alla macchina a vapore è a quel tempo limitato. Infine la Gran Bretagna, almeno fino al 1830 circa, è l’unica nazione industriale e anzi, il divario con gli altri Stati europei, ancorati a un’economia agricola tradizionale e impoveriti dalla lunga stagione delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche, è aumentato. Per tutte queste ragioni, alcuni storici preferiscono considerare il primo mezzo secolo circa di industrializzazione – la “prima rivoluzione industriale” dei manuali, compresa fra il 1770 e 1830 – come una “fioritura”, ovvero come una fase di intenso sviluppo economico non diversa però da altre fasi simili – come quella dei secoli successivi al Mille – manifestatesi in Europa ma anche in altre civiltà. Nulla garantiva che questa fase di crescita non si sarebbe esaurita come le precedenti, scontrandosi con le legge dei rendimenti decrescenti. Ciò cui si poteva aspirare, nelle migliore delle ipotesi, era la conservazione di un mediocre “stato stazionario” – così in fondo la pensava anche un osservatore particolarmente perspicace come Adam Smith – sempre che si fosse riusciti a sfuggire alla catastrofe ecologica e demografica.
Nel corso dell’Ottocento tuttavia, la “fioritura” industriale inglese non dà affatto segni di esaurimento ma anzi lo sviluppo accelera e si estende a nuovi settori e a nuovi comparti, come quello della chimica, dell’acciaio, dell’elettricità. ll carbone, la nuova fonte di energia apparentemente illimitata, soppianta definitivamente l’acqua, il vento e l’energia muscolare di uomini e animali. L’“ondata di congegni” che, secondo la celebre espressione dello storico Thomas Ashton, dalla fine del Settecento si abbatte sull’economia inglese, grazie al rapporto sempre più stretto fra scienza e tecnologia, nel corso dell’Ottocento diviene un vero e proprio tsunami tecnologico, destinato a travolgere e rinnovare modi di vivere e di pensare.
Il nuovo mondo globale
Inoltre, dopo il 1830, la Gran Bretagna non è più sola. Dal suo epicentro insulare la rivoluzione industriale si estende in cerchi grossomodo concentrici sul continente in attesa di lanciare delle teste di ponte, sul finire del secolo, in altri continenti. Il Belgio, la Francia nord-orientale, la Svizzera prima, più tardi la Germania, parte dell’Impero austro-ungarico, dell’Italia, della Russia, sono via via coinvolti in un processo di trasformazione sempre più rapido e incisivo che si accompagna a una crescita demografica – da poco meno di 200 a quasi 400 milioni di abitanti in Europa – senza precedenti e a un’urbanizzazione che trasforma paesaggi europei. Nell’ultimo quarto del secolo anche Stati Uniti e poi Giappone si aggiungono all’elenco degli Stati industriali. La grande Esposizione universale di Londra nel 1851 celebra un primato britannico ancora evidente ma non più inattaccabile, e soprattutto l’avvento di un mondo nuovo.
Una dimensione particolarmente rilevante, ma talvolta sottovalutata, di questa trasformazione è la rivoluzione che investe il rapporto degli uomini con lo spazio e con il tempo. L’applicazione della forza del vapore ai trasporti via acqua – dai primi anni del secolo – e a quelli via terra, dopo il 1830, rende improvvisamente il mondo più piccolo, riducendo in modo spettacolare i tempi e i costi dei trasporti di uomini e merci, e più grande, perché consente alle diverse dimensioni dell’agire umano di dispiegarsi su una scala prima impensabile. Più discreta, ma altrettanto dirompente, è stata la rivoluzione che annulla completamente la “tirannia della distanza” nella trasmissione di informazione e notizie. L’invenzione del telegrafo e la posa, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, di una prima rete di cavi sottomarini e transoceanici, rappresenta l’inizio della comunicazione in tempo reale.
Le conseguenze economiche, politiche e culturali sono enormi. Spazi e gerarchie economiche e politiche vengono ridefiniti con conseguenze spesso traumatiche per coloro che non sanno, o non possono, adattarsi rapidamente ai mutamenti. Tradizioni manifatturiere millenarie, come quella dei tessuti indiani, vengono spazzate via in pochi anni dalla concorrenza dell’industria inglese, che ovviamente trae il massimo vantaggio dalla soggezione politica del subcontinente indiano. È questa rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni – oltre che della tecnologia militare – che consente infatti all’Europa di imporre al mondo la sua legge. L’Ottocento è indubbiamente il suo secolo.
