Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel campo delle arti figurative, il Seicento è in Europa il Grand Siècle, nonostante la crisi economica, le pesti, le carestie e il declino dei centri mediterranei. La graduale uscita di scena, sul piano politico, di un Paese come l’Italia non coincide affatto con una perdita di leadership culturale e artistica. Al contrario, Roma è forse la prima città europea cui si cerca di dare struttura di capitale, e il suo processo di trasformazione, da antica città a città-capitale, è un processo al quale si ispirano le riforme urbanistiche di Londra e Parigi.
Il Grand Siècle
Nel campo delle arti figurative il Seicento è in Europa il Grand Siècle, nonostante la crisi economica, le pesti, le carestie e il declino dei centri mediterranei.
La graduale uscita di scena, sul piano politico, di un Paese come l’Italia non coincide affatto con una perdita di leadership culturale e artistica. Al contrario, Roma è forse la prima città europea cui si cerca di dare struttura di capitale, e il suo processo di trasformazione, da antica città a città-capitale, è un processo al quale si ispirano le riforme urbanistiche di Londra e Parigi.
“Il cavaliere” – si tratta di Gian Lorenzo Bernini chiamato a Parigi da Luigi XIV nel 1665 – “ha fatto notare che di Parigi non si scorgeva che un ammasso di comignoli e questo dava l’impressione di un pettine da cardare. Ha aggiunto che Roma ha ben altro aspetto perché si vede San Pietro, il Campidoglio, Palazzo Farnese, Monte Cavallo, il Palazzo di San Marco, il Colosseo, la Cancelleria, Palazzo Colonna [...] situati qua e là, e tutti grandiosi e di una parvenza magnifica”. Roma infatti aveva attuato per prima quella riorganizzazione di spazi, quel tracciato monumentale di strade, grandi piazze, palazzi, che sarà il lascito dell’architettura barocca. Un’architettura essenzialmente urbana, che intendeva rappresentare il valore ideologico della città-capitale, vero cuore dello Stato nazionale nascente.
In Italia, dove lo Stato nazionale non è ancora realtà, il mecenatismo dei papi attribuisce a Roma un ruolo primario. Roma non è più una corte locale, ma il centro del mondo di fede cattolica e il luogo della sua organizzazione politica. Qui il fasto, la teatralità, l’ostentazione della ricchezza sono strumenti di propaganda nella strategia di espansione della Chiesa cattolica dopo il concilio di Trento.
Naturalismo, classicismo, barocco: linee di tendenza dell’arte nel Seicento
Seguendo il filo della cronologia, le linee di tendenza nel XVII secolo non seguono affatto percorsi paralleli. All’inizio le posizioni più radicali sono quelle che pongono un nuovo rapporto con la tradizione classica (Carracci) e con la realtà (Caravaggio).
Ma la morte di Caravaggio (1610) e la dittatura culturale dei Barberini con l’avvento al soglio pontificio di Urbano VIII (1623), cancellano dalla scena romana la corrente caravaggesca e naturalistica, cui viene preclusa la strada delle commissioni pubbliche importanti. Di conseguenza, a partire dal terzo decennio, l’eredità di Caravaggio sopravvive in Italia in luoghi periferici e in Europa in alcune aree circoscritte, come l’Olanda (Scuola di Utrecht) e la Spagna, in particolare Siviglia.
Il filone classicista ha invece un futuro meno precario. Dai Carracci fino a Poussin, attraverso artisti (Reni, Algardi, Vouet, Le Sueur, Mansart...), teorici (Agucchi, Bellori, Fréart de Chambray, Félibien) e committenti (Cassiano Dal Pozzo), il mito di una bellezza antica e ideale assume le caratteristiche di un gusto acclamato e ufficiale (grand goût). Sue roccaforti sono la Francia di Luigi XIV con l’Accademia fondata da Colbert (1648), l’Inghilterra neopalladiana di Inigo Jones, la civiltà di Bologna, dove la cultura è monolitica, impermeabile al naturalismo e al barocco.
La terza e dominante tendenza del secolo si chiama ovviamente barocco. Il suo trionfo coincide con l’eclissi della esperienza caravaggesca. L’enfatizzazione di quei canali di comunicazione (immagine, colore, illusionismo) che rendono subito percepibile il messaggio religioso e politico favorisce la diffusione del barocco nelle aree controllate dal papato, dagli ordini religiosi, dalle dinastie imperiali di Austria e di Spagna, dove la sua trionfante durata va ben oltre la fine del secolo. È proprio nelle aree cattoliche della Polonia, della Baviera e dell’Austria che l’architettura e la decorazione barocca avranno tempi più lunghi di sopravvivenza. Abbazie come quelle di Sankt Florian e di Melk, così scenografiche lungo le rive del Danubio austriaco, entrambe legate all’attività architettonica di Jakob Prandtauer, sono episodi altissimi della vitalità del barocco in pieno XVIII secolo, sulla scia di un rinnovamento che in quelle regioni si era già affermato negli ultimi anni del Seicento.
