Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il nuovo linguaggio e il primato italiano
Difficile scandire cesure cronologiche nette nel panorama dell’arte del Cinquecento. Si potrebbe concordare con lo storico Giuliano Briganti nel ritenere che gli avvenimenti artistici più importanti del secolo si siano “manifestati tutti nei suoi primi e nei suoi ultimi quindici anni”.
I risultati raggiunti dalla ricerca artistica negli anni che vanno dal Tondo Doni di Michelangelo (1504) alla volta della Cappella Sistina (1508-1512) e dalle opere fiorentine di Raffaello alla conclusione delle Stanze Vaticane (1514 ca.) sono di tale portata, infatti, da condizionare e quasi esaurire gli sviluppi futuri dell’arte italiana e, in parte, di quella europea almeno fino alla metà degli anni Ottanta, quando i Carracci a Bologna e Caravaggio a Roma gettano le basi per la svolta moderna verso il naturalismo seicentesco.
Nei primi vent’anni del secolo, tra Firenze e Roma, giunge a maturazione un nuovo linguaggio artistico, aulico e classico, di tale dignità da imporsi sulle parlate artistiche locali come nuova lingua nazionale. Stimolato dall’ansia sperimentale di Leonardo e dal confronto con l’arte antica, il nuovo linguaggio è portato a piena definizione da Raffaello e Michelangelo, in testi figurativi destinati a diventare punto di riferimento per le generazioni successive, oltreché l’asse portante della tradizione classica italiana.
Dell’importanza di quei primi quindici anni per gli esiti futuri dell’arte si ha piena consapevolezza già nel Cinquecento. Nel celebre Proemio alla parte terza delle Vite, Giorgio Vasari, fondatore della storiografia artistica, vede nei fatti intercorsi durante il pontificato di Giulio II e Leone X, tra Roma e Firenze, l’apice di un processo di evoluzione nella quale l’arte italiana avrebbe raggiunto l’estrema perfezione, superiore persino a quella degli antichi.
Nello schema storiografico di Vasari questo apice viene a coincidere con la "terza età": la "Maniera moderna", lo "stile sublime" di Michelangelo e Raffaello vede la definizione di un nuovo codice formale, teso a esaltare – sia in pittura che in scultura – la perfezione ideale delle proporzioni umane, riproposte – sul fondamento del disegno – nell’infinita gamma delle loro possibili articolazioni.
Le nuove forme classiche, modellate sugli esempi della statuaria antica, fissano i canoni di una bellezza ideale che diviene specchio della dignità e della grandezza dell’uomo al centro dell’universo e della storia.
"Abitare all’antica": la ripresa degli ideali classici nella progettazione architettonica
In campo architettonico la ripresa dei modelli classici si alimenta di quel mito della renovatio urbis che intende restituire alla città dei papi la grandezza monumentale della Roma imperiale, quale presupposto per la sua rinascita anche politica. Il confronto con la grandezza degli antichi avvia lo studio sistematico delle rovine, la rilettura dei trattati (in particolare Vitruvio, e la lettura appassionata delle fonti letterarie. Si tratta tuttavia di un rapporto articolato e dialettico che lascia largo spazio all’invenzione, e che si esprime soprattutto nel tema del palazzo e della villa, uno dei più creativi dell’architettura romana di quegli anni.
Soprattutto la tipologia della villa diviene “un momento nodale nel più ampio dibattito sulla conformazione dei nuovi edifici d’abitazione all’antica”.
Le soluzioni spaziali e le suggestioni antiquarie proposte in quegli anni da Bramante (villa di Genazzano e cortile del Belvedere), Peruzzi (Villa Chigi) e Raffaello (Villa Madama) fissano dei prototipi che diventano paradigma di riferimento per i grandi architetti del Cinquecento, da Giulio Romano a Gerolamo Genga, da Vignola a Sansovino, a Palladio.
Esemplare il caso di Villa Madama, dove le esigenze di rappresentanza espresse dal committente, il cardinale Giulio de’ Medici, offrono a Raffaello l’occasione di realizzare in piena libertà l’ideale di un suburbanum all’antica, con logge, ippodromo, teatro, ninfeo, terme, peschiera e ampi giardini terrazzati. Nella loggia, che funge da diaframma tra architettura e natura, Giovanni da Udine realizza il più straordinario esempio di decorazione a grottesche, un genere che la passione antiquaria di Raffaello ha rivitalizzato in una felice sintesi di citazioni archeologiche, invenzioni estrose e spunti naturalistici.
