Invecchiamento delle cellule e dell’individuo
L’invecchiamento è causato dal progressivo accumulo di danni nel tempo, fino al punto da compromettere le funzioni vitali dell’organismo. Questo processo non è ineludibile, in linea di principio, perché un essere vivente è un sistema aperto, potenzialmente capace di sostituire i suoi componenti danneggiati. Il progressivo deteriorarsi di (quasi tutti) gli organismi è dovuto principalmente al fatto che l’individuo deve ottimizzare l’allocazione delle risorse tra tre attività principali: a) sopravvivere a fronte di nemici naturali e di avverse condizioni ambientali, b) riprodursi e c) riparare i danni ai suoi componenti. Dal punto di vista evolutivo, quanto più un animale ha elevata probabilità di morire per cause estrinseche, tanto minore è il numero di mutazioni (il cui unico effetto è di aumentare la sua fitness in età avanzata) che hanno la possibilità di essere selezionate a favore. Questo perché tali mutazioni agiscono solo su una percentuale minima della popolazione (quei pochi individui che sono riusciti a sopravvivere fino a tarda età). Sono quindi meno longevi quegli animali che hanno più nemici naturali o minore accesso al cibo. Sono invece favoriti dall’evoluzione, e contribuiscono a determinare la senescenza, quei geni e quei meccanismi che promuovono la sopravvivenza in età giovanile anche a costo di diminuire la funzionalità dell’individuo nel periodo postriproduttivo. Per es., l’eliminazione delle cellule con mutazioni nel patrimonio genico è una funzione che contribuisce a favorire la sopravvivenza in età giovanile facendo diminuire l’insorgenza di tumori, ma che con il tempo può causare disfunzioni in vari organi. Tra i vari meccanismi che possono generare danni ai componenti cellulari, particolare rilevanza sembra avere la produzione di radicali liberi, molecole fortemente reattive in grado di modificare in modo covalente lipidi, DNA (DeoxyriboNucleic Acid)/RNA (RiboNucleic Acid) e proteine. La formazione di ROS (Reactive Oxygen Species) è l’inevitabile conseguenza della fosforilazione ossidativa, cioè della produzione di ATP (Adenosine TriPhosphate) a livello mitocondriale, e specifici enzimi sono presenti nelle cellule, e in particolare nei mitocondri, per la rimozione dei ROS. Uno dei principali regolatori della produzione di ROS è il metabolismo, e l’unico intervento conosciuto per aumentare l’aspettativa di vita in animali da esperimento (e forse anche nell’uomo) è la restrizione calorica. L’aspettativa di vita può essere aumentata da mutazioni di geni che regolano le funzioni endocrine e agiscono sugli stessi circuiti che governano l’omeostasi energetica.
Invecchiamento e senescenza
L’invecchiamento è un fenomeno universale che si osserva in tutti (o quasi) gli organismi viventi, e in parte assomiglia al deterioramento degli oggetti inanimati. In senso stretto si definisce invecchiamento il cambiamento, nel tempo, delle caratteristiche funzionali di un organismo; con il termine senescenza s’intende quel sottoinsieme di cambiamenti che hanno un effetto negativo. Nell’accezione comune però i due termini sono intercambiabili, e come tali saranno utilizzati in questo saggio.
In biologia vi sono almeno due diversi modi per descrivere l’invecchiamento. Una prima definizione evidenzia il decadimento di una serie di funzioni fisiologiche dell’individuo, generalmente accompagnato da numerosi cambiamenti fenotipici così stereotipati che permettono a ognuno di noi di distinguere a vista un individuo vecchio da uno giovane (almeno per quanto riguarda i mammiferi). Una seconda definizione, di tipo statistico, definisce l’invecchiamento come quel fenomeno per cui la probabilità di morire, in una popolazione di individui coetanei, aumenta improvvisamente in un piccolo intervallo di tempo. Questo aumento di mortalità si osserva quando siano assenti cause estrinseche di morte, come la predazione o la mancanza di cibo, e si manifesta a una distanza temporale dalla nascita che è caratteristica di ogni specie. Se la probabilità di morte per una determinata popolazione fosse costante, cioè indipendente dal tempo, come generalmente si osserva quando è alta la mortalità per cause estrinseche all’individuo, si osserverebbe un decadimento di tipo esponenziale nel numero di individui che sopravvivono in funzione del tempo, come mostrato dalla linea rossa nella figura 1. L’invecchiamento è invece descritto dalla linea gialla, e corrisponde alla flessione della curva verso il basso quando la probabilità di morire per cause intrinseche all’individuo aumenta in modo considerevole e in un piccolo lasso di tempo.
È importante notare che nonostante la senescenza sia un fenomeno così pervasivo da essere considerato inevitabile, in realtà esso non è una caratteristica a priori necessaria degli organismi viventi. A differenza di un oggetto inanimato, che non ha capacità di ripararsi, gli organismi viventi sono sistemi aperti, dinamici, attraverso cui passa di continuo un flusso di nutrienti e quindi sono potenzialmente in grado di riparare le parti danneggiate. In effetti, il catabolismo di vecchi componenti e la sintesi di nuovi sono processi sempre presenti nell’individuo e, in un lasso di tempo di sette anni, un essere umano ha rinnovato circa il 90% del materiale di cui è composto. L’analogia che viene spesso fatta è quella con uno zampillo d’acqua, che può mantenere approssimativamente la sua forma e la sua funzione anche se le molecole che lo compongono sono sempre differenti. È stato osservato come sia stupefacente che un organismo pluricellulare in grado di eseguire programmi complessi come quelli che portano al differenziamento e alla morfogenesi abbia poi difficoltà nel preservare strutture e funzioni ormai formate. Il fatto che gli organismi viventi abbiano potenzialmente la capacità di mantenersi giovani per sempre è dimostrato dall’idra, un piccolo celenterato caratterizzato da una elevata capacità rigenerativa, considerato da alcuni immune da invecchiamento e quindi biologicamente immortale (Martinez 1998). Escludendo quest’unica, putativa, eccezione, se la senescenza è una condizione così generale ciò significa che vi deve essere un motivo perché gli organismi viventi sono soggetti a invecchiamento.