Sul piano delle tecniche e dei procedimenti di lavoro, il culto dell’“ingegno”, della creatività, dell’immaginazione è alla base dello sperimentalismo barocco contro l’autorità di una lunga tradizione: “la vera regola è rompere le regole” (Algarotti).Conseguenza importante è la rivalutazione della tecnica come elemento che incide sul processo creativo, sollecitando soluzioni che l’artista non aveva inizialmente previsto. È appunto nell’età barocca che l’esplorazione delle possibilità espressive dei materiali promuove un rinnovamento radicale del linguaggio: esaltazione dello stucco nell’architettura, contaminazione anticlassica dei materiali (marmi policromi, bronzi, madreperla, metalli preziosi), lavorazione talvolta sommaria e brutale ma di grande efficacia espressiva, scoperta di procedimenti che, come l’acquaforte per Rembrandt, consentono risultati nuovissimi e un uso spregiudicato del non-finito.
La percezione dello spazio, da Caravaggio al barocco
Alla base della civiltà figurativa secentesca c’è una diversa concezione dello spazio. Diversa nei confronti dell’illusionismo prospettico rinascimentale che, applicando alla visione le leggi della geometria euclidea, prolungava lo spazio reale nello spazio virtuale del quadro e stabiliva un sistema proporzionale fondato sull’uomo “misura di tutte le cose”.
Ora invece la centralità dell’uomo nell’universo, messa in discussione già da Copernico, è negata dalle scoperte di Keplero e di Galilei con effetti di risonanza quasi immediati sulla sensibilità e la cultura del tempo. Nella situazione di smarrimento e di conseguente relativismo, l’artista cerca nuovi rapporti con il mondo e le cose che lo circondano (Caravaggio, Elsheimer).
La percezione dello spazio, ora determinata dall’esperienza, comporta inizialmente una riduzione del campo visivo. I dipinti di Caravaggio raccontano, del tema sacro, solo ciò che può essere intercettato dai sensi: nessuna estensione in profondità, nessun dettaglio se non entro il fascio di luce incidente, soprattutto niente “miracoli”, che non appartengono alla comune esperienza. Per questo gli angeli non volano in cielo. Sono ragazzi in posa nell’atelier, un piede legato in qualche modo per aria, il palmo della mano saldamente poggiato su un piano.
La Conversione di Saulo di Caravaggio (1601) per la Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo raffigura una storia ridotta all’osso e privata del trascendente, cioè della figura di Cristo che appare al soldato romano. È in fondo una drammatica caduta da cavallo, dove l’eroe non è più dominante come nella visione antropocentrica del Rinascimento. La gerarchia è a tal punto sconvolta che il dipinto potrebbe intitolarsi Conversione di un cavallo, come sostiene Roberto Longhi, tanto la mole dell’animale è prevalente in termini visivi e di spazio.
Se il naturalismo di Caravaggio esalta la percezione ottica della realtà entro i confini di uno spazio misurabile e finito, più avanti nel secolo, dopo il 1630, lo stile barocco riflette la scoperta di un universo illimite e incommensurabile, regolato da leggi estranee all’uomo e alla sua volontà. Gli affreschi sulle cupole delle chiese barocche e sulle volte dei grandi palazzi non tendono, come nel Rinascimento, a prolungare ed estendere lo spazio reale. Cercano piuttosto di rendere credibile uno spazio fantastico, turbinante e centrifugo (“l’impossibile credibile”).
Nel salone di Palazzo Barberini (1631-1639) Pietro da Cortona celebra l’apoteosi della famiglia di Urbano VIII, unendo i simboli della gloria terrena (le gigantesche api dorate dei Barberini) con quelli della religione cattolica e realizzando una macchina decorativa che ambisce ad essere orazione e spettacolo. Il soggetto era stato ispirato da un letterato, Francesco Bracciolini, ma la traduzione visiva di quelle complicate allegorie apologetiche è a tal punto creativa e felice da rendere tangibile lo scarto fra arti figurative e letteratura nel primo Seicento in Italia.
Quella immagine dilagante e iperbolica, eppure miracolosamente unitaria, dipinta sulla volta di Palazzo Barberini, è l’archetipo di ogni apologia dell’assolutismo monarchico, a cominciare dai fasti del Re Sole, affrescati da Le Brun nella Galleria di Versailles. Dove l’identificazione collettiva della Francia nell’immagine garante del sovrano è affermazione della passata grandezza e insieme premessa per imprese future.
