Introduzione alle arti visive di Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
“Perché oggi non esiste ancora nessuna storia dell’arte romana universalmente accettabile?” si chiedeva alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso Ranuccio Bianchi Bandinelli, forse il nostro maggiore storico dell’arte antica. Oggi, a distanza di mezzo secolo, la domanda è ancora attuale. Per chiarire i termini di questa aporia occorre partire almeno da Winckelmann, il padre (putativo) della storia dell’arte antica. Per Winckelmann, semplicemente, un’arte romana non è mai esistita. Nella sua visione, fondata su un paradigma “biologico”, l’arte greca passa, dopo la nascita, attraverso l’infanzia, la giovinezza, la maturità, la senescenza. Il declino comincia con l’età ellenistica e continua sotto i Romani. Questi ultimi non creano un’arte originale: si limitano a recepire e a utilizzare l’arte greca, prolungandone la vita fino all’estrema vecchiaia.
Alla decadenza segue, inevitabile, la morte, che avviene con lo spostamento della capitale dell’impero a Costantinopoli, o comunque non molto dopo. La concezione evoluzionistica dell’arte antica non è però inventata da Winckelmann. È elaborata nel Rinascimento, a partire da un passo di Plinio il Vecchio (XXXIV, 52: cessavit deinde ars... ) sulla morte dell’arte dopo Alessandro Magno, che a sua volta echeggia le tesi di una certa storiografia artistica greco-ellenistica (peraltro limitatamente alla scultura in bronzo). La si trova, per esempio, nei Commentarii di Ghiberti, in una lettera di Raffaello a Leone X e nelle Vite di Vasari. Con la differenza che mentre per Winckelmann l’arte romana non è che arte greca della decadenza, il Rinascimento fa dell’arte dei Greci e dei Romani un unico blocco indistinto (la bella antichità da imitare) e vede anzi nell’età romana il culmine della parabola, il perfezionamento di un’esperienza, non il suo corrompimento. E la morte non arriva per l’esaurirsi del ciclo vitale ma è provocata da un trauma improvviso e irreparabile: il crollo dell’impero sotto gli assalti dei barbari.
La svalutazione dell’arte romana operata da Winckelmann mette però completamente in ombra il punto di vista degli uomini del Rinascimento e condiziona il giudizio critico di tutto l’Ottocento. Solo a cavallo del nuovo secolo, ad opera di due esponenti della cosiddetta Scuola di Vienna, Alois Riegl e Franz Wickhoff, si avvia una rivalutazione dell’esperienza artistica di età romana. Per liberarsi del concetto di decadenza, Riegl introduce quello di Kunstwollen (letteralmente: “volontà d’arte”). Ogni epoca forma un proprio “gusto”, una propria cifra espressiva, e non ha senso istituire delle gerarchie di valore. L’età romana non è da vedere in negativo, come il momento dello scadimento dell’arte della Grecia classica a forme deteriori, bensì in positivo, come l’epoca in cui si forma un linguaggio nuovo, che pone le premesse dell’arte medievale. L’originalità dell’arte romana consiste nel sostituire al naturalismo dell’arte greca una tendenza alla rappresentazione “illusionistica” della realtà, più attenta ai valori ottici che a quelli plastici. Wickhoff si spinge oltre, individuando altri motivi di originalità nell’arte romana: la tecnica impressionistica in pittura, basata sull’accostamento di macchie di colore più che sul disegno; l’interesse per la resa dello spazio e per il paesaggio; la creazione di un ritratto realistico; il rilievo storico; la narrazione continua (quella in cui le scene si succedono senza elementi separatori, e uno stesso personaggio compare in momenti diversi della narrazione): tutti elementi che sono alla base prima dell’arte medievale e poi di quella moderna. Questi elementi, però, appaiono originali nell’arte romana solo nel confronto con l’arte greca di età classica; da quando si conosce meglio l’arte dell’età ellenistica si sa che virtualmente tutti vi fanno già la loro comparsa. Alla Scuola di Vienna resta comunque il merito di aver archiviato la concezione dell’arte romana come mera fase di decadenza dell’arte greca e di avere individuato al suo interno un fondamentale bipolarismo tra mantenimento della forma classica e ricerca di un linguaggio nuovo, adatto all’espressione dei valori di una società molto complessa, in cui componenti etniche diverse convivono su una estensione geografica molto ampia.