Venezia: una via autonoma al Cinquecento
Vasari privilegia l’asse tosco-romano e la componente del disegno, considerato fondamento di tutte le arti. Ma esistono aree in cui la Maniera moderna si manifesta per altre vie che presuppongono una diversa condizione culturale e, per così dire, sentimentale.
Nell’Italia del Nord, ad esempio, il corso autonomo dell’arte veneziana è determinato in parte dal suo isolamento geografico, in parte dai più stretti rapporti con l’arte nordica, presente a Venezia nei quadri dei pittori fiamminghi e nelle stampe dei maestri tedeschi, in parte da una cultura più incline alle divagazioni poetiche e letterarie che alla speculazione filosofica.
Questi fattori incidono sull’orientamento degli artisti, favorendo un rapporto meno intellettualistico con la natura e quindi il superamento del sistema geometrico-prospettico di matrice quattrocentesca a vantaggio di una spazialità nuova, più fusa e avvolgente, basata sull’unità tonale delle variazioni cromatiche e luminose.
Ciò che contraddistingue le opere di Giorgione, che inaugurano la splendida stagione della pittura veneziana, è un nuovo sentimento della bellezza, nato dalla contemplazione dello spettacolo naturale percepito nei suoi valori di colore, luce e atmosfera. Un sentimento vitale che si esprime nella calma assorta di paesaggi colmi di magia, e nella fragrante carnalità di corpi modellati non più attraverso una definizione plastico-disegnativa delle forme, ma direttamente con il colore, sfumando dolcemente i contorni.
Dal punto di vista tecnico, la prassi di dipingere senza disegno, “usando nondimeno di cacciarsi avanti le cose vive e naturali, e di contrafarle quanto sapeva il meglio con i colori” (Vasari), costituisce il lascito più fecondo di Giorgione alla tradizione veneziana che fonda su di esso il segreto della sua floridezza cromatica, della morbidezza delle sue superfici, della sostanza materica dei suoi impasti.
Su queste premesse si sviluppa l’arte di Tiziano, che saprà coniugare le nuove forme della Maniera moderna con le suggestioni del colore, indagato in tutte le sue valenze luminose ed espressive.
La sua pittura basata su effetti cromatici farà scuola ai più grandi artisti italiani e stranieri, dai Carracci a Rubens, da Delacroix a Renoir.
In area lombarda, l’aggiornamento della cultura artistica locale sulle novità tosco-romane passa certamente per Roma, dove – già sul finire del 1518 – si reca il giovane Correggio, “il primo che seguita in Lombardia la Maniera moderna” (Vasari).
Tuttavia, innestandosi su una tradizione contrassegnata da forti interessi naturalistici, quelle novità si affermano in una variante particolarissima che riesce ad accordare l’ideale classico con il senso fisico delle cose e la tenera grazia dei sentimenti. Una variante tutta lombarda, più affabile e domestica, che dà i suoi esiti più fecondi a fine secolo, nel recupero appassionato del primo tempo dei Carracci.
"Una cresta sottile"
Quella fervida stagione, che appare ai contemporanei come una nuova età dell’oro, non è tuttavia destinata a durare a lungo. Si protrae ancora durante il pontificato di Leone X, ma già alla morte di Raffaello (1520) entra in crisi.
Nella pienezza dei suoi valori, il classicismo rinascimentale è una "cresta sottile" che appena raggiunta è subito travalicata, complice la grave crisi delle coscienze prodotta dallo scisma di Lutero che spezza l’unità dei cristiani e infrange il sogno universalistico della Chiesa cattolica, il mito della renovatio, la fiducia nella razionalità della natura e della storia. Segue un clima d’incertezza e smarrimento che ha contraccolpi immediati sul piano artistico, dove si manifesta precocemente un’attitudine generalizzata alla "licenza" e alla trasgressione delle regole che apre il campo, nella pittura come nella scultura e nell’architettura, a nuove avventure e a nuove sperimentazioni.
