Inventori e invenzioni
Il primo Ottocento
Il contesto ideale per la nascita delle innovazioni tecniche, cioè un’economia dinamica e pronta a gratificare l’inventiva con il profitto, mancava quasi del tutto nell’Italia della prima metà dell’Ottocento. Un’indagine sul ruolo svolto dagli inventori nello sviluppo economico di quel periodo deve tenere conto dello stato di arretratezza in cui si trovava la penisola, anche nelle aree più industrializzate. Questo stato di fatto era perfettamente noto ai contemporanei, i quali erano impegnati soprattutto nello sforzo di recuperare posizioni rispetto alle nazioni dalle quali, invece, venivano le novità tecnologiche. Si sbaglierebbe, tuttavia, nel sottovalutare quest’epoca che ha avuto un ruolo importante nel preparare il clima culturale adatto all’innovazione.
Protagoniste della prima stagione di stimolo alle tecnologie sono state, fin dal Settecento, le accademie. Molte di esse non erano più soltanto le custodi della splendida, ma superata tradizione italiana: da alcuni decenni stavano svolgendo un servizio di alta divulgazione, attraverso la pubblicazione di atti e la promozione di opere di consultazione, diventando sedi di presentazione dei prodotti della ricerca e facendo sì che il sapere scientifico trovasse un posto nel bagaglio culturale delle classi agiate urbane. Oltre a codificare il linguaggio formale del sapere tecnico, rendendo familiari al pubblico colto strumenti indispensabili al trasferimento tecnologico come il disegno tecnico, stavano diffondendo l’idea che la conoscenza era a tutti gli effetti un bene economico. In epoca napoleonica divennero, sul modello francese, gli organi ufficiali di consulenza del governo e si assunsero anche formalmente il compito di promuovere concorsi ed esposizioni industriali che servissero da stimolo e guida a tutta l’economia dello Stato. La cultura premiale fu, infatti, uno dei tratti distintivi di quest’epoca, profondamente influenzata dalle idee di merito e ricompensa presenti nell’opera di Jeremy Bentham (1748-1832). Secondo la sua concezione, l’uomo è per natura portato all’indolenza se non stimolato da premi o da ricompense che sappiano appagarne l’amor proprio, mettendo in moto il meccanismo dell’emulazione.
Gettando uno sguardo complessivo sulle esposizioni industriali e sulle azioni di selezione e stimolo delle invenzioni messo in atto dalle élites, gli inventori italiani di quegli anni appaiono soprattutto impegnati a mettersi in bella evidenza presso le giurie per arrivare a intascare i premi e le ricompense garantite dalle istituzioni scientifiche. Non è un caso che traccia delle vicende di questi pionieri siano rimaste solo negli archivi degli istituti che si proponevano di stimolare i processi innovativi. In realtà, poteva accadere che cercassero di incontrare i possibili finanziatori delle proprie iniziative imprenditoriali proprio nel pubblico che a diverso titolo frequentava esposizioni e concorsi, fra i consulenti, i pubblicisti, gli amministratori locali. Il sistema premiale non è stato solo un’esperienza che si autoalimentava. Istituzioni e governi locali hanno davvero speso in esso le proprie migliori energie, la più avanzata conoscenza di quali fossero, in quel momento, le priorità economiche, le piste promettenti, i settori su cui puntare. Se non ottennero risultati eclatanti va ascritto alle generali condizioni di arretratezza più che all’inefficacia di queste azioni, le quali hanno invece almeno creato un terreno favorevole e diffuso la forma mentis necessaria.