Questo bipolarismo è messo ulteriormente a fuoco dalle ricerche di Gerhart Rodenwaldt, il quale sostiene l’esistenza nell’arte romana di due tendenze o correnti parallele: una “maggiore”, che rimane fondamentalmente fedele al naturalismo dell’arte greca classica – e costituisce la base della “rinascita” artistica tra Quattro e Cinquecento – e una “popolare”, antinaturalistica e anticlassica, precorritrice dell’arte bizantina e medievale, che si avvale di un linguaggio meno raffinato, quasi vernacolare, al servizio dei ceti meno elevati. Solo con Augusto si creerebbe un’arte per tutto l’impero, caratterizzata da una sintesi tra forma greca e contenuto romano.
Per Bianchi Bandinelli, al contrario, l’arte augustea – che è sostanzialmente un neoatticismo (anche se non esclude altre correnti artistiche ellenistiche) – “manca di una sua cultura artistica originale” e anzi frena la formazione di un’arte propriamente romana, “è come timorosa di esprimere un sentimento qualsiasi e si rifugia nel conformismo della correttezza e del virtuosismo tecnico”. Anche per Bianchi Bandinelli l’arte romana è bipolare, ma il modello che egli propone è diverso da quello di Rodenwaldt. Ciò che egli contrappone all’arte colta (o aulica), espressione delle élite patrizie e sostanziata di forme greche, non è l’arte popolare, ma quella che egli definisce “plebea”. Popolare è a suo giudizio un termine ambiguo in questo contesto, perché con populus nel diritto romano si intendevano tutti i cittadini, compresi quindi anche i patrizi, mentre se ci si vuole riferire a coloro che non appartenevano all’aristocrazia si deve usare il termine plebe, che d’altro canto non ha il significato dispregiativo che ha assunto nelle lingue moderne, in quanto plebs non era solo il popolino diseredato e straccione ma anche quel ceto che oggi chiameremmo borghese, caratterizzato da grande vitalità e da mezzi economici talvolta assai cospicui. Inoltre, per arte popolare si intende di solito un’arte che utilizza, volgarizzandoli e declassandoli, modelli derivati di una cultura egemone, mentre l’arte plebea è diversa da quella aulica per iconografia, stile e contenuti.
Alle raffigurazioni mitologiche si preferiscono scene di vita quotidiana e vi prevale il desiderio di autorappresentazione, di affermazione individuale, specie da parte dei liberti, ex schiavi affrancati che sono riusciti a farsi una posizione (come il Trimalchione del Satyricon di Petronio) e ambiscono a lasciare memoria della propria scalata sociale in monumenti celebrativi nei quali si ignorano le regole del naturalismo di tradizione ellenistica. Per esaltare il committente, spesso rappresentato frontalmente, gli si danno proporzioni maggiori rispetto alle altre figure, o le si danno agli animali sacrificali, se l’enfasi cade sulla ritualità connessa alla carica del celebrante. La prospettiva è distorta per l’esigenza di far vedere tutto ciò che si deve vedere, di mettere in evidenza tutto ciò che è significativo per la comprensione della scena raffigurata, a scapito dell’organicità. Il realismo del contenuto si coniuga con formule iconografiche che privilegiano il simbolo. Per Bianchi Bandinelli questa corrente plebea è il nucleo più originale della cultura figurativa romana. Essa affonda le sue radici nella cosiddetta arte medioitalica, che caratterizza un’area che comprende il Lazio, la Campania, il Sannio, il Piceno e l’Apulia e che subisce l’influenza dell’arte ellenistica, ma con molte mediazioni, non accettandone mai totalmente il linguaggio formale, come farà la classe dirigente romana a partire dal II secolo a.C. Questo è il motivo per cui, secondo Bianchi Bandinelli, esistono delle consonanze tra l’arte plebea e quella delle province dell’impero meno toccate dalla cultura greco-ellenistica. Quest’arte plebeo-provinciale, che convive con quella più colta delle aristocrazie e dà espressione a strati sociali diversi, è spesso “oscurata” dall’arte ufficiale ma ha dei suoi percorsi “carsici” che la portano infine a confluire in quest’ultima intorno alla fine del III secolo “perché gli strati sociali che si erano sempre serviti di quest’arte sono quelli che diventano, in questo periodo, l’elemento decisivo della nuova struttura amministrativa e pubblica dell’impero: i coloni e i militari”.