In biologia, la spiegazione di un fenomeno è sempre, in ultima analisi, una spiegazione di carattere evolutivo. Quindi la domanda «perché tutti gli animali invecchiano?» può essere riformulata come «quali sono i meccanismi evolutivi che impongono a tutte le specie animali il comune comportamento di invecchiare, seppure con caratteristiche diverse da specie a specie (e quindi potenzialmente attraverso modi differenti)?». Al riguardo vi sono due teorie, entrambe supportate da una serie di argomentazioni e da evidenze sperimentali. La prima sostiene che la senescenza è un programma biologico – così come lo sono, per es., il differenziamento e la morfogenesi – che è stato selezionato per i suoi vantaggi. Il fatto che l’invecchiamento si presenti con tratti fenotipici stereotipati, che la durata massima della vita sia caratteristica di ciascuna specie e che esistano singole mutazioni in grado di aumentare la durata della vita (come ampiamente dimostrato in modelli animali utilizzati per lo studio dell’invecchiamento) sono forti suggestioni a favore di un ‘programma’ di invecchiamento. Dato che l’invecchiamento ha un ovvio effetto negativo sull’individuo e diminuisce la sua capacità di sopravvivere, ne consegue che, se la senescenza è dovuta a un programma genico, questo deve rappresentare un vantaggio per la specie. Da questo punto di vista quindi l’invecchiamento sarebbe programmato e altruistico (Longo, Mitteldorf, Skulachev 2005), nel senso che l’aumentata mortalità dell’individuo incrementerebbe la sopravvivenza della popolazione. Una possibile funzione di un programma di senescenza consisterebbe nel fatto di evitare che si crei una condizione di sovrappopolazione in cui individui della stessa specie competono per un numero insufficiente di risorse. Nello stesso tempo la senescenza programmata permetterebbe il ricambio generazionale, dando a nuovi individui la possibilità di sostituire quelli già esistenti. I nuovi organismi avrebbero per la maggior parte lo stesso patrimonio genico degli individui eliminati dalla senescenza, a parte piccole mutazioni casuali e, nel caso di riproduzione sessuata, nuove combinazioni di alleli. Questo permetterebbe la formazione di un bacino di genotipi lievemente diversi tra loro, alcuni dei quali sarebbero potenzialmente più adatti alle condizioni ambientali presenti o in grado maggiormente di sopravvivere a condizioni ambientali variate.
Un esempio di senescenza programmata è fornito dal ciclo riproduttivo del salmone. Questo pesce, che vive gran parte della sua esistenza in mare, al momento della riproduzione risale la corrente di un fiume per andare a deporre le uova in acqua dolce. In breve tempo, dopo la riproduzione, il salmone adulto invecchia e muore. Anche se si è ipotizzato che la morte dipende dall’eccessivo dispendio energetico necessario per risalire la corrente del fiume, la senescenza si osserva indipendentemente dalla lunghezza del fiume e dalla forza della corrente e, soprattutto, la rimozione delle gonadi o delle ghiandole adrenali previene la morte del salmone. Questo suggerisce l’esistenza di un programma di senescenza regolato a livello ormonale.
Vi sono però due principali obiezioni alla teoria dell’invecchiamento come programma genico. La prima è dovuta al fatto che, quando una caratteristica biologica deriva da un comportamento altruistico, generalmente si osserva la presenza di cheaters (dall’ingl. to cheat «imbrogliare»), individui che, sovvertendo le regole, fruiscono dei vantaggi del comportamento altruistico degli altri senza pagarne il costo. In altre parole si dovrebbe osservare all’interno di ogni specie (cosa che invece non succede) la presenza di esemplari in cui il programma di senescenza è stato inattivato da una mutazione casuale. Questi individui tenderebbero ad aumentare di numero all’interno della popolazione perché hanno il vantaggio personale di non invecchiare e, nello stesso tempo, hanno gli stessi benefici degli altri individui, dovuti al fatto che la popolazione nel suo insieme va incontro a senescenza. La seconda obiezione è ancora più stringente, e si riferisce al fatto che nella maggioranza delle popolazioni naturali il livello di mortalità per cause estrinseche è tale da assicurare il turnover della popolazione, per cui la necessità della senescenza è dubbia. Inoltre, anche se esistesse un programma specifico per indurre l’invecchiamento, la selezione naturale avrebbe difficoltà a mantenere i geni che controllano tale programma perché essi sarebbero funzionanti solo in una percentuale minima della popolazione. In altre parole, geni che regolano l’invecchiamento giocherebbero un ruolo solo a partire da quel momento del tempo che nella figura 1 è indicato dalla freccia blu, e in quel momento, in condizioni naturali (cioè seguendo il decadimento lungo la linea rossa in figura), solo una minima percentuale della popolazione è ancora in vita. In effetti, è assai probabile che l’invecchiamento derivi dal fatto che la selezione naturale non è in grado di eliminare dal genoma mutazioni svantaggiose che siano espresse solo in tarda età in quanto, per la gran parte della popolazione, fa poca differenza averle o meno, dato che la mortalità da cause estrinseche capita prima che questi geni siano espressi. Tale concetto è alla base della seconda teoria dell’invecchiamento, detta anche del disposable soma, ossia del corpo spendibile. In breve, tale teoria suggerisce che gli organismi investono energia nel mantenimento del corpo e delle funzioni fisiologiche solo per quel tanto che è sufficiente per giungere alla riproduzione.
Nell’ottimizzazione delle risorse tra riproduzione e mantenimento del corpo, occorre tenere conto anche delle cause estrinseche di morte, che in un certo senso fissano un limite oltre il quale non conviene più investire nella sopravvivenza dell’individuo. In accordo con questa visione, generalmente l’aspettativa massima di vita, come la si osserva in condizioni protette, è proporzionale alla durata media della vita in condizioni naturali. Per es., una colonia di topi in condizioni di laboratorio può vivere al massimo circa tre anni, mentre nel suo habitat circa il 90% degli individui muore allo scadere del primo anno. I pipistrelli, che hanno una mortalità per cause estrinseche molto minore, poiché essendo muniti di ali sono molto meno soggetti a predazione, hanno la potenzialità di vivere per decenni pur non essendo dissimili per forma e dimensioni dai topi. Un’ulteriore elaborazione della teoria del disposable soma postula l’esistenza di geni, definiti pleiotropici antagonistici, con la seguente proprietà: la loro espressione in età giovanile porterebbe un vantaggio selettivo (per es., diminuendo la mortalità per cause estrinseche), ma la loro espressione in età avanzata sarebbe dannosa per l’individuo. Per quanto non si conosca un esempio incontrovertibile di gene pleiotropico antagonista (con il quale però alcuni geni soppressori tumorali hanno caratteristiche compatibili), tale ipotesi è suggestiva, in quanto geni di questo tipo sarebbero fortemente favoriti dalla selezione naturale e potrebbero spiegare l’apparente esistenza di un ‘programma’ di senescenza.