Anche in Europa le ripercussioni sono importanti. L’invasione del grano americano a basso costo sconvolge nelle campagne europee assetti sociali e produttivi anch’essi plurisecolari. La grande ondata migratoria che negli ultimi decenni del secolo, e nei primi anni del Novecento, sposta milioni di europei, ma anche di asiatici, verso le Americhe e l’Australia, è uno degli aspetti più vistosi e drammatici di quella che, finalmente senza distinguo e prudenze, possiamo chiamare globalizzazione.
Lo Stato e la nazione
La dimensione europea dell’industrializzazione e l’importanza sempre maggiore delle interdipendenze globali non devono far dimenticare che l’Ottocento è pur sempre il secolo in cui lo Stato moderno assume la sua compiuta fisionomia anche istituendo un nuovo rapporto con l’idea di nazione.
I percorsi attraverso cui i vari Stati europei fanno il loro ingresso nella modernità industriale sono molto differenziati e in molti casi – la Germania e l’Italia ad esempio – l’intervento diretto o indiretto dello Stato nella promozione dello sviluppo è determinante. Ma anche dal punto di vista sociale gli Stati assumono via via funzioni e compiti nuovi che si aggiungono a quelli tradizionali di mantenimento dell’ordine interno e di difesa verso potenziali minacce esterne. I problemi posti dalle trasformazioni prodotte dall’industrializzazione – proletarizzazione, urbanizzazione – con la conseguente minaccia di instabilità sociale e politica spingono ovunque le autorità governative, sia pure con modalità e tempi diversi, ad assumersi responsabilità maggiori nell’istruzione, nella sanità, nella nascita delle prime forme di previdenza sociale.
Questa tendenza è anche il risultato dell’inserimento delle classi medie e in seguito popolari nella vita politica dello Stato. Nel corso dell’Ottocento, soprattutto nell’Europa settentrionale e occidentale, i diritti elettorali si ampliano notevolmente, dando effettiva rappresentanza politica a ceti e classi fino a quel momento esclusi. La transizione da un liberalismo censitario molto ristretto a un ordinamento compiutamente democratico è stata comunque lenta e soggetta a interruzioni e arretramenti e potrà dirsi compiuta, e non certo ovunque, solo nel XX secolo inoltrato.
Il processo di inclusione delle classi medie e popolari, oltre a quello sociale e politico, ha anche un versante ideologico e psicologico che passa attraverso la ridefinizione della natura dello Stato. Lo Stato nel corso del secolo viene sempre più concepito e legittimato come la proiezione politica e istituzionale di un’identità più profonda, di natura storica, culturale o persino biologica: la nazione appunto. Sottolineando da un lato l’omogeneità interna e l’uguaglianza in linea di principio dei suoi membri e dall’altro il profondo radicamento storico dello Stato-nazione, il nazionalismo si rivela uno strumento utile per rispondere alle acute tensioni sociali prodotte dall’industrializzazione e allo spaesamento psicologico prodotto dalla crisi delle solidarietà familiari e locali che tengono insieme le società agricole tradizionali. Il nazionalismo ha costituito una delle forze ideologiche e politiche più rilevanti del XIX secolo, e i movimenti nazionali possono vantare le poche rivoluzioni riuscite – ad esempio l’unificazione dell’Italia e della Germania – del “lungo Ottocento”.
Il secolo della borghesia?
Già nel 1848 appare evidente come le conquiste della scienza, della tecnica e dell’industria moderne superino ogni più grandiosa realizzazione precedente dell’umanità, “piramidi egizie, acquedotti romani e cattedrali gotiche” comprese, secondo la celebre formulazione del Manifesto di Karl Marx che ne attribuisce senza esitazioni il merito al dinamismo di quello che appare il gruppo sociale trionfante: la borghesia. Questa visione dell’Ottocento come secolo della borghesia non è peraltro monopolio dei soli marxisti. È anzi un luogo comune condiviso da osservatori di orientamento ideale e politico molto diverso. Taluni – liberali, democratici – vedono nella dissoluzione dell’antico regime cetuale a guida aristocratica il compimento di un lungo percorso storico verso l’uguaglianza giuridica. Altri, conservatori e reazionari, vi leggono i segni premonitori della fine della civiltà europea cristiana e la minaccia dell’avvento della tirannia delle masse e del dilagare di un materialismo appunto bourgeois. Altri ancora, come i socialisti e i primi comunisti, la considerano una fase storicamente necessaria e positiva, ma destinata anch’essa a essere superata dall’avvento di una nuova società senza Stato e senza classi.