La strada da percorrere per raggiungere i protagonisti dell’innovazione tecnologica dell’epoca era infatti molto lunga. La maggior parte degli inventori che si presentavano ai concorsi e alle esposizioni non solo non aveva effettuato adeguati percorsi formativi, ma non aveva neppure una esatta percezione di sé: si pensavano abili artigiani, macchinisti di genio. In diversi casi si trovavano in difficoltà proprio quando dovevano sfruttare l’invenzione inserendosi nel mercato per il quale l’avevano prodotta, o anche solo al momento di illustrarla alle commissioni deputate a valutarla. Potevano essere semplici artigiani che avevano introdotto migliorie nel loro lavoro quotidiano; artefici ai quali era stata commissionata una macchina utensile da titolari di attività produttive e che nell’esecuzione avevano apportato significativi cambiamenti. Erano rari gli inventori veri e propri che da questo tipo di attività contavano di ottenere riconoscimenti e guadagni. Nella maggioranza dei casi si trattava comunque di uomini destinati a rimanere nell’ombra se non fossero intervenuti ai concorsi promossi dalle accademie, benché avessero svolto un ruolo significativo nel processo di diffusione delle conoscenze tecniche, attraverso un prezioso percorso di apprendimento per imitazione (Onger 2010).
Sintomo delle difficoltà tipiche di quest’epoca è lo scarso numero di ingegneri che si contano nelle fila dei concorrenti al sistema premiale dell’età risorgimentale, testimonianza di come questi professionisti fossero in quella fase storica ancora impreparati al confronto diretto con i problemi della meccanica. Ricordando l’inizio della propria carriera nel 1857, l’ingegnere Giuseppe Colombo affermava risolutamente che «di meccanica applicata, di tecnologia, di chimica tecnica non si aveva neppure l’idea nelle scuole ufficiali» (G. Colombo, Discorso in occasione delle onoranze pel 59° anno d’insegnamento, 1906, in Id., Scritti e discorsi scientifici, a cura di F. Giordano, 1934, p. 70).
Prima che nel sistema produttivo intervenissero appunto gli ingegneri, un ruolo determinante venne svolto dai macchinisti. Meccanici dalla bassa specializzazione prestavano la loro opera a diverse attività produttive, in primo luogo all’industria tessile, fornendo un rilevante contributo alla diffusione della meccanizzazione (Bigatti 2002). Il prodotto del loro lavoro era spesso il risultato di un processo di learning by using, in cui le esigenze del committente imprenditore si incontravano con le conoscenze del meccanico. Che fossero molto richiesti lo testimonia, per es., un volantino pubblicitario degli anni Venti del macchinista lombardo Angelo Cantoni, nel quale offriva le proprie prestazioni per «costruire macchine d’ogni sorte per oggetti d’arti e di edifizj, e particolarmente d’idraulica», vantandosi di avere già «fatta l’invenzione di 40 macchine riferibili a’ suddetti oggetti» e arrivando ad affermare, con non poca esagerazione, «di poter soddisfare al desiderio di chiunque gli darà commissioni le più difficili e non prima d’ora tentate in meccanica».
Una più approfondita comprensione delle condizioni materiali in cui si sviluppava in Italia l’innovazione e di quale fosse il contesto nel quale si trovavano a lavorare gli inventori può essere raggiunta, oltre che da un’analisi dell’istruzione tecnica (quando prese effettivamente piede) e del sistema delle privative industriali, attraverso la descrizione di alcune biografie emblematiche.
Il caso di un inventore di provincia
La carriera di Elia Locatelli (1802-1860) illustra bene le difficoltà in cui si trovava a operare chi avanzava proposte innovatrici e sperava di ricavarne guadagno vendendole e tutelandone con i brevetti la proprietà intellettuale. Della sua formazione è noto solo che completò un corso di studi filosofici, dopo di che si dedicò per qualche tempo alla chimica applicata. La sua carriera di inventore può essere, pur con qualche lacuna, minutamente ricostruita dalle numerose partecipazioni a concorsi, esposizioni e altri appuntamenti del sistema premiale lombardo-veneto. Ebbe la sua prima occasione all’età di ventotto anni, quando presentò nel 1830 all’Ateneo di Brescia un sirenion monocordo, strumento musicale a tastiera. Sette anni dopo, sempre ai concorsi dell’accademia bresciana, espose un telegrafo domestico che permetteva di impartire ordini a distanza alla servitù. Ma non solo: dalla documentazione risulta che portò anche un pianoforte pneumatico e un disegno per la realizzazione di un «potenografo» per la scrittura stenografica meccanica,
da usarsi per scrivere stenograficamente come il pianoforte per suonare; per modo che ciascun dito della mano diventi una penna. La mano destra stampa le consonanti, la sinistra le vocali, che le une e le altre sospese a leve stampanti cadono sulla carta che cammina da destra a sinistra di mano in mano che ha ricevuto l’impronto d’una sillaba mediante la pressione dei tasti (E. Locatelli, Telegrafo domestico, «Commentari dell’Ateneo di Brescia», 1837, pp. 324-25).