La teoria dell’invecchiamento del disposable soma è quella che attualmente gode di maggior consenso, anche perché fa un certo numero di previsioni verificabili (e in gran parte verificate), quali: a) la senescenza dipende dal progressivo accumularsi di danni molecolari e cellulari; b) organismi dotati di maggiore capacità di riparare questi danni o, in altre parole, maggiormente resistenti a stress cellulare sono più longevi; c) non tutte le cellule di un organismo sono ugualmente suscettibili agli agenti tossici o hanno la stessa capacità di riparare i danni (per es., le cellule staminali che risiedono nell’organismo per tutta la durata della sua vita o le cellule della linea germinale, la cui funzione è di trasmettere intatta di generazione in generazione l’informazione genica, devono essere più protette delle cellule del sistema ematopoietico o degli epiteli che hanno un maggiore turnover); d) i meccanismi molecolari dell’invecchiamento sono essenzialmente stocastici, perché stocastica è la produzione di un danno; e) esistono vari tipi di danno e quindi varie modalità di senescenza; f) l’ottimizzazione delle risorse tra riproduzione e riparo per essere realmente efficiente deve essere plastica, nel senso di potersi adattare alle variazioni delle condizioni ambientali che avvengono in un lasso di tempo breve rispetto all’esistenza di un individuo. Questo è un punto particolarmente interessante, perché tra i pochi interventi efficaci nell’estendere la durata della vita e posporre la senescenza vi è, come sarà discusso di seguito, la restrizione calorica, la quale simula sperimentalmente variazioni nella disponibilità di cibo che possono intervenire in tempi rapidi nell’habitat naturale. Un’ultima notazione riguarda il fatto che, anche se la teoria del disposable soma è generalmente accettata, esistono osservazioni sperimentali che non si accordano facilmente con essa. In un recente studio, per es., è stato paragonato l’invecchiamento di due popolazioni di carpe che vivono in due nicchie ecologiche molto differenti in termini di probabilità di morte per cause estrinseche (Reznick, Bryant, Roff et al. 2004). In un caso le carpe vivevano nelle stesse acque dei loro predatori naturali, nel secondo la presenza di cascate escludeva i predatori. Gli animali che vivevano in questo secondo habitat avevano una probabilità di sopravvivere a sei mesi dalla nascita di circa 20-30 volte maggiore rispetto all’altra popolazione. In contrasto con la teoria del disposable soma, gli animali dell’habitat protetto non presentavano una senescenza più tardiva di quella degli animali con più elevata probabilità di morte in età giovanile. Una possibile spiegazione è che non sempre un’elevata mortalità estrinseca porta a un indebolirsi della forza di selezione su fenotipi espressi in tarda età. Per es., un’elevata predazione può portare a una diminuita densità della popolazione, e ciò a sua volta può aumentare le prospettive di sopravvivenza di individui anziani in competizione con individui più giovani. Resta il fatto che la teoria del disposable soma è probabilmente suscettibile di perfezionamento.
L’invecchiamento negli organismi unicellulari
Apparentemente la teoria del disposable soma suggerirebbe che gli organismi unicellulari, in cui non esiste differenza tra linea germinale e soma, dovrebbero essere esenti da senescenza. In realtà, il concetto che sottende a questa teoria, ossia che dal punto di vista evolutivo non è conveniente investire più di una certa aliquota di risorse in meccanismi di riparo dei componenti macromolecolari di una cellula, vale anche per organismi come i lieviti e i batteri. Nel caso di organismi che si dividono asimmetricamente (per es., il lievito Saccharomyces cerevisiae), si è osservato che la cellula madre, quella di dimensioni maggiori da cui gemma la cellula figlia, tende a mantenere macromolecole che hanno un effetto di detrimento nella crescita cellulare. Per es., durante la replicazione del DNA nel lievito si formano circoli di DNA extracromosomico, detti ERC (Extrachromosomal Ribosomal DNA Circles): le sequenze che codificano per l’RNA ribosomiale sono ripetute in tandem nel genoma e, di conseguenza, sono particolarmente soggette a ricombinazione. Al momento della divisione cellulare questi ERC si distribuiscono di preferenza nella cellula madre, e al ripetersi dei cicli di divisione cellulare corrisponde un accumulo di ERC fino a una soglia tossica. Analogamente è stato dimostrato che la distribuzione di proteine ossidate, e quindi non funzionali, è diversa tra cellula madre e cellula figlia, e che tali proteine tendono a essere escluse da quest’ultima. Questo processo di partizione selettiva di componenti macromolecolari danneggiati o tossici fa sì che, a ogni ciclo di divisione cellulare, la cellula figlia passi attraverso un processo di ‘ringiovanimento’ e, nel contempo, la cellula madre vada incontro a invecchiamento, con il risultato finale che ogni cellula può dividersi un numero finito di volte. In questa prospettiva è possibile considerare la cellula madre l’equivalente del soma e la cellula figlia l’equivalente della cellula germinale che è in grado di propagare nel tempo l’informazione genica. Un fenomeno simile è stato osservato persino in casi di divisione cellulare apparentemente simmetrica, come nel batterio Escherichia coli. Anche in condizione di crescita ottimale, in assenza di specifici stress molecolari, si hanno modificazioni chimiche nelle proteine batteriche che portano alla loro parziale denaturazione e alla formazione di aggregati. Questi ultimi si uniscono in strutture specializzate dette inclusion bodies, presenti in numero ridotto, generalmente tra uno e cinque, all’interno dei batteri. Utilizzando proteine fluorescenti e riprese filmate al microscopio, è stato mostrato che in vivo queste strutture si segregano in maniera asimmetrica nelle due cellule risultanti dalla fissione batterica. Mentre a priori si poteva postulare che questa partizione differente avvenisse su base stocastica, si è dimostrato sperimentalmente che questo materiale potenzialmente tossico viene trattenuto di preferenza nella cellula più vecchia (Lindner, Madden, Demarez et al. 2008). Il conteggio delle generazioni per cellule che si dividono morfologicamente in modo simmetrico come Escherichia coli si calcola come segue: il batterio, a forma di bastoncello, si divide con una scissione nel mezzo (fig. 2); a ogni divisione si creano due nuovi poli (indicati in figura con uno 0), mentre il polo preesistente aumenta di un’unità.
