INVARIANTE
Concetto matematico generale, legato a quello di trasformazione e presentatosi spontaneamente sia negli sviluppi teorici della geometria e dell'analisi, sia nelle applicazioni alle scienze sperimentali. Per darne una prima idea, per quanto inevitabilmente non bene determinata, si può dire che d'un qualsiasi ente geometrico o analitico o fisico, si chiama invariante di fronte ad una data trasformazione ogni carattere quantitativo (numerico o funzionale), che si conservi inalterato, quando codesto ente si assoggetti alla trasformazione considerata. Così, per ricordare qualche esempio geometrico fra i più semplici, è invariante rispetto a un qualsiasi movimento (rigido) la distanza di due punti, come pure, per una qualsivoglia curva, la flessione in ogni suo punto (v. curvatura); rispetto a ogni proiettività è invariante il birapporto di ogni quaderna di punti allineati; per le curve algebriche è invariante rispetto a ogni proiettività l'ordine, rispetto a ogni trasformazione birazionale il genere (v. curve, n. 6), ecc. E, passando alla meccanica, nel moto d'un qualsiasi sistema materiale, concepito come isolato dal resto dell'universo, è invariante l'energia totale, e così si dica, se ci si limita allo schema classico (cioè si prescinde dalla correzione relativistica), della massa; nel moto d'un fluido incompressibile è invariante il volume di ogni porzione del fluido considerato, e così via. Si tratta dunque d'un concetto implicito in molti ordini di questioni, ma solo nel secolo scorso esso ha ricevuto una formulazione matematica precisa e ha assunto un ufficio fondamentale in svariati indirizzi.
1. In forma esplicita e come carattere classificatore, il concetto di invariante si è presentato la prima volta nelle ricerche aritmetiche di G. L. Lagrange (1773) e di K. F. Gauss (1801) sull'analisi indeterminata di 2° grado, e più precisamente nel problema di equivalenza delle forme quadratiche a coefficienti interi, cioè delle espressioni del tipo ax2 + 2bxy + cy2, dove a, b, c denotano numeri interi relativi dati. Si tratta di determinare le condizioni necessarie e sufficienti, affinché due forme siffatte si possano trasformare l'una nell'altra con una sostituzione lineare omogenea a coefficienti interi e unimodulare, cioè sostituendo alle due variabili x, y rispettivamente due espressioni ax + βy, γx + δy, dove α, β, γ, δ sono interi relativi, assoggettati alla sola condizione che il modulo αδ − βγ della sostituzione. sia uguale ± 1. È evidente che, con una tale sostituzione, da una forma ax2 + 2 bxy + cy2 si passa a una nuova forma analoga a′x2 + b′xy + c′y2 = dove a′, b′, c′ sono esprimibili razionalmente per mezzo di a, b, c e di α, β, γ, δ; ma è pur facile riconoscere che il discriminante (o, secondo il Gauss, determinante) b2 − ac della forma si conserva inalterato, cioè sussiste l'identità b2 − ac = b′2 − a′ c′. Codesto discriminante è dunque un invariante della forma rispetto a ogni sostituzione del tipo considerato; ed è sulla considerazione di questo invariante che si fonda la classificazione delle forme equivalenti, in quanto due forme equivalenti hanno lo stesso invariante, e, viceversa, tutte le forme aventi lo stesso invariante si ripartiscono in un numero finito di classi di forme fra loro equivalenti (v. aritmetica: Aritmetica superiore).