Si arriva allora – secondo Bianchi Bandinelli – a “quella rottura della tradizione ellenistica che i nostri primi storici dell’arte chiamavano ‘decadenza’ e che noi oggi chiamiamo col nome di Spätantike (“tarda antichità”)”, la quale introduce all’arte del Medioevo. Esiste un filo rosso che lega arte medioitalica, arte plebea, arte romana provinciale ed arte tardoantica, ed è il prevalere di elementi estranei al linguaggio formale greco classico. Ma nonostante la valorizzazione che di questa corrente fa Bianchi Bandinelli in tutti i suoi scritti, la conclusione a cui approda è che “l’arte romana, nel suo complesso, non creò una nuova cultura figurativa se non nell’architettura”, e questo non tanto per le innovazioni stilistiche o tipologiche (gli ordini architettonici rimangono pur sempre quelli elaborati in Grecia) quanto per il fatto che, diversamente da quella greca, “l’architettura romana è arte degli spazi, sia di quelli interni che di quelli esterni creati dai rapporti fra i vari edifici”; e mentre le murature hanno in Grecia una funzione eminentemente strutturale, il muro romano “più che come struttura è inteso come elemento che separa e racchiude gli spazi, come divisione e come guscio, come il mezzo per ottenere degli ambienti”.
Policentrismo e pluralità di linguaggi
La concezione bipolare di Bianchi Bandinelli, che individua nella corrente plebea la matrice di un’arte romana meno soggetta all’influenza greca ed è impostata, come si è detto, su una articolazione sociologica (componenti diverse della compagine dello stato si servono di linguaggi artistici diversi) non soddisfa pienamente Otto Brendel, uno studioso tedesco emigrato negli Stati Uniti nel 1936. Se per arte romana intendiamo – e non possiamo non farlo – tutta la produzione artistica documentata entro i confini dello stato romano per tutto il tempo in cui esso è esistito, vale a dire per almeno 13 secoli, allora più che indagare la sua originalità rispetto all’arte greca risulta più produttivo adottare un modello policentrico, che renda conto dei vari apporti regionali, di differenti “dialetti” in cui si è espresso quel mondo. Inoltre per Brendel l’arte romana presenta significative differenze tra la sfera pubblica e quella privata. Potrebbe sembrare a prima vista che questa distinzione coincida con quella di Bianchi Bandinelli tra arte ufficiale e arte plebea, ma mentre questa è definita in base alla qualità formale, quella di Brendel è basata sui contenuti e sulla destinazione, indipendentemente dallo stile. Quest’ultimo si adatta alla cultura visiva dei fruitori più che a quella dei committenti, mentre centrale diviene il concetto di arte tematica o “genere”.
Tra l’Ara Pacis e l’arco di Susa o tra la Colonna Traiana e il Trofeo di Adamklissi non ci potrebbe essere in effetti uno scarto formale maggiore, ma si tratta di due coppie di monumenti pubblici contemporanei, rispondenti alle stesse esigenze funzionali. Se parlano due linguaggi diversi è perché sono destinati rispettivamente ad un pubblico urbano più raffinato e ad uno provinciale meno colto.