Questa osservazione suggerisce l’esistenza di meccanismi attivi per la ridistribuzione di macromolecole tra i due discendenti di un singolo batterio. Un’importante conseguenza di queste considerazioni è la deduzione secondo la quale tra i geni che regolano il programma di senescenza negli organismi unicellulari (e forse non solo in essi) vi saranno non solo quelli che regolano i meccanismi di prevenzione e di riparo del danno biologico, ma anche quelli che regolano la ripartizione non simmetrica dei componenti macromolecolari danneggiati. È forse interessante notare che nell’uomo e nei modelli animali l’espressione di proteine strutturate male è spesso associata a gravi patologie degenerative, come nel caso della proteina parkin associata al morbo di Parkinson, della hungtintina associata al morbo di Hungtinton, della cystic fibrosis transmembrane conductance regulator (CFTR) associata alla fibrosi cistica e altre ancora. Quando l’espressione di queste proteine satura i meccanismi di riparo della cellula, si osserva la formazione di grossi aggregati proteici, simili agli inclusion bodies, chiamati aggresomi. Studi recenti condotti su pazienti affetti da atassia spinocerebellare di tipo 3 (SCA3) hanno dimostrato che nei tessuti polarizzati che vanno incontro a continuo turnover cellulare, per es. l’intestino, vi è una distribuzione asimmetrica di aggresomi durante le mitosi. In particolare, essi tendono a segregare nelle cellule differenziate che hanno una vita media corta e vengono di continuo eliminati, mentre tendono a essere esclusi dalle cellule staminali (Rujano, Bosveld, Salomons et al. 2006).
Un’ultima considerazione riguarda il fatto che aver definito un fenomeno di invecchiamento anche in organismi unicellulari non solo ha favorito lo studio della senescenza su modelli semplici particolarmente agevoli per la sperimentazione con approcci di genetica e di biologia molecolare, ma ha permesso di compiere studi sperimentali sulle problematiche evolutive della senescenza, in considerazione del fatto che il succedersi di generazioni nei batteri si misura in decine di minuti (Ackermann, Schauerte, Stearns, Jenal 2007).
Danno e senescenza cellulare
Se l’invecchiamento è causato da una incompleta riparazione del danno di componenti macromolecolari delle cellule, è importante comprendere quali ne siano le cause principali. La teoria dei radicali liberi, proposta verso la metà del secolo scorso da Denham Harman (Aging. A theory based on free radicals and radiation chemistry, «Journal of gerontology», 1956, 11, pp. 298-300), suggerisce che la senescenza, così come le malattie degenerative a essa collegate, dipenda da modificazioni chimiche causate da composti fortemente reattivi come i radicali liberi, tra i quali i principali sono i ROS (che reagiscono con l’ossigeno) e gli RNS (Reacting Nitrogen Species, che reagiscono con l’azoto). Un primo sostanziale sostegno alla teoria dei radicali liberi è venuto dalla scoperta della superossidodismutasi (SOD): l’esistenza di questo enzima, la cui unica funzione sembra essere l’eliminazione di superossidi, suggerisce infatti che la produzione di queste specie fortemente reattive sia un evento comune nella vita di una cellula. Anche se la teoria dell’invecchiamento dovuto ai radicali liberi è al presente comunemente accettata, molti sono i dettagli da chiarire: in particolare, resta da definire quali siano le relazioni tra metabolismo e produzione di radicali liberi e, soprattutto, quali siano i bersagli intracellulari principali e come il loro danneggiamento finisca con il provocare la senescenza.
Diversi compartimenti cellulari contribuiscono alla produzione di ROS, tra questi la membrana plasmatica, in cui sono presenti enzimi della famiglia delle nicotinammide adenina dinucleotide fosfato (NADPH) ossidasi, organelli quali i perossisomi e anche il citoplasma in cui sono presenti varie attività enzimatiche come le ciclossigenasi. La sorgente principale di ROS è comunque costituita dai mitocondri, organelli specializzati per la produzione di ATP attraverso la fosforilazione ossidativa. Si calcola, infatti, che circa il 90% della produzione dei ROS avvenga a livello mitocondriale. In breve, i mitocondri utilizzano le forme ridotte di due coenzimi, ossia il nicotinammide adenina di-nucleotide (NADH) e la flavin adenina dinucleotide (FADH2), come donatori di elettroni in una reazione di ossidoriduzione che ha per ultimo accettore l’ossigeno. Il trasporto di elettroni lungo una catena di accettori temporanei è accompagnato al pompaggio di ioni H+ al di fuori della membrana interna dei mitocondri attraverso tre grossi complessi multiproteici, i siti I, III e IV (il sito II non è direttamente accoppiato a estromissione di elettroni). Questo processo genera quindi un gradiente di ioni H+ a cavallo della membrana mitocondriale interna, e l’energia potenziale di questo gradiente viene in seguito utilizzata per la produzione di ATP (adenosindifosfato) attraverso la fosforilazione dell’ADP da parte dell’enzima F1-F0 ATPasi. A vari punti della catena di trasporto degli elettroni, questi possono interagire prematuramente con l’ossigeno o altri accettori e generare radicali liberi.
Diversi sono i meccanismi, molti dei quali in gran parte ancora da chiarire, che regolano la produzione di ROS a livello mitocondriale. Mentre in maniera semplicistica si potrebbe pensare che la produzione di ROS sia proporzionale alla respirazione cellulare, in realtà quella che sembra essere la principale causa di formazione di radicali liberi è l’irregolarità del flusso di elettroni attraverso la catena di trasporto. Per es., una situazione di ischemia, con diminuita concentrazione di ossigeno, determina l’accumulo di elettroni liberi a livello dei vari siti e una massiccia produzione di ROS quando il tessuto viene riperfuso. Occorre inoltre ricordare che i ROS non sono semplici prodotti di scarto della fosforilazione ossidativa ma sono anche importanti componenti nella trasduzione del segnale di vari processi cellulari, per es. partecipano alla trasduzione del segnale di fattori di crescita e a quella di vari stimoli mitogenici. I ROS stessi regolano sia l’ingresso degli elettroni nella catena di trasporto mitocondriale, soprattutto a livello del sito I, sia la produzione di enzimi che detossificano le cellule convertendo i radicali liberi in specie non reattive. Questi meccanismi di feedback negativo fanno sì che non sia sempre facile predire l’effetto di un temporaneo aumento di ROS. A volte uno stress ossidativo contenuto può proteggere da un successivo e più massiccio aumento di radicali liberi proprio perché stimola la produzione di attività detossificanti (più in generale, la possibilità che uno stress limitato possa generare una situazione di resistenza allo stesso o ad altri stress attraverso meccanismi di feedback è alla base della teoria, proposta alla fine del 19° sec., dell’ormesi – dal greco ormáo «eccitare» –, la quale dopo un lungo periodo di discredito sta raccogliendo un rinnovato interesse). Enzimi che trasformano ROS in specie meno reattive sono presenti in tutti i compartimenti cellulari e sono concentrati a livello mitocondriale. Per questo le quantità di ROS rilasciate dai mitocondri sono probabilmente solo una piccola percentuale di quelle prodotte, e ogni misura del livello di stress ossidativo presente in una cellula sottostima l’esposizione dei mitocondri ai radicali liberi.