Ma quella che ancora oggi si chiama, per antonomasia, la "teoria degli invarianti" ha avuto origine, intorno alla metà del secolo scorso, dagli sviluppi della geometria proiettiva (J. V. Poncelet, M. Chasles, A. F. Mökbius, J. Plücker, J. Steiner) e dalla necessità di tradurre in forma analitica le proprietà proiettive degli enti algebrici (v. Geometria, n. 18). Ove per i punti della retta o del piano o dello spazio, ecc., si adottino coordinate omogenee (v. coordinate, n. 20), ogni proiettività risulta rappresentata da una sostituzione lineare omogenea, rispettivamente a 2 o 3 o 4... variabili e a modulo diverso da zero se la proiettività non è degenere (v. determinanti, n. 5; geometria, n. 26); mentre, d'altro canto, ogni ente algebrico (gruppo d'un numero finito di punti, curva piana o sghemba, superficie, ecc.) vien definito da una o più equazioni algebriche omogenee, cioè ottenute ciascuna uguagliando a zero una forma algebrica. Così, per l'ente algebrico considerato, i caratteri e le proprietà di natura proiettiva si traducono in quei caratteri e in quelle proprietà delle corrispondenti forme, che non si alterano per effetto d'una qualsiasi sostituzione lineare (a modulo non nullo) sulle variabili. Orbene, considerando per semplicità il caso di un'unica forma f, si ha che per effetto d'una tale sostituzione si passa a una nuova forma f′ (dello stesso ordine); e fra i coefficenti a0, a1,... di f e i corrispondenti coefficienti a0′, a1′, ... di f′ risulta definita una trasformazione razionale e univocamente invertibile, e quindi birazionale, che dipende dai coefficienti della sostituzione lineare considerata. Si dice invariante della forma f ogni funzione razionale F(a0, a1, ...) dei rispettivi coefficienti, che, quando su questi si eseguisca la trasfomiazione or ora definita, si riproduca tale e quale o anche, più in generale, si conservi inalterata a meno d'un moltiplicatore M, cioè renda soddisfatta una identità del tipo
sotto la condizione essenziale che il moltiplicatore M dipenda esclusivamente dai coefficienti della sostituzione lineare. Secondo che si verifica la prima o la seconda di queste due eventualità (cioè secondo che nella (1) è M = 1 o M ≠ 1), l'invariante F si dice assoluto o relativo, e in questa seconda ipotesi si dimostra che il moltiplicatore M si riduce necessariamente a una potenza Dr del modulo D della sostituzione, il cui esponente r, naturalmente diverso da zero, si chiama il peso dell'invariante relativo. Queste stesse definizioni si estendono ovviamente al caso in cui, anziché un'unica forma, si consideri un sistema di forme (invarianti simultanei), ed è manifesto che in ogni caso un qualsiasi invariante relativo, uguagliato a zero, traduce una proprietà proiettiva dell'ente algebrico, mentre un invariante assoluto, già per sé stesso, ne rispecchia un carattere proiettivo.
Ma quando si passa a invertire le considerazioni precedenti, si riconosce che non ogni proprietà proiettiva di un ente algebrico è esprimibile per mezzo dei soli invarianti, bensì occorrono anche i covarianti, designandosi con tal nome quelle funzioni che dipendono razionalmente non solo dai coefficienti delle forme, bensì anche dalle variabili e godono (rispetto a ogni sostituzione lineare sulle variabili e alla corrispondente trasformazione birazionale sui coefficienti) della proprietà d'invarianza (assoluta o relativa) analoga a quella poc'anzi chiarita. Un covariante, uguagliato a zero, definisce un nuovo ente algebrico, che sta con quello dato in relazione invariantiva (cioè, geometricamente, inalterabile per proiettività), e, quando a esprimere una proprietà proiettiva non bastano gl'invarianti, basta aggiungere l'annullamento identico di qualche covariante.
Nel caso di più di due variabili, cioè nel piano o nello spazio, ecc., si è condotti ad altre funzioni invariantive, quando, come inevitabilmente accade in molti problemi geometrici, si associano alle variabili xi, interpretate come coordinate di punto, le corrispondenti variabili duali ui (di retta nel piano, di piano nello spazio, ecc.; v. coordinate, n. 20). Una sostituzione lineare sulle xi induce sulle ui un'altra sostituzione lineare ("trasposta dell'inversa"), la quale, rispetto alla data, si può caratterizzare mediante la condizione che, sotto l'azione simultanea delle due sostituzioni, si conservi invariante la forma (bilineare unitaria) u1x1 + u2x2 + ... Per questo loro comportamento le variabili ui si dicono contragredienti alle xi; e si chiama contravariante d'una forma o d'un sistema di forme ogni funzione razionale, che, implicando coi coefficienti delle forme le variabili ui, goda della solita proprietà di invarianza. Infine si considerano anche funzioni invariantive miste, cioè dipendenti, oltre che dai coefficienti delle forme, dalle variabili xi e, insieme, dalle ui.