Manierismo e Maniera
Tra la fondazione della Maniera moderna e l’avvio al naturalismo seicentesco, la passata storiografia collocava la lunga stagione del manierismo, facendoci rientrare tutte le alterazioni, variazioni e codificazioni del classicismo rinascimentale che contrassegnano le manifestazioni artistiche succedutesi nell’arco di quei sessant’anni.
Il tentativo di verificare la validità storica della categoria del manierismo ha avviato, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, una riflessione che ha consentito di ridefinire i limiti cronologici e gli aspetti caratterizzanti di quella che oggi si preferisce chiamare la civiltà della Maniera, assumendo il termine nell’accezione che le ha attribuito il Vasari.
Escludendo la breve ma significativa stagione dell’anticlassicismo, sbocciata dall’inquietudine di artisti "eccentrici", tormentati e solitari – Rosso Fiorentino e Pontormo giovani, Berruguete e Domenico Beccafumi, Lorenzo Lotto) –, più in sintonia con l’espressionismo dell’arte nordica che con le regole del nuovo classicismo, la nuova periodizzazione fa slittare gli inizi della Maniera al terzo decennio del Cinquecento, non più a Firenze ma a Roma, nei primi anni del pontificato di Clemente VII.
Nell’atmosfera colta, tollerante e raffinata che contraddistingue la corte del nuovo papa, i giovani allievi di Raffaello – Giulio Romano, Polidoro da Caravaggio e Perin del Vaga), subito affiancati da Rosso Fiorentino, Benvenuto Cellini e Parmigianino –, danno vita alla prima vera stagione della Maniera (lo stile clementino), trovando "un comune terreno d’intesa nell’aspirazione a una suprema ricercatezza stilistica e nel gusto per la citazione archeologica, il concettismo letterario e l’eleganza decorativa" (Pinelli).
Alla corte di papa Clemente VII nasce quell’attitudine mentale che sarà comune a tutti gli artisti legati per vari tramiti alla Maniera, un’attitudine a forzare le proporzioni, i ritmi, le cadenze, gli equilibri spaziali e compositivi, a "esasperare" in senso plastico o decorativo i modelli classici di Raffaello e Michelangelo, a far ricorso a uno stilismo astratto e a un ossessivo citazionismo che subordina la creazione artistica all’impiego costante di norme, canoni, modelli, figure retoriche (la figura serpentinata). Se ne colgono le conseguenze in tutte quelle manifestazioni di raffaellismo e michelangiolismo che trasformano i testi fondamentali della Maniera moderna in un modello normativo, codificato in regole formali.
Diffusione e sviluppi della Maniera
Se entro queste nuove coordinate spaziali e temporali il termine Maniera riacquista una sua legittimità, individuando una cultura ben definita, esistono tuttavia alcune cesure cronologiche che vanno indicate per meglio scandire i tempi del suo sviluppo, a cominciare dal sacco di Roma, che determina il crollo delle libertà italiane e pone definitivamente fine a quella visione provvidenziale della storia su cui si fondavano le certezze rinascimentali.
La "diaspora" degli artisti fuggiti da Roma invasa dai lanzichenecchi accelera infatti i tempi di diffusione del linguaggio manierista presso le corti italiane e straniere, avviando la formazione di un vero proprio stile internazionale che segna il trionfo del modello italiano in Europa: nella Firenze di Cosimo I, nelle corti padane, nel castello di Fontainebleau, nuova capitale della Maniera. A Roma, a Firenze, a Fontainebleau vengono a studiare i Fiamminghi e gli Olandesi che lavorano poi alle corti di Filippo II a Madrid e di Rodolfo II a Praga.
Nella sua variante internazionale la Maniera si caratterizza come uno stile di corte, elitario, elegante e sofisticato, in perfetta sintonia con gli ideali di una società edonista ma colta, amante dei travestimenti mitologici e allegorici, spesso iniziata ai segreti dell’astrologia e dell’alchimia, sedotta dal gusto per la finzione e l’artificio.
Un gusto che coinvolge tutti i campi dell’arte, dalla decorazione al teatro, dall’allestimento di apparati festivi al collezionismo di naturalia e mirabilia, fino alla progettazione di parchi e giardini. Questi ultimi, nel corso del secolo, diventano i luoghi deputati al libero manifestarsi del virtuosismo manierista, campo di applicazione della progettualità degli artisti e dell’estro dei committenti.