In considerazione del fatto che i mitocondri sono la principale sorgente di ROS, è stato proposto che questi organelli possano essere anche uno dei bersagli principali del danno da radicali liberi nei processi di senescenza cellulare. In particolare, si è ipotizzata l’esistenza di un circolo vizioso per cui il danno ai componenti della catena di trasporto degli elettroni può provocare una maggiore produzione di ROS con conseguente incremento del danno mitocondriale. Come altri organelli cellulari, i mitocondri difettivi sono eliminati dalla cellula attraverso un processo finemente regolato chiamato autofagia. In breve, le strutture da catabolizzare sono riconosciute attraverso meccanismi in gran parte da chiarire, e vengono circondate da una membrana neoformata che poi si fonde con i lisosomi (compartimenti intracellulari ricchi di enzimi proteolitici). I prodotti di degradazione ottenuti dalla digestione enzimatica vengono poi rilasciati dai lisosomi e possono contribuire al metabolismo cellulare. L’autofagia serve anche a eliminare quegli aggregati di proteine malformate che si formano nel caso di varie patologie degenerative e, in questa funzione, collaborano con i proteosomi, organelli specializzati nel catabolismo proteico. È quindi possibile che uno dei meccanismi di tossicità cellulare, nel caso di malattie degenerative che aumentano il carico di proteine malformate, sia la saturazione del sistema di autofagia. Ne conseguirebbe uno stress ossidativo dovuto alla produzione di ROS da mitocondri danneggiati che non vengono eliminati dalla cellula.
Per quanto suggestiva, l’ipotesi del circolo vizioso di danno mitocondriale è controversa, e vi sono dati sperimentali sia a favore sia contro. Un punto importante da chiarire è quale sia il bersaglio molecolare cruciale all’interno dei mitocondri particolarmente sensibile all’azione di ROS. Un’ipotesi sostenuta da molti è che il danno principale sia causato a livello del DNA mitocondriale (mtDNA). In effetti, soprattutto nelle cellule che non si dividono, come per es. i neuroni maturi, la quantità di mtDNA danneggiato è di gran lunga superiore alla quantità di DNA nucleare difettivo. Ciò in parte dipende dal fatto che l’mtDNA non è organizzato sotto forma di cromatina e, di conseguenza, è più esposto a modificazioni chimiche da parte dei radicali liberi. Di recente sono stati creati due differenti ceppi di topi transgenici con mutazioni che riducono la fedeltà di funzionamento della DNA polimerasi gamma (Polg), responsabile della sintesi di mtDNA. Questi animali accumulano mutazioni puntiformi nell’mtDNA con una frequenza superiore anche di cento volte rispetto agli animali normali, e presentano molti sintomi di invecchiamento precoce. Questo dato suggerisce che elevati livelli di mutazioni dell’mtDNA possono indurre senescenza a livello di organismo; non dimostra però che danni all’mtDNA contribuiscono in maniera determinante al naturale processo di invecchiamento. In effetti, animali trans-genici eterozigoti per la mutazione in Polg, pur non avendo un fenotipo di invecchiamento precoce, mo-strano un numero di mutazioni a carico dell’mtDNA circa dieci volte superiore a quello di un normale topo in tarda età. Inoltre il livello di mutazioni a carico dell’mtDNA di un topo di controllo, che quindi ha un invecchiamento normale, supera il livello di mutazioni dell’mtDNA di un uomo anziano. Ciò suggerisce che non esiste una semplice relazione tra danno all’mtDNA e senescenza (Khrapko, Vijg 2007).
Molteplici sono i componenti molecolari della cellula potenzialmente soggetti a danno da parte dei ROS, ed è probabile che la disfunzione di ciascuno di essi possa contribuire alla senescenza cellulare. Il DNA nucleare, comunque, resta un bersaglio putativo per eccellenza, sia perché, a differenza della maggior parte degli altri componenti cellulari, dura per tutta la vita della cellula, sia perché il materiale genico in una cellula diploide è presente solo in due copie, una delle quali è spesso silente. Molte sono le evidenze sperimentali che dimostrano come danni al DNA nucleare aumentino con il passare del tempo, e studi su campioni post mortem di tessuti umani hanno poi messo in relazione come elevati livelli di 8-oxoguanina (il più abbondante prodotto di danno ossidativo al DNA) corrispondano ad alterati livelli di espressione genica (occorre tuttavia una parola di cautela relativa al fatto che la misura del danno ossidativo in campioni post mortem può dare luogo ad artefatti sperimentali). In particolare, uno studio recente (Lu, Pan, Kao et al. 2004) ha messo in evidenza come, nell’uomo, molti geni che codificano per importanti funzioni nel sistema nervoso centrale mostrino una ridotta espressione a partire dai 40 anni in concomitanza con elevati livelli di danno ossidativo nelle sequenze regolatrici dei loro promotori. Considerando i possibili effetti negativi di mutazioni a carico del DNA non sorprende come durante l’evoluzione si siano sviluppati molteplici meccanismi di riparazione di differenti lesioni al DNA (ne consegue che molteplici sindromi di invecchiamento precoce sono imputabili a disfunzioni ereditarie a carico dei geni che codificano per i componenti di questi meccanismi). Esiste, infatti, un complesso network di proteine la cui funzione è di individuare i danni al DNA, attivare i meccanismi di checkpoint per arrestare la progressione nel ciclo di divisione cellulare (in cellule in replicazione) fino a che la lesione non sia stata riparata, attivare i meccanismi di riparazione, segnalare l’avvenuta rimozione del danno e, in caso di mancata eliminazione dello stesso, rimuovere la cellula attraverso l’apoptosi (morte programmata) o indurre un arresto irreversibile del ciclo cellulare (definito senescenza cellulare). Da questo punto di vista, quindi, la senescenza cellulare è il risultato di un programma genetico ben preciso che si suppone sia stato selezionato durante l’evoluzione principalmente per prevenire la crescita dei tumori.