Arte e religione
La diffusione dello stile barocco ha luogo essenzialmente nei Paesi cattolici, mentre zone di resistenza si hanno nelle aree interessate dalla Riforma che aveva bandito le immagini sacre, eliminando la committenza ecclesiastica. In campo cattolico, invece, il rilancio dell’immagine, o meglio il suo trionfo nelle mille varianti consentite dal barocco, coincide con la nuova fase espansiva della politica papale, dopo lo stallo degli anni di Controriforma.
È il pontificato di Urbano VIII, anzi la sua dittatura, a segnare il punto di svolta, con l’adozione di uno stile persuasivo e trionfante, di un’iconografia elementare e ricchissima, di una simbologia addirittura trasparente, funzionali alle esigenze di propaganda del cattolicesimo oltre i confini d’Europa, verso l’India, il Giappone, le Americhe (l’“arte coloniale” di Spagna e Portogallo).
Gli artisti (Bernini, Borromini, Rubens, van Dyck, Pietro da Cortona, G. B. Gaulli, padre Andrea Pozzo) e gli ordini religiosi (in prima fila quello dei Gesuiti) non puntano più sulle qualità esplicative di un’immagine da meditare, ma sulle sollecitazioni che l’immagine può scatenare a livello sensitivo e di emozione.
Gian Lorenzo Bernini esprime la sofferenza della Beata Ludovica Albertoni, raffigurata sul letto di morte (un letto in disordine, posto teatralmente sopra l’altare), con una sensualità e una forza comunicativa che esaltano i nuovi valori dinamici e pittorici di un’arte tradizionalmente statica come la scultura. Il marmo ha una trasparenza, una duttilità e una ricchezza di patine da competere con la pittura, realizzando l’obiettivo barocco della integrazione di tutte le arti.
Nei Paesi di religione protestante (il campione d’analisi potrebbe essere l’Olanda calvinista) la situazione è radicalmente diversa perché sulla mappa culturale d’Europa la geografia religiosa ha una forte incidenza. In Olanda, una moderna inclinazione borghese verso valori concreti e immediati e una lunga attenzione al dato reale prevalgono sugli “artifici” tipicamente barocchi (fantasia, metafora, azione) che invece alimentano il fasto decorativo nel Belgio cattolico (Rubens, van Dyck, Jordaens).
Con grande precocità sull’Europa, “quel brulicante alveare di nemmeno due milioni di uomini” che viveva fra l’Ems e la Schelda (Shama) impone un’arte laica e realista, e dipinti di formato ridotto, adatti agli interni di una comunità in prevalenza borghese. La merlettaia del Museo del Louvre, un capolavoro di soli venti centimetri, riflette lo sguardo imparziale del pittore Vermeer su una stanza, un arredo, dei gesti banali, dove i soggetti non contano più, ma conta la misteriosa poesia delle cose, l’iridescenza delle gocce di luce, l’incanto della visione.
L’emancipazione dei “generi”
In un processo famoso tenutosi a Roma, Caravaggio aveva dichiarato che “tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figura”. L’affermazione era particolarmente polemica poiché metteva in discussione l’importanza cruciale dei contenuti e dunque una gerarchia di valori fondata sulla “dignità” del soggetto (non sulla qualità del dipinto).
Al primo posto di tale classifica stava allora la “pittura di storia” (il tema sacro e quello mitologico), mentre ritratto, paesaggio, natura morta, avendo un tasso più basso di dignità, erano lasciati a pittori “specialisti” cui non era riconosciuta parità di status sociale.
Nel Seicento i “generi” ottengono finalmente riscatto. Lo provano i dipinti di Louis Le Nain, dove un pasto serale di contadini ha la sacralità di una Cena in Emmaus. Lo provano le tele sublimi di Georges de La Tour, temi quotidiani e addirittura “volgari” che, al riverbero delle candele o di una luce rossa e stregata, attingono un’altissima temperatura spirituale. Una candela, una sedia, una donna discinta: è tutta qui la Donna che si spulcia, un tema tante volte raffigurato in pittura. Ma nel dipinto di Georges de La Tour il racconto è ridotto all’osso, l’immagine stilizzata, la sua dimensione monumentale. E le cose, che sono le cose di sempre, hanno perduto la loro ovvietà per emergere come forme pure, come arcane geometrie nello spazio.
L’emancipazione da una gerarchia secolare, avviata con la presa di coscienza di Caravaggio, viene, nel secolo, decisamente attuata grazie all’apporto della tradizione olandese, che, eliminando il “quadro di storia”, cancella le distanze fra i generi. La strada porta diritto all’estetica del pieno Ottocento quando, interpretando i dipinti di Edouard Manet, Zola affermerà che “le sujet est un prétexte à peindre”, il soggetto è solo un pretesto per fare pittura.