Forti dell’esperienza maturata in ambito teatrale, nei giardini delle ville toscane e laziali, gli architetti manieristi – Buontalenti, Tribolo e Vignola – realizzano ampi spazi scenografici animati dalla presenza di scale, terrazze, labirinti, grotte, fontane, giochi d’acqua, automi, sculture, in una continua sfida tra arte e natura. La volontà di stupire e di creare situazioni impreviste raggiunge il suo culmine nel Sacro Bosco di Bomarzo, uno dei luoghi più ambigui e inquietanti che la cultura del secondo Cinquecento italiano abbia creato.
La svolta del Giudizio e il tramonto della Maniera
Lo scoprimento del Giudizio universale di Michelangelo (1541) segna una nuova svolta nella storia della Maniera, non solo perché la varietà dei moti e delle attitudini dei corpi giganteschi che ruotano attorno al Cristo -giudice porta nuova linfa alla volontà formalistica di un’altra generazione di artisti – Daniele da Volterra, Francesco Salviati, Giorgio Vasari, Pellegrino Tibaldi) –, ma anche perché le accuse di oscenità e di scarsa ortodossia iconografica rivolte in questa occasione a Michelangelo dalla Curia romana segnano l’inizio di un dibattito che rivela l’impegno della Chiesa a esercitare un controllo più diretto sulle immagini sacre.
In questo tormentato clima spirituale e religioso, che coincide con la convocazione del concilio di Trento da parte del papa Paolo III, si colgono i primi germi di dissoluzione della Maniera e sarà proprio "la questione delle immagini sacre" a provocarne il lento, ma inesorabile esaurimento.
L’offensiva della restaurazione cattolica nell’età della Controriforma ha immediate ripercussioni sul mondo artistico: per le sue caratteristiche intrinseche, la Maniera rappresenta uno stile profano, concettoso e sofisticato, inadeguato a soddisfare le esigenze di un’arte religiosa, nuovamente intesa come instrumentum fidei. Le generiche disposizioni contenute nel celebre decreto sulle immagini sacre, redatto nell’ultima seduta del concilio di Trento (dicembre 1563), pur senza tradursi in una normativa vincolante, finiscono per orientare gli artisti verso un’arte didascalica e popolare, accessibile e comunicativa, senza eccessi e senza stravaganze, in grado d’interpretare le esigenze di rinnovamento spirituale dell’epoca.
Almeno fino agli anni Ottanta, la convivenza tra Maniera e Controriforma si rivela difficile, per la resistenza degli artisti a rinunciare a modelli e schemi compositivi già collaudati.Il loro superamento si attua tra compromessi e risultati contradditori. Solo quando le attese dei committenti (ordini religiosi, congregazioni, confraternite, laici) coincidono con le aspirazioni degli artisti, le istanze avanzate dalla Controriforma (sincerità, verosimiglianza e decoro) si traducono in un’arte nuova che si esprime in una pluralità di accenti, tra severità iconica, acceso spiritualismo e racconto popolare.
"Scavalcato il cadavere del manierismo ", una nuova consapevolezza del reale aprirà la strada all’affettuoso naturalismo dei Carracci e a quello, ben più radicale e programmatico, di Caravaggio.
L’altro Rinascimento: arte tedesca e arte fiamminga
Nonostante la forza di attrazione esercitata in Europa dall’arte e dalle teorie artistiche italiane, in area nordica il superamento della tradizione tardogotica si attua all’interno di una concezione del mondo sostanzialmente antiumanistica, in netta contrapposizione con l’antropocentrismo della cultura classica.Come ha osservato Giuliano Briganti, gli umori e le propensioni della cultura nordica, ricca di straordinari fermenti espressivi, si manifestano "in un realismo estraneo a ogni misurazione razionale dello spazio, sordo a ogni richiamo del classicismo, nemico di ogni idealizzazione della figura umana. Un realismo nato piuttosto da un rapporto vivissimo tra l’immaginazione più favolosa e l’attenta osservazione del mondo attraverso i sensi".