Assumendo che la senescenza cellulare (come pure l’apoptosi) contribuisca in modo determinante all’invecchiamento dell’organismo, assunzione ancora da provare formalmente ma assai probabile, questo processo potrebbe rappresentare un esempio di programma pleiotropico antagonista. Infatti, l’eliminazione della progenie di una cellula con mutazioni nel suo patrimonio genico favorirebbe la sopravvivenza in età giovanile prevenendo l’insorgenza di tumori. Nel contempo, il progressivo accumulo di cellule senescenti porterebbe, con il passare del tempo, a disfunzioni in vari organi e contribuirebbe all’aumentata mortalità in tarda età. Il rapporto tra senescenza cellulare e tumorigenesi è complesso e interessante. La senescenza cellulare – come pure l’apoptosi – può essere indotta non solo da danno al DNA ma anche da quello che è chiamato stress oncogenico. Tale stress è la conseguenza della deregolazione di oncogeni, ossia geni che espressi in modo inappropriato favoriscono la crescita tumorale, generalmente perché forzano la cellula attraverso le varie fasi del ciclo di divisione cellulare. La trasformazione neoplastica può avvenire anche a causa dell’inattivazione di antioncogeni o soppressori tumorali, che sono divisi in due grandi categorie: i caretakers e i gatekeepers. I caretakers proteggono il genoma dall’accumulo di mutazioni e in questo modo, nello stesso tempo, prevengono la trasformazione neoplastica, la senescenza cellulare e l’insorgenza di varie patologie; da questo punto di vista sono quindi geni che favoriscono la longevità dell’individuo. I gatekeepers, putativi geni pleiotropici antagonisti, agiscono invece prevenendo l’espansione clonale di cellule trasformate proprio inducendo i programmi di morte cellulare e senescenza cellulare.
Questa distinzione tra gatekeepers e caretakers non è comunque assoluta: il soppressore tumorale più conosciuto, la proteina p53, la cui funzione è alterata in circa l’80% dei tumori umani, è un fattore di trascrizione attivato da vari stress cellulari e dal danno al DNA che regola l’espressione sia di proteine coinvolte nel riparo (caretakers) sia di quelle coinvolte nell’esecuzione del programma apoptotico o della senescenza cellulare (gatekeepers). È forse interessante notare che vari modelli di topi transgenici con alterata attività di p53 sono stati prodotti con risultati differenti. Topi in cui p53 è attivata impropriamente hanno un fenotipo di invecchiamento precoce; al contrario, topi in cui una copia aggiuntiva di p53 è presente nel genoma, ma in cui la regolazione trascrizionale e postraduzionale di p53 è intatta, sono maggiormente resistenti ai tumori senza avere sintomi di invecchiamento precoce. Ciò suggerisce che, almeno in linea di principio, si può ottenere un vantaggio selettivo in età giovanile senza pagare pegno in età avanzata.
Oltre alla senescenza cellulare indotta da stress oncogenico e da danno al DNA, si può osservare, limitatamente alle cellule umane, un’ulteriore forma di senescenza, che è causata dall’apparente esaurirsi di un potenziale replicativo. In particolare, fin dalla metà del 20° sec. si è osservato che fibroblasti umani messi in coltura possono dividersi solo un numero limitato di volte prima di raggiungere uno stato di arresto mitotico irreversibile. Se la coltura iniziale viene preparata utilizzando fibroblasti provenienti da persone di età differente, il numero di divisioni cellulari possibili in vitro correla inversamente con l’età del donatore. In altre parole, sembra esistere un meccanismo che conta il numero totale di divisioni che un fibroblasto può compiere (in vivo + in vitro). Studi condotti alla fine del 20° sec. hanno chiarito le basi molecolari di questo fenomeno individuando il ruolo importante giocato dai telomeri, le parti terminali dei cromosomi, costituiti dalla ripetizione in tandem della sequenza nucleotidica TTAGGG per una lunghezza totale di parecchie migliaia di basi. A queste sequenze sono legate sia proteine coinvolte nella condensazione della cromatina in genere sia proteine telomeriche specifiche. I telomeri hanno diverse funzioni vitali per la cellula, tra le altre evitano che le estremità dei cromosomi siano scambiate dai meccanismi di sorveglianza della cellula per una rottura del DNA e, come tale, un danno da riparare. Dato che le normali DNA polimerasi non sono in grado di copiare le estremità di una molecola lineare di DNA, a ogni divisione le cellule somatiche perdono alcune decine di basi di sequenza telomerica; questo non si verifica nelle cellule con elevato potenziale replicativo come, per es., i precursori neurali e le cellule ematopoietiche che esprimono la telomerasi, un enzima capace di sintetizzare le sequenze telomeriche. Quando i telomeri si sono accorciati oltre un certo limite, il complesso DNA-proteine telomeriche non può essere assemblato, e i meccanismi che sorvegliano l’integrità dei cromosomi attivano il programma di senescenza cellulare, chiamata senescenza replicativa, osservabile soprattutto nelle cellule umane e non in quelle murine, in quanto queste ultime hanno telomeri molto più lunghi ed esprimono livelli elevati di telomerasi. La senescenza replicativa è anch’essa considerata un meccanismo di soppressione tumorale, e non è sorprendente che la maggioranza dei tumori umani esprima livelli elevati di telomerasi.
A questo proposito vi sono due teorie, probabilmente entrambe vere in casi diversi: la prima è che i tumori derivano dalla trasformazione neoplastica di una cellula staminale che esprime la telomerasi, la seconda che questo enzima sia riattivato da un insulto oncogenico in una cellula somatica inizialmente telomerasi-negativa. Mentre è indubbio il ruolo della telomerasi, o meglio della sua assenza, nella senescenza replicativa misurata in vitro, ed è assai probabile una funzione della telomerasi nella crescita tumorale, non è altrettanto chiaro se telomerasi e telomeri giochino un ruolo rilevante nei normali processi di invecchiamento dell’individuo. In modelli animali di topi knock-out per la telomerasi, così come in casi di mutazioni a carico della telomerasi nell’uomo, si è osservato, più che l’insorgere di un invecchiamento precoce, lo svilupparsi di specifiche patologie a carico di organi e tessuti con elevato turnover. Danno al DNA, oncogeni attivati e accorciamento dei telomeri, probabilmente inducono la senescenza cellulare attraverso meccanismi comuni. Un’ultima considerazione di tipo metodologico riguarda il fatto che la maggior parte degli studi miranti a dissezionare i network responsabili per l’induzione della senescenza cellulare è stata condotta in vitro utilizzando colture primarie di cellule umane o murine. Questi modelli sperimentali non sono esenti da possibili artefatti, per es. le condizioni stesse di coltura tendono a selezionare cellule che si dividono più rapidamente e a eliminare quelle maggiormente danneggiate. Un parametro che è stato per molto tempo trascurato, ma che di recente ha attirato l’attenzione di numerosi ricercatori, è che in vitro le cellule sono generalmente mantenute alla concentrazione di ossigeno dell’ambiente (circa 20% O2). Per la maggioranza delle popolazioni cellulari questo rappresenta una condizione di iperossia (la concentrazione di O2 in diversi organi umani varia dal 5-10% all’1-2%), e il conseguente stress ossidativo può fortemente alterare l’istaurarsi della senescenza.