Sulla teoria invariantiva delle forme algebriche, iniziata dalla scuola inglese (A. Cavley, J. Sylvester, G. Salmon) e successivamente completata e sistematizzata in Germania (S. Aronhold, A. Clebsch, P. Gordan), non senza notevoli contributi di matematici italiani (F. Faà di Bruno, F. Brioschi, E. D'Ovidio, A. Capelli, E. Pascal), si troveranno più precise notizie sotto la voce algebra, nn. 60-70. Qui basterà ricordare, come fondamentali in questa teoria, i due problemi generali della base e dell'equivalenza. Il primo trae la sua origine dal fatto (P. Gordan, 1868; D. Hilbert, 1890) che le infinite funzioni invariantive inerenti a una data forma algebrica (o a un dato sistema di forme) sono tutte esprimibili razionalmente per mezzo d' un numero finito di esse, che diconsi costituire una base; e il problema sta appunto nella determinazione di questa base. Invece il problema dell'equivalenza, consiste, analogamente al caso aritmetico considerato dapprincipio, nella ricerca delle condizioni necessarie e sufficienti affinché due forme o due sistemi di forme siano trasformabili l'uno nell'altro mediante sostituzioni lineari (equivalenza proiettiva dei corrispondenti enti algebrici); e si è riconosciuto che tali condizioni si esprimono (oltre che con ovvie uguaglianze di ordine e di dimensione) identificando fra loro i corrispondenti invarianti e a zero i covarianti (P. Gram, 1874).
2. Una estensione naturale del concetto d'invariante, quale si è presentato nella geometria proiettiva, s'incontra nella geometria algebrica, in cui si studiano gli enti algebrici (curve, superficie, ecc.) di fronte a trasformazioni birazionali quali si vogliano (v. geometria, n. 34). Qui si incontrano particolarmente caratteri numerici invarianti, essenzialmente interi, come il genere delle curve (B. Riemann, A. Clebsch), i generi lineari e superficiali e i plurigeneri delle superficie (A. Clebsch, M. Nöther, F. Enriques), ecc., e invarianti, pur essi numerici, ma suscettibili di ogni possibile valore nel continuo, cui si dà di solito il nome di moduli (v. curve, n. 7). Ma conviene distinguere gl'invarianti dell'ente algebrico di fronte alle trasformazioni cremoniane o birazionali del piano o dello spazio, ecc., cui esso appartiene, dagl'invarianti rispetto alle più generali trasformazioni birazionali dell'ente per sé stesso. Così, p. es., a una curva piana algebrica di ordine n, considerata in sé stessa, appartiene un solo carattere invariante, cioè il genere, mentre, rispetto alle trasformazioni cremoniane del suo piano, essa possiede più caratteri invarianti, cioè, oltre al genere, che si può definire come il numero delle cosiddette curve aggiunte d'ordine n-3 (v. curve, n. 7), linearmente indipendenti, anche l'analogo numero delle curve d'ordine n-6, aggiunte delle aggiunte, e così via.
Anche in questo campo, accanto agl'invarianti, si presentano covarianti. Così, di fronte alle trasformazioni cremoniane del piano, sono covarianti di una curva algebrica piana di ordine n le rispettive curve aggiunte di ordine n-3 (S. Kantor, G. Castelnuovo), mentre rispetto alle trasformazioni della curva si può considerare come covariante soltanto la serie canonica (di gruppi di punti), segata su di essa da codeste aggiunte (e sono pur covarianti i corrispondenti integrali abeliani).
3. Sotto altro aspetto il concetto d'invariante si è presentato nella geometria intrinseca delle superficie, fondata dal Gauss nelle sue Disquisitiones generales circa superficies curvas (1828). Si tratta dello studio di quelle proprietà d'una superficie σ, che si mantengono inalterate, quando essa si deformi, come se fosse realizzata da un tessuto flessibile e inestendibile. Per tradurre il problema in forma analitica si adotti sulla σ un sistema di coordinate curvilinee u, v (v. coordinate, n. 25). Il quadrato ds2 della distanza, sulla superficie stessa, di due suoi punti infinitamente vicini (u, v) e (u + du, v + dv) risulta espresso da una fotma differenziale quadratica (sempre positiva)
dove E, F, G sono funzioni determinate di u, v; e questo elemento lineare ds basta da solo a caratterizzare tutte le proprietà intrinseche della superficie. Poiché d'altra parte è indifferente la scelta delle coordinate curvilinee u, v, la geometria intrinseca della σ si traduce nella teoria invariantiva della forma quadratica differenziale (2) di fronte a tutti i possibili cambiamenti di eoordinate u′ = u′ (u, v), v′ = v′ (u, v), non più soltanto lineari, ma di natura qualsiasi. Ognuno di questi cambiamenti subordina iina certa trasformazione sui coefficienti E, F, G della forma (2); e si dice invariante ogni funzione di questi coefficienti e delle loro derivate (fino a un qualsiasi ordine), che, sotto l'azione della trasformazione del tipo or ora indicato si riproduca inalterata, a meno d'un eventuale moltiplicatore, dipendente dal cambiamento di parametri u, v considerato. Si tratta qui d'invarianti differenziali, cioè inerenti non a punti isolati, ma a gruppi di punti infinitamente vicini, o, meglio, a elementi di contatto dei varî ordini possibili (v. equazioni, nn. 28-30; gruppo, n. 22; trasformazione: Trasformazioni di contatto); e fra questi invarianti differenziali è fondamentale, in quanto ogni altro è esprimibile per mezzo di esso e delle sue derivate, quello cui si dà il nome di curvatura gaussiana (v. curvatura).