Sull’aspetto comunicativo insiste Tonio Hölscher, che riconosce nell’arte romana un vero e proprio “sistema semantico”. L’uso eclettico dei modelli greci non va visto come un deficit di originalità, né il ricorso a stili e formule espressive non greche come una manifestazione di spontaneità e autenticità. Si tratta nell’un caso e nell’altro di una scelta dettata dall’esigenza di trovare lo strumento adeguato a veicolare messaggi non solo estetici ma anche politici e ideologici. Per quanto riguarda l’arte ufficiale i diversi stili greci – ciascuno originariamente creato in una specifica epoca – vengono usati senza riguardo alla cronologia ma solo alla congruenza tematica: per le scene di battaglia, per esempio, si ricorre a modelli ellenistici ricchi di pathos e complessità spaziale, mentre prototipi classici, formalmente più composti, sono preferiti per le solenni cerimonie di stato. La necessità di rendere comprensibile i messaggi agli abitanti di tutto l’impero fa sì che si attui una selezione che porta alla creazione di un linguaggio iconografico comune, fissato in formule standardizzate e altamente codificate.
La ricezione di questo linguaggio da parte di una variegata moltitudine di soggetti è centrale anche nella prospettiva di Salvatore Settis, che infatti parla dell’arte romana come di “un’arte al plurale”. Per questo studioso, più che continuare a interrogarsi sulle polarità dell’arte romana, sulla sua maggiore o minore dipendenza da quella greca, conviene “puntare l’attenzione sul mescolarsi delle culture, sulle zone di sovrapposizione, sulle sfere di interazione, scegliendo di volta in volta non il solo punto di vista centralizzante di Roma-capitale e unico centro propulsore, ma quello (o anche quello) delle varie periferie [...]. Quest’arte al plurale sopporta, e anzi richiede, la molteplicità degli stili e l’anonimità degli artisti: poiché ciò che importa è il messaggio”.
Settis sottolinea anche con forza la funzione dell’arte romana nella storia della cultura occidentale, osservando che essa costituisce “il fondamento per lo sviluppo di ogni possibile produzione artistica medievale” e allo stesso tempo “la fonte unica a cui attingere per promuovere ‘rinascite’”; essa è “matrice del Medioevo e matrice del Rinascimento”, rappresenta insomma “la continuità della produzione figurativa europea, dai Greci (almeno) a noi (almeno)”.
L’arte romana, come osserva anche Bernard Schweitzer, è la prima cultura artistica europea le cui basi poggino sull’arte greca, e tuttavia non intrattiene con essa un rapporto di dipendenza, come fa l’arte etrusca. Assimilando l’arte greca e servendosene per le proprie esigenze espressive e comunicative, l’arte romana fa in effetti dono ai secoli successivi della forma antica, in cui mondo greco e mondo romano si compenetrano a vicenda. Né bisogna stupirsi – e tanto meno dolersi – che l’arte romana manchi di un carattere unitario. Ad essere uno è l’impero di Roma, mentre la varietà delle inflessioni che la sua arte prende nelle diverse province costituisce la sua ricchezza, il suo lascito più importante. L’impronta del linguaggio artistico romano è naturalmente più profonda nelle province che poi diventano il cuore dell’Occidente (Gallie, Germania romanizzata, Britannia e Spagna) e in alcune delle province orientali che poi saranno parte dell’impero bizantino. È appunto attraverso la mediazione del regno dei Franchi e di Bisanzio che l’arte di Roma pone la basi dell’arte medievale.
Ma qual è precisamente l’apporto di Roma alla forma antica? Si può convenire con Schweitzer che i Romani, pur facendo proprio praticamente ogni aspetto della cultura figurativa greca, l’hanno svincolata dal mondo spirituale ellenico adattandola alle propria visione del mondo. Al posto del lógos, si è detto, i Romani pongono la res, volendo con ciò significare che all’astrazione universalizzante preferiscono la concretezza del contingente, al mito la storia.