L’invenzione così descritta ricorda la macchina per stenografare inventata da Antonio Michela Zucco (1815-1886), brevettata nel 1878 in Italia e l’anno dopo negli Stati Uniti, presentata all’Esposizione universale di Parigi del 1878, dove le venne assegnata la medaglia d’argento, e poi premiata con medaglia d’oro alle Esposizioni di Milano del 1881 e di Torino del 1884, infine adottata nel 1881 e tutt’ora in uso al Senato italiano.
Nel 1839, Locatelli esponeva all’Ateneo un fendente idraulico atto a prelevare l’acqua dai fiumi per l’irrigazione dei campi. Nel 1842, a Venezia, ricevette la medaglia d’argento per un forno economico per la cottura del pane e presentò il progetto di uno stabilimento chimico-meccanico per estrarre la fecola dalle patate. Quest’ultimo venne da lui effettivamente impiantato nella propria abitazione, attrezzandolo di macchine appositamente concepite e mettendo al lavoro tre operai. L’inventore si premurava di suggerire che la fecola si prestava, oltre a svariati usi alimentari, anche a usi industriali come la fabbricazione della carta e l’inamidatura dei tessuti di cotone. La preoccupazione di applicare la propria inventiva in modo da produrre attività economiche proficue sembra crescere a mano a mano nelle sue proposte e iniziative, a testimonianza della diffusione di una consapevolezza industriale negli inventori italiani.
All’esposizione bresciana del 1843, Locatelli esibì ben cinque diversi ritrovati: un forno economico migliorato per la cottura del pane; una gramola cilindrica; un ponte scorrevole; un cilindro archimedeo; un metodo di trattura economica della seta. Vale la pena, anche per esemplificare con quanta attenzione le proposte di innovazione venivano vagliate, soffermarsi su questo metodo di trattura economica della seta, che consisteva in otto fornelli scaldati a due a due da un solo fuoco, nei quali si traeva la seta a due capi, secondo il modello piemontese, meno produttivo di quello lombardo, ma in grado di migliorare la qualità del filato. Il nuovo sistema, secondo l’inventore, permetteva risparmio di combustibile e di manodopera, riducendo drasticamente il numero delle addette per otto fornelli da sedici a dieci.
Il metodo ottenne nel Regno lombardo-veneto un privilegio esclusivo di cinque anni. La tecnica sembra si dimostrasse utile e si fecero delle pubbliche dimostrazioni a Milano per promuoverne la commercializzazione. L’efficacia del sistema venne però messa in dubbio sullo «Spettatore industriale» da Giovanni Battista Berizzi, esperto di trattura, convinto di «quanto lentamente vada il progresso e quanto scarso sia il numero di quei privilegiati ai quali fu dato di far progredire un passo quest’industria». Berizzi trovava «nel manifesto del Locatelli piuttosto il carattere della millanteria che non la modesta persuasione di chi riposa nella propria scoperta» (E.L. Marenesi, Nuovo metodo per la trattura della seta, proposto dal signor Elia Locatelli, di Brescia, «Lo Spettatore industriale», 1845, 3, p. 165). Anche chi, come Ferdinando Turina, uno dei maggiori filandieri del Cremonese, si dichiarava entusiasta, doveva però riconoscere la limitatezza dei risultati che il metodo procurava. Infatti, nel 1846, dopo aver esposto a Vienna l’anno precedente un modello di stufa perfezionata e una macchina per filare, Locatelli chiese e ottenne un privilegio esclusivo di cinque anni per migliorie applicate al suo metodo per filare la seta, significativa attenzione da parte di un personaggio sicuramente minore verso il pieno utilizzo della strumentazione giuridica per la tutela della proprietà intellettuale (Onger 2010).