La rinascita dell’arte tedesca passa per le ricche città imperiali (Norimberga, Augusta, Basilea), i centri di vita spirituale (Wittenberg), le città danubiane (Vienna, Ratisbona e Passau), punti nevralgici di una produzione artistica che trova nell’illustrazione grafica, nell’arte sacra e nella pittura di paesaggio gli ambiti più congeniali a esprimere una diversa concezione estetica che solo nell’opera di Dürer si attua in una continua e consapevole dialettica con l’arte italiana e, attraverso questa, perfino con l’antico.
Già presso i contemporanei la fama e il prestigio di Albrecht Dürer, pittore, incisore e trattatista, si legano alla sua attività nel campo della grafica che, grazie alle sue innovazioni tecniche e iconografiche, raggiunge una dignità artistica pari a quella della pittura. Le stampe di Dürer, caratterizzate ora da un grafismo teso e vibrante, ora da un delicato pittoricismo, riflettono la molteplicità dei suoi interessi, inferiore solo a quella di Leonardo, la vastità della sua cultura, maturata a contatto con i cenacoli umanisti di Norimberga, e l’alta tensione spirituale di una ricerca a tutto campo sull’uomo e sulla natura.
L’aggiornamento di Dürer sulle novità dell’arte italiana – ampiamente documentato dagli studi sulle proporzioni umane e sulla prospettiva – non giunge mai ad alterare le radici nordiche del suo stile, saldamente ancorate a un realismo narrativo ed espressionistico di straordinaria forza e suggestione.
Ma il vertice dell’espressionismo tedesco è raggiunto da Mathias Grünewald, artista grandissimo e solitario, che nell’altare di Isenheim, in Alsazia, realizza "una fra le più atroci e crude rappresentazioni dell’arte occidentale", condensando nel dramma cupo e folgorante della Crocifissione tutto il travaglio spirituale di un’epoca e di un popolo.
Uno degli aspetti più tipici dell’arte tedesca del Cinquecento è rappresentato dall’interesse per la pittura di paesaggio, di cui si rintracciano le origini nelle opere giovanili di Lucas Cranach, ma che solo la vena mirabilmente fantastica di Albrecht Altdorfer saprà elevare a livello di forma artistica autonoma, capovolgendo il tradizionale rapporto tra uomo e natura, e rendendo quest’ultima protagonista assoluta della rappresentazione.
Nella nuova pittura di paesaggio, nata a contatto con gli straordinari scenari delle foreste danubiane, ogni rigore prospettico si scioglie per dar luogo a un sentimento della natura che sommerge l’uomo e quasi ne annulla la presenza. La stretta aderenza al vero, riflessa nella moltiplicazione dei particolari, si salda miracolosamente con lo slancio visionario di una fantasia fervidissima che dilata gli spazi oltre ogni limite e accende i colori d’improvvisi bagliori e misteriose luminescenze. Ne discende una visione favolosa e inquietante della natura, di timbro già romantico, che troverà ampio seguito negli artisti della scuola danubiana.
La tradizione nordica del paesaggio si afferma anche nei Paesi Bassi, dove opera Bruegel, il più grande pittore di paesaggio del Cinquecento. Nelle sue vedute a volo d’uccello, la rappresentazione della natura, indagata e descritta con precisione topografica, assume una dimensione epica e una vastità cosmica al di fuori da ogni logica spaziale. La maestà della natura diviene teatro della commedia umana, del vano affacendarsi di un microcosmo popolare e contadino vittima della propria stoltezza e della propria follia e incapace di costruirsi il proprio destino, sottomesso alle leggi della natura. Bruegel rappresenta l’altra faccia del Rinascimento, la sfiducia, il pessimismo di chi osserva il mondo con disincanto e rassegnazione.
Un destino segnato
Visto in prospettiva, il Cinquecento risulta fatale per le sorti dell’Italia, dove l’arte ufficiale, quella al servizio del potere, rimane legata al linguaggio aulico e illustre del classicismo almeno fino alla metà dell’Ottocento. L’eredità rinascimentale, accolta e gelosamente custodita, continuerà ad alimentare anche nel Seicento il mito di una bellezza antica e ideale, garantendo all’arte italiana un assoluto prestigio artistico e culturale. Tuttavia la dittatura del classicismo, e parallelamente del barocco, impedirà all’Italia di percorrere le strade più "moderne" del naturalismo che, dopo la parentesi caravaggesca, troveranno straordinari sviluppi nell’Olanda borghese e calvinista di Rembrandt e Vermeer.