Ma parlare di secolo o, addirittura, di “trionfo della borghesia” (Hobsbawm) è forse eccessivo. Innanzitutto perché la borghesia europea ottocentesca non costituisce affatto uno strato sociale omogeneo, né dal punto di vista sociale ed economico, né da quello politico e culturale. È piuttosto un mosaico di gruppi sociali con interessi, occupazioni e stili di vita diversi.
Anche dal punto di vista ideologico e culturale la borghesia appare molto più incerta e fragile della nobiltà che l’ha preceduta come classe egemone. Del resto, nei confronti della nobiltà che, seppure non più al riparo da confini cetuali giuridicamente definiti, mantiene un ruolo economico, politico e sociale di primo piano, le borghesie europee nutrono sentimenti ambivalenti. La consapevolezza della propria forza economica e dei propri valori – il lavoro, la responsabilità individuale, la parsimonia – non riesce infatti ad aver ragione di una secolare subalternità psicologica. Per la maggior parte dei borghesi europei, anche se non per tutti, lo stile di vita nobiliare è pur sempre considerato come un traguardo da raggiungere e un modello da imitare, più o meno goffamente.
D’altra parte, a riavvicinare sul piano ideologico, culturale e politico, borghesie e aristocrazie europee, contribuisce non poco la minaccia, reale o simbolica, del nuovo protagonismo delle classi popolari: proletari industriali, artigiani urbani tradizionali e anche contadini.
In definitiva, stretta fra l’incipiente “ribellione delle masse” (Ortega y Gasset) e un tenace “potere dell’ancien régime” (Mayer), incrinato ma non abbattuto, la presunta egemonia borghese appare insicura e precaria.
Il secolo del progresso?
La nozione dell’Ottocento come secolo della borghesia è indissolubilmente legata a quella dell’Ottocento come “età del progresso”. “Positivismo, storicismo idealista, storicismo marxista erano accomunati – ha scritto Claudio Pavone – dall’idea del progresso, garantito dallo sviluppo della scienza e della tecnica nel primo caso, dalla crescita dello Spirito su se stesso nel secondo, dallo sviluppo delle forze produttive e dalla lotta di classe, necessario preludio del regno della libertà, nel terzo”. Secondo la lettura prevalente, questa fiducia nel progresso si sarebbe incrinata, nei piani alti della cultura, solo nell’ultimo quarto del secolo, per finire poi travolta dalla catastrofe della Grande Guerra.
In realtà questa ottocentesca fede trasversale nel progresso è forse meno salda di quanto non appaia. Per trovare chi nutre dubbi sulla bontà delle vertiginose trasformazioni in atto e sulle “magnifiche sorti e progressive” del genere umano non occorre aspettare il decadentismo fin de siècle o essere dei reazionari amareggiati. Certo, i progressi scientifici, tecnici ed economici, e poi anche quelli sociali, sembrano giustificare l’ottimismo razionalista del secolo precedente, anzi, come abbiamo visto, vanno ben oltre. Ma in realtà sono proprio queste sconvolgenti trasformazioni a generare inquietudine e disorientamento. E non si tratta solo di preoccupazioni legate agli effetti non intenzionali e talvolta perversi della “grande trasformazione”, come la conflittualità sociale o l’orrore degli slums industriali.
Ad alimentare l’inquietudine è la sensazione che il mutamento, che il Settecento aveva creduto di potere progettare razionalmente, sia in realtà imprevedibile e ingovernabile. Il tempo storico subisce un’accelerazione senza precedenti che apre una frattura fra il passato e il presente: “i giorni di ieri – scrive Lamartine – appaiono già sprofondati nel passato”. La “grande trasformazione”, rappresentata dall’avvento della società industriale e almeno tendenzialmente democratica, ha condotto l’umanità in una terra incognita nella quale nulla di ciò che è stato ereditato dal passato – per secoli fonte di senso e legittimazione – aiuta a comprendere e a muoversi nel presente e per questo “la mente cammina nelle tenebre” (Tocqueville). Questa perdita di leggibilità del mondo e il venire meno dei tradizionali indicatori di certezza è forse l’elemento che più d’ogni altro – fabbriche, treni, macchine a vapore, movimenti di massa ecc. – rende l’Ottocento un secolo contemporaneo.