Inventori italiani fuori d’Italia: Antonio Meucci
Altrettanto difficile, ma del tutto diverso il percorso compiuto da uno dei maggiori e sfortunati geni inventivi italiani del 19° sec., Antonio Meucci (1808-1889). Formatosi per sei anni presso l’Accademia di belle arti di Firenze, studiando, oltre alle materie artistiche, la chimica e la meccanica, discipline introdotte nell’Accademia durante la dominazione francese, Meucci mostrò subito uno spiccato interesse per la chimica, realizzando nel maggio 1825 una potente miscela propellente per razzi pirotecnici che, anziché la fama, gli valse l’arresto per sospetta cospirazione contro il granduca Leopoldo II.
Costretto a lavorare per alcuni anni come doganiere, dopo il 1830 venne assunto nel prestigioso Teatro della Pergola come assistente macchinista e poté mettere in pratica le sue competenze tecniche in una delle poche imprese nazionali in cui la meccanica poteva esprimersi al meglio: l’opera lirica. In questa attività, costruì, tra l’altro, un telefono acustico per comunicare dal piano del palcoscenico a quello degli attrezzisti senza disturbare lo spettacolo.
Affiliato alla Carboneria, fu coinvolto nei moti del 1831 e – arrestato nel 1833 –- si vide costretto insieme alla moglie, la costumista Maria Ester Mochi, e altri ottantuno elementi dell’Opera italiana del Teatro della Pergola, ad accettare nel 1835 una scrittura all’Avana, abbandonando per sempre il nostro Paese.
L’emigrazione politica italiana nel Nord d’Europa o in America, in realtà ben più dinamiche e favorevoli all’innovazione dell’Italia dell’età della Restaurazione, diede ad alcuni patrioti l’occasione per la propria affermazione economica e sociale. Meucci, nei quindici anni trascorsi all’Avana, poté utilizzare l’officina del Teatro de Tacón, allora il più grande delle Americhe, anche per altre attività che gli guadagnarono una certa fortuna economica: progettò e realizzò un complesso di opere per la depurazione delle acque che rifornivano la città; impiantò una fabbrica di elettrodeposizione, stipulando un contratto con il governatorato dell’isola per la doratura galvanica di equipaggiamenti militari; approfondì le sue conoscenze sull’elettricità e sull’elettrochimica, gettando le basi della sua maggiore idea, quella della trasmissibilità della parola per via elettrica.
Nel 1850, lasciata Cuba per New York, Meucci si stabilì a Clifton, Staten Island, dove costruì la prima fabbrica americana di candele steariche che, anche a causa dello spregiudicato ambiente economico newyorchese, non ebbe fortuna. Per la stessa ragione non ebbero successo altre attività produttive da lui tentate, fino al 1861, quando tutti i suoi beni furono venduti in asta pubblica.
Aveva però nel frattempo messo a punto il suo «telegrafo parlante» e nel 1860 tentò, tramite un amico, di trovare in Italia degli imprenditori interessati a mettere in produzione la sua invenzione, ma l’arretratezza economica del nostro Paese, la scarsa propensione all’innovazione da parte del ristretto mondo industriale e la particolare congiuntura politica non diedero risultati positivi. Perfezionata ulteriormente la sua invenzione, nel dicembre 1871, insieme ad altri tre italiani, costituì la Telettrofono company, ma i soci non gli fornirono i 250 dollari necessari per depositare un brevetto, ripiegando quindi al solo deposito di un caveat, una sorta di pre-brevetto dal costo di dieci dollari, che riuscì però a pagare solo fino al dicembre 1874. Nel marzo 1876, l’inventore di origini scozzese Alexander Graham Bell (1847-1922) depositava il brevetto del suo telefono. Meucci, forte del fatto che la sua invenzione fosse di dominio pubblico, tentò invano di far invalidare il brevetto di Bell.
In Meucci si trovano tutte le caratteristiche del tipico inventore ottocentesco che si esercita nei settori più disparati. Sono note cinquanta sue diverse innovazioni in sedici settori applicativi, coperte da quattordici brevetti, nonché dieci imprese industriali da lui fondate o dirette. Tra le invenzioni più importanti: nel 1862, una lampada a cherosene; nel 1871, un metodo di produzione industriale di bevande effervescenti alla frutta; nel 1873, un metodo di produzione industriale del ragù alla bolognese; nel 1876, un igrometro ad assorbimento; nel 1879, un sistema di diffusione con altoparlanti elettromagnetici e un sistema sonoro di localizzazione di navi; nel 1883, un processo industriale per ottenere materie plastiche artificiali (Catania 2010).
Dalla Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri di Milano ai Politecnici
Come si è visto fino a qui, i percorsi formativi degli innovatori su cui ci si è soffermati erano per lo meno carenti sul versante scientifico e tecnico, se non del tutto privi di una formazione di questo tipo. L’istruzione ha, tuttavia, un ruolo molto importante e diretto nella capacità di un Paese di generare tecnologia e vi è accordo fra gli storici su come essa sia stata alla base del successo industriale tedesco nel corso dell’Ottocento. Anche in Italia la formazione tecnica superiore, quando e dove si è potuta sviluppare, è stata cruciale nel processo di modernizzazione.
In anticipo sull’intervento pubblico, a dare impulso alla formazione tecnico-scientifica in una delle principali città manifatturiere italiane fu la Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri di Milano, voluta nel 1838 dal vicepresidente della locale Camera di commercio Enrico Mylius. Un ruolo fondamentale ebbe nella vicenda la vitalità dell’ambiente milanese, con i suoi intellettuali, il suo reattivo mondo produttivo e un’editoria che seppe precocemente farsi interprete delle istanze di cambiamento. Nel suo programma vi era il miglioramento delle «arti utili» e delle manifatture, e fra i suoi soci contava non pochi dei principali esponenti della borghesia industriale in formazione. L’intento, infatti, era marcatamente filoindustriale: voleva favorire il superamento di un’economia prevalentemente agricola, vincendo le resistenze culturali all’industrialismo. Non è un caso che un affermato economista militante come Carlo Cattaneo (1801-1869) fosse chiamato nel 1845 a ricoprire la carica di relatore di questa istituzione privata, dopo che si era distinto tra il 1839 e il 1844 nella pubblicazione della prima serie de «Il Politecnico», un periodico che già nel sottotitolo, «repertorio mensile di studj applicati alla prosperità e coltura sociale», enunciava l’intenzione di favorire l’incontro tra scienza e tecnologia.
La Società d’incoraggiamento promosse inizialmente, tra il 1843 e il 1853, anche concorsi per premiare innovazioni. Ma la convinzione che nella situazione italiana la via degli studi e dell’insegnamento fosse più urgente di quella dei premi, del resto praticata da molte altre istituzioni, indirizzò ben presto il sodalizio verso il campo dell’istruzione, promuovendo nel 1844 il corso di chimica applicata all’industria dotato di un ricco laboratorio, dando poi vita, conformemente all’indirizzo sperimentalista che si stava affermando, a un museo industriale sul modello del Conservatoire des arts et métiers di Parigi. Seguirono le scuole di fisica industriale, di geometria e di meccanica industriale, con corsi biennali di lezioni pubbliche gratuite tenute da specialisti e frequentate da un folto pubblico, e la prima scuola professionale di setificio (Lacaita 1990).
La legge Casati, promulgata il 13 novembre 1859, che fissò la struttura scolastica del nuovo Stato unitario e fu profondamente influenzata da alcuni esponenti del mondo politico e intellettuale lombardo, stabiliva per l’istruzione tecnica superiore l’istituzione a Torino di una Scuola di applicazione per ingegneri annessa alla facoltà di Scienze fisiche e matematiche dell’Università (dal 1906 Politecnico di Torino), e a Milano un Istituto tecnico superiore, concepito sul modello dei politecnici dell’area germanica come un’istituzione autonoma dalle università.
Secondo il matematico Francesco Brioschi (1824-1897), primo direttore dell’Istituto tecnico superiore milanese, queste nuove scuole si dovevano basare su due principi ispiratori. Il