Geni e fattori che regolano l’invecchiamento dell’individuo
Lo studio di mutanti che mostrano un fenotipo di aumentata longevità ha cominciato a gettare luce sui meccanismi molecolari e cellulari dell’invecchiamento negli organismi pluricellulari dai più semplici fino ai mammiferi. Sono essenzialmente tre i modelli animali utilizzati per gli studi sui processi di senescenza: il nematode Caenorhabditis elegans, un piccolo verme lungo circa 1 mm, con una aspettativa di vita intorno alle 2-3 settimane; il moscerino della frutta, Drosophila melanogaster, che può vivere circa un mese; il topo, Mus musculus, che può vivere circa tre anni. Queste ricerche hanno evidenziato come i processi di invecchiamento e i circuiti molecolari che li regolano si sono, per grandi linee, conservati nel corso dell’evoluzione. Probabilmente la via metabolica meglio conosciuta, la cui alterazione porta a un sostanziale aumento dell’aspettativa di vita, è quella dell’insulina/IGF-1 (Insulin-like Growth Factor-1). In Caenorhabditis la mutazione di daf-2 che codifica per il recettore dell’insulina/IGF-1 può raddoppiare la durata della vita attraverso un meccanismo che richiede la funzione del fattore di trascrizione daf-16. In breve, l’attivazione di daf-2 mette in moto una cascata di proteine chinasi che risultano nella fosforilazione di daf-16. Daf-16 nella sua forma fosforilata viene riconosciuto da specifiche proteine e trattenuto nel citoplasma. In caso di mutazione di daf-2, o comunque quando si riscontrano livelli ridotti di insulina/IGF-1, daf-16 non è fosforilato e trasloca nel nucleo, dove attiva la trascrizione di un certo numero di geni, circa una cinquantina, il cui ruolo nell’aumentare la longevità è oggetto di attivo studio.
Affinché mutazioni di daf-2 siano in grado di aumentare la longevità in Caenorhabditis occorre, oltre a daf-16, anche la funzione di HSF-1 (Heat Shock Factor-1). HSF-1 è anch’esso un fattore di trascrizione che regola l’espressione delle cosiddette proteine dello shock termico, una famiglia di chaperonine che regolano la conformazione di altre proteine, le quali a causa di shock termico o di altri stress sono parzialmente denaturate. Mutanti daf-2 sono stati utilizzati in un elegante approccio sperimentale mirante a comprendere le ragioni per cui la malattia di Alzheimer si manifesta generalmente in tarda età (Cohen, Bieschke, Perciavalle et al. 2006). Si sono ottenuti vermi transgenici che esprimono il frammento tossico di β-amiloide (Aβ-42) la cui aggregazione in microfibrille si accompagna (causa?) alla progressione della malattia di Alzheimer. Mutanti daf-2 hanno un ridotto livello di aggregati tossici di Aβ-42, dimostrando che le stesse attività che favoriscono la longevità sono anche coinvolte in un’attività di riparo di aggregati proteici. Utilizzando altri mutanti difettivi in daf-16 o HSF-1, questo studio ha poi dimostrato che HSF-1 è coinvolto nella disaggregazione di complessi di Aβ-42 mentre daf-16 promuove la formazione di complessi ad alto peso molecolare con una tossicità inferiore a quella delle microfibrille. In considerazione del fatto che mutanti daf-2 hanno un aumentato livello di autofagia, si può concludere che l’aumentata longevità in risposta alla diminuita segnalazione da parte dell’insulina/IGF-1 è parzialmente dovuta a meccanismi di riparazione o di eliminazione del danno proteico. Considerazioni di tipo teorico suggeriscono che meccanismi di questo tipo si siano evoluti non per promuovere la longevità, ma per resistere a condizioni ambientali stressanti. In effetti, la diminuita segnalazione attraverso l’insulina/IGF-1 può regolare in Caenorhabditis immaturo la formazione di uno stato larvale, detto dauer, caratterizzato da estrema longevità, arresto della crescita, resistenza a vari stress e assenza di attività riproduttiva. Si può concludere che meccanismi selezionati per permettere all’animale di rimandare la riproduzione finché si creino condizioni ambientali migliori contribuiscono ad aumentarne la longevità. Ciò probabilmente deriva dal fatto che gli stessi geni che proteggono dagli stress esogeni svolgono un’azione protettiva anche verso quegli stress endogeni che inducono l’invecchiamento. Pure nel caso della Drosophila, mutazioni della segnalazione attraverso l’insulina/IGF-1 possono aumentare l’aspettativa di vita circa dell’80%, e richiedono la funzione del fattore di trascrizione FoxO che è l’omologo di daf-16. Inoltre, la sovraespressione di FoxO è sufficiente per promuovere la longevità della Drosophila.
Più complicato è il quadro che si osserva nel topo in cui esistono recettori distinti per l’insulina e per l’IGF-1. Mentre la mutazione di entrambi gli alleli del recettore per IGF-1 è letale, topi eterozigoti in cui solo una delle due copie è inattivata vivono circa il 30% in più di animali non mutanti (l’effetto è correlato al sesso e si osserva solo in animali femmine, mentre l’aumento di longevità nei topi maschi non è statisticamente significativo). Per il resto gli animali sono di dimensioni normali, hanno metabolismo, attività fisica e fertilità indistinguibili dai non mutanti, e mostrano un’aumentata resistenza a stress ossidativi. In aggiunta, topi con ridotti livelli di IGF-1 vivono più a lungo. Mentre resta da chiarire se, e in che modo, fattori di trascrizione tipo FoxO contribuiscano alla longevità mediata da riduzione della segnalazione da IGF-1 nel topo, essi risultano chiaramente implicati nella resistenza a vari stress.