Mentre, per esempio, i Greci rappresentavano le loro vittorie su altre nazioni ricorrendo a temi mitici – amazzonomachie, centauromachie, gigantomachie – i Romani fanno del rilievo storico (e prima ancora della pittura di storia), uno degli strumenti comunicativi più efficaci, reso tale anche dall’esattezza documentaria con cui sono fissati particolari eventi di interesse pubblico, tanto civile che militare. A parte qualche rara testimonianza nell’arte greca (per esempio il cosiddetto sarcofago di Alessandro, dove però le scene hanno un significato più simbolico che propriamente storico) il rilievo storico si può considerare un genere autenticamente romano. E tuttavia le prime significative testimonianze che ne abbiamo (il monumento di Emilio Paolo a Delfi e la cosiddetta Ara di Domizio Enobarbo a Roma) sono certamente dovute ad artisti greci. Greci sono anche gli artisti che eseguono i rilievi dell’Ara Pacis e forse greco-orientale (Apollodoro di Damasco?) è perfino l’artista che ha concepito lo straordinario rilievo della Colonna Traiana, che Bianchi Bandinelli considera la perfetta fusione tra forma ellenistica e tradizione artistica medioitalica e l’esempio di “una forma artistica nuova, che possiamo dire interamente romana”.
Un discorso analogo va fatto per il ritratto, un altro genere in cui l’arte romana si esprime con accenti sicuramente originali. Nonostante la tradizione indigena patrizia di conservare le maschere funerarie dei propri familiari e di farle sfilare nei funerali, è ormai generale convinzione che il ritratto veristico romano non sarebbe mai diventato una forma d’arte senza l’apporto degli artisti greci, che a partire dalla fine del II secolo a.C., a Delo e a Roma stessa, lavorano per i committenti romani. Il paradosso – vincente – dell’arte romana consiste proprio in questo: nel riuscire a far esprimere ad altri (i Greci) i propri valori più autentici, e a farli assumere da altri (le popolazioni dell’impero) come se fossero propri. Nel corso del tempo la forma greca diviene poco più che un involucro esteriore, estenuato da una infinita routine, ma continua comunque a essere il veicolo per trasmettere una visione del mondo che, concepita inizialmente nel centro del potere, tiene insieme per secoli – con la forza delle armi, la certezza del diritto, l’attrazione del comfort di uno stile di vita civilizzato – un organismo che va dall’Oceano Atlantico alla Mesopotamia, dalla Britannia al Sahara.
A controbilanciare l’impoverirsi progressivo della forma sta, per usare ancora una volta le parole di Bianchi Bandinelli, “l’infinita ricchezza dei motivi ornamentali, descrittivi, celebrativi, una favolosa esperienza tecnica perpetuatasi attraverso generazioni di artigiani”. La solidità di questa tradizione formale, garanzia di intelligibilità universale, comincia a incrinarsi verso la fine del II secolo, quando nell’arte ufficiale (per esempio nella Colonna di Marco Aurelio) si osserva il distacco dal naturalismo di tradizione ellenistica e, parallelamente, la comparsa di elementi irrazionali, metafisici, spiritualistici. L’allontanamento dalla koiné formale si accentua nel secolo successivo, e nel IV secolo, che si apre a Roma con l’erezione dell’Arco di Costantino, la nuova forma tardoantica è ormai pronta ad aprire la via all’arte paleocristiana e medievale. Ma proprio l’Arco di Costantino ci può offrire un paradigma significativo della vicenda dell’arte romana. La sua decorazione ingloba, come è noto, parti provenienti da monumenti di Traiano, Adriano, Marco Aurelio. Si è parlato di fretta nella costruzione, di assenza in Roma di artisti di buon livello (sarebbero stati tutti mandati a Costantinopoli), ma non si è tenuto conto che a essere utilizzati nella nuova costruzione sono monumenti eretti dagli imperatori più venerati dopo Augusto, il cui esempio viene lodato proprio nei panegirici di Costantino. È chiaro allora che, come il nuovo potere politico si pretende erede di quello del passato (nelle sue espressioni migliori), così il nuovo linguaggio artistico non si sente estraneo alla tradizione, se ne appropria nel senso di una continuità che noi possiamo faticare a cogliere ma che doveva apparire evidente (e scontata) ai contemporanei. La coesistenza nello stesso monumento di codici comunicativi ben collaudati garantisce la validità dei nuovi. La fedeltà a ciò che ha dato eccellente prova di sé nel passato (a cominciare dall’arte greca) è una delle possibili chiavi di lettura dell’arte romana, e certo non il più piccolo dei suoi meriti di fronte alla cultura dell’Occidente alla quale apparteniamo.