La geometria intrinseca delle superficie, traverso la critica riemanniana delle ipotesi che stanno a base della geometria (1854), ha avuto la sua più vasta estensione nella geometria dei cosiddetti spazî del Riemann, cioè di quegli spazî curvi a quante si vogliano dimensioni, in cui, valendo nell'infinitesimo il teorema di Pitagora, il quadrato della distanza di due punti infinitamente vicini è dato da una forma quadratica nei differenziali delle coordinate adottate. La geometria intrinseca di questi spazî si traduce nella teoria invariantiva di codesta forma differenziale di fronte a tutti i possibili cambiamenti di coordinate. Questa teoria invariantiva, stabilita nei suoi tratti essenziali dallo stesso Riemann e sviluppata ulteriormente da E. Beltrami (1868), E. B. Christoffel (1869), R. Lipschitz (1869-1877), ha trovato il suo algoritmo generale nel calcolo differenziale assoluto di G. Ricci-Curbastro (1884-1892), chiarito nella sua essenza geometrica da T. Levi-Civita (1918), grazie al cosiddetto trasporto per parallelismo (v. differenziale assoluto, calcolo).
4. Dagli esempî dianzi considerati - geometria proiettiva, geometria algebrica e geometria degli spazî del Riemann - si rileva come in ciascuno di essi il concetto d'invariante sia relativo a un certo gruppo continuo di trasformazioni. Più in generale, dato un qualsiasi gruppo continuo di trasformazioni, vi è luogo a considerare la corrispondente teoria invariantiva, in relazione con le vedute di F. Klein, per cui ogni indirizzo geometrico si può caratterizzare come indagine di quelle proprietà degli enti geometrici, che si conservano inalterate di fronte alle trasformazioni d'un dato gruppo (v. geometria, n. 31, klein). La teoria invariantiva dei gruppi continui, finiti e infiniti, di trasformazioni puntuali e di contatto è stata sviluppata da S. Lie (v. gruppo, nn. 22, 27), il quale ha, in particolare, stabilito per gl'invarianti differenziali di un qualsiasi gruppo continuo il teorema della base e risolto il problema generale della equivalenza, ripreso più tardi e approfondito da E. Cartan, come applicazione della sua teoria della struttura dei gruppi continui e del suo metodo del riferimento variabile (v. intrinseca, geometria). E il calcolo e le proprietà degl'invarianti differenziali forniscono il fondamento comune di tutte le teorie di riduzione, classificazione e integrazione delle equazioni differenziali, dovute allo stesso Lie o legate alle sue vedute (G. Halphen, G. Darboux, E. Picard, E. Vessiot, E. Cartan, J. Drach).
Rispetto a un qualsiasi gruppo continuo di trasformazioni, si possono definire, accanto agl'invarianti differenziali, quelli integrali. Si tratta di quegl'integrali curvilinei o superficiali o a quante si vogliano dimensioni, che godono della proprietà d'invarianza rispetto al gruppo, comunque si scelga nello spazio, in cui questo opera, la varietà (linea, superficie, ecc.), cui l'integrale va esteso. Tipico, fra questi invarianti integrali, è l'esempio, già accennato dapprincipio, del volume di fronte al gruppo continuo infinito delle trasformazioni equivalenti (moti d'un fluido incompressibile). Un invariante integrale, nel senso generale or ora chiarito, si dice assoluto, mentre si chiama relativo ogni invariante integrale che conservi la proprietà d'invarianza soltanto quando sia esteso a varietà (linee, superficie, ecc.) topologicamente chiuse. Ma questa distinzione è, in un certo senso, inessenziale, in quanto ogni invariante integrale relativo, in forza di classici teoremi (teorema dello Stokes e sue generalizzazioni), è sempre trasformabile in un integrale assoluto, esteso a una varietà avente per contorno la varietà chiusa, cui va esteso l'invariante relativo (H. Poincaré, 1890).
5. Il concetto d'invariante, oltre che nella geometria e nell'analisi, ha trovato svariate e importanti applicazioni nella meccanica e nella fisica. La corrente d'idee, che, movendo dalla fisica matematica classica ha condotto alla teoria della relatività, costituisce, in qualche modo, un processo di geometrizzazione dei fenomeni dell'universo in una varietà quadridimensionale, in cui il tempo assume l'ufficio di una quarta dimensione, talché gli sviluppi teorici della fisica, rientrando anch'essi nello schema generale, già accennato, del Klein, son venuti sempre più ispirandosi a vedute gruppali, con la tendenza ad assestarsi in teorie invariantive (v., p. es., F. Klein, Vorlesungen über die Entwicklung der Mathematik im 19. Jahrhundert, II, Berlino 1927).
Ma nel campo della meccanica analitica la nozione d'invariante si è introdotta anche sotto un aspetto diverso da quello gruppale considerato sin qui. In un qualsiasi problema dinamico, retto, secondo l'impostazione classica, da un sistema normale di equazioni differenziali, che si possono supporre ridotte alla forma hamiltoniana, si chiama invariante o integrale (v. integrale primo) ogni funzione dei parametri determinativi dell'atto di moto del sistema (coordinate posizionali, velocità lagrangiane o momenti, ed, eventualmente, tempo), la quale, in ognuno dei moti possibili per il sistema conservi un valore costante (che, beninteso, varia in generale col moto particolare considerato). Si tratta dunque d'invarianza rispetto al moto, il quale si può sempre considerare come un insieme ordinato e continuo di trasformazioni, ma non ha in generale carattere di gruppo. In questo stesso senso esteso sono stati introdotti da H. Poincaré nella meccanica celeste anche gl'invarianti integrali, la cui teoria è stata sviluppata sistematicamente da E. Goursat e ha ricevuto importanti contributi algoritmici e concettuali da E. Cartan (Lefons sur les invariants intégraux, Parigi 1922).
Un'ulteriore estensione del concetto d'invariante si ha, in questo stesso ordine di idee, nei cosiddetti invarianti adiabatici, introdotti nella fisica atomica da P. Ehrenfest (1917) e applicati con brillanti risultati nel medesimo campo da A. Sommerfeld, J. M. Burgers, P. Epstein. Una teoria sistematica fu stabilita da T. Levi-Civita (1927), il quale ne ha pur dato interessanti applicazioni a problemi di meccanica celeste. Per definire questo nuovo tipo d'invarianti meccanici si consideri un qualsiasi problema dinamico, relativo a un sistema, in cui certi parametri determinativi della struttura geometrica e materiale variino in modo estremamente lento; p. es. si pensino le piccole oscillazioni di un pendolo di lunghezza variabile lentissimamente o il moto kepleriano di corpi celesti, la cui massa decresca o aumenti in modo lentissimo per effetto d'irraggiamento di energia o di pioggia di materia cosmica. In tutti questi casi, si chiama invariante adiabatico ogni entità inerente al dato sistema, che, durante lo svolgimento del fenomeno, si mantenga sensibilmente inalterata (cioè subisca variazioni, che risultino trascurabili rispetto a quelle lentissime dei parametri determinativi del sistema). In ciascuno dei due esempî schematici dianzi indicati si ha effettivamente un invariante adiabatico: nel caso delle piccole oscillazioni del pendolo di lunghezza variabile lentissimamente esso è dato dal rapporto dell'energia alla frequenza; nel caso del moto kepleriano di masse variabili con estrema lentezza si ha un invariante adiabatico nel prodotto della massa per il semiasse maggiore dell'orbita (e quindi, in base all'invarianza rigorosa della costante delle aree, nell'eccentricità).
Bibl.: Oltre le opere citate nelle bibliografie delle voci algebra, n. 70; differenziale assoluto, calcolo; gruppo; intrinseca, geometria, W. Fr. Meyer, Invariantentheorie, in Encykl. der math. Wiss., I B 2, Lipsia 1898-1904; R. Weitzenböck, Neuere Arbeiten der algebraischen Invariantentheorie. Differentialinvarianten, ibid., III E 1, 1921; L. Berwald, Differentialinvarianten in der Geometrie. Riemannsche Mannigfaltigkeiten und ihre Verallgemeinerungen, ibid., III D xi, 1923.