L’unico trattamento conosciuto che può aumentare l’aspettativa di vita nei mammiferi è una dieta ipocalorica (CR, Caloric Restriction). CR ritarda la senescenza nel lievito, in Caenorhabditis, in Drosophila, nel topo e, secondo dati preliminari, anche nei primati. In aggiunta, CR previene o comunque ritarda il manifestarsi di diverse patologie legate all’invecchiamento, quali disturbi cardiocircolatori, vari tipi di neoplasie, malattie neurodegenerative e diabete. Per CR si intende una dieta con un contenuto calorico ridotto di circa il 30-40% rispetto all’assunzione di cibo ad libitum, ed esiste un corrispettivo di CR nel lievito che riduce la concentrazione di glucosio nel terreno di coltura dal 2 allo 0,5%. Mentre studi sul lievito hanno permesso di individuare una serie di geni capaci di mediare l’effetto di longevità da CR, per quanto riguarda gli organismi pluricellulari vi sono solo indicazioni preliminari. In particolare, in Drosophila apparentemente CR e una ridotta segnalazione di insulina/IGF funzionano attraverso lo stesso meccanismo, mentre sussistono dubbi se lo stesso valga nel caso di Caenorhabditis e nei mammiferi. Al di là dei singoli geni e dei circuiti molecolari coinvolti, il quadro che sembra emergere individua nei mitocondri un importante regolatore dell’aumentata longevità in risposta a CR. Inizialmente era stato proposto che CR potesse esercitare i suoi effetti diminuendo il metabolismo dei carboidrati, riducendo la fosforilazione ossidativa e, di conseguenza, la produzione di ROS. In realtà si è poi misurato che, in regime di CR, in molte circostanze vi è un aumento della respirazione mitocondriale, e nel topo si misura un incremento netto del numero di mitocondri per cellula. Come ciò possa risultare in una diminuita produzione di ROS resta in gran parte ancora da chiarire, anche se sono state elaborate diverse ipotesi a riguardo.
La prima evidenzia il cambio di metabolismo cellulare: nelle diete ipercaloriche i carboidrati vengono utilizzati per produrre ATP e i grassi sono immagazzinati (per un loro possibile utilizzo futuro in regime di scarsità di cibo). In risposta a CR l’individuo minimizza l’utilizzo di carboidrati nei tessuti periferici per mantenere nel cervello un sufficiente livello di glucosio. In queste condizioni amminoacidi e grassi vengono di preferenza metabolizzati nei tessuti periferici, e il loro metabolismo produce un maggior rapporto FADH/NADH all’interno del mitocondrio, rispetto al metabolismo del glucosio. Elettroni prelevati dal FADH entrano nella catena di trasporto a valle del sito I con conseguente minore produzione di ROS. Una seconda ipotesi suggerisce semplicemente che l’aumentata sintesi di mitocondri permetta l’eliminazione di quelli danneggiati, che quindi producono più ROS, senza compromettere la funzionalità della cellula. Una terza implica la funzione delle sirtuine, una famiglia di proteine che regolano varie risposte allo stress modulando l’attività di effettori quali FoxO e p53. Queste proteine utilizzano come cofattore il NAD, la cui concentrazione cresce con l’aumentata respirazione mitocondriale. Anche se molti sono i potenziali bersagli responsabili per l’incremento di longevità in risposta a CR e alla segnalazione da insulina/IGF-1 nelle singole cellule, è importante sottolineare che, negli organismi pluricellulari, la senescenza è un processo coordinato che dipende da messaggeri intercellulari ed è sotto il controllo di meccanismi endocrini.
In Caenorhabditis e in Drosophila numerose evidenze sperimentali dimostrano come la longevità sia regolata dall’integrazione di vari stimoli sensoriali che monitorano la qualità dell’ambiente e le risorse energetiche. Per es., in Caenorhabditis la decisione di continuare nel processo differenziativo normale o indirizzarsi nello stato dauer è controllata da feromoni che agiscono su specifiche popolazioni neuronali ed è modulata dalla temperatura e dalla disponibilità di cibo. Nel verme adulto, poi, la distruzione sperimentale di una sottopopolazione neuronale è sufficiente per incrementare la durata della vita, ed esperimenti con animali mosaico in cui daf-2 è mutato solo in alcune cellule mostrano che è sufficiente ridurre la segnalazione dell’insulina/IGF-1 nelle cellule del sistema nervoso per ottenere l’effetto di aumentata longevità. Analogamente, in Drosophila l’esposizione a odoranti derivati dal cibo può modulare la durata della vita sovvertendo gli effetti benefici di CR; la mutazione specifica di un recettore olfattivo altera il metabolismo, aumenta la resistenza a vari stress e prolunga la durata della vita. Per quanto riguarda i mammiferi naturalmente la sperimentazione è ancora agli inizi, ma dati preliminari suggeriscono che l’effetto di CR sulla longevità sia regolato principalmente a livello ipotalamico, dato fortemente suggestivo in quanto l’ipotalamo controlla l’omeostasi energetica attraverso la secrezione di ormoni, fattori di crescita e peptidi (Bishop, Guarente 2007).
Conclusioni
Dalla metà del 19° sec. i progressi nell’agricoltura, nell’industria alimentare, nelle pratiche igieniche e nei vari campi della medicina hanno portato a un graduale aumento della vita media. Questo incremento, inizialmente causato principalmente da una diminuita mortalità nell’età giovanile, dalla metà del 20° sec. è dipeso sempre più da una maggiore sopravvivenza in età avanzata. Studi sulle origini evolutive e sui meccanismi molecolari della senescenza hanno dimostrato che la longevità è fortemente controllata da programmi biologici selezionati per ottimizzare l’impiego delle risorse tra riproduzione e riparazione dei danni stocastici ai componenti cellulari. Il fatto che il processo di invecchiamento sia pervasivo e scritto nel programma genico di tutte (o quasi) le specie viventi non significa che stili di vita opportuni, trattamenti terapeutici o farmacologici non riescano in un futuro non lontano a promuovere la longevità intesa come sopravvivenza in assenza di malattie legate all’età e con un accettabile mantenimento delle funzioni fisiologiche. Il manifestarsi di questa opportunità ha spostato in parte il dibattito dalla domanda se sia possibile estendere la vita alla domanda se ciò sia auspicabile e quali siano le implicazione etiche. Anche a prescindere da considerazioni religiose, motivi di perplessità nascono dalla considerazione che con ogni probabilità un notevole aumento della longevità possa avere un forte impatto sull’organizzazione sociale e sull’ambiente. Sarà compito della politica oltre che della scienza valutare i costi/benefici di una possibile aumentata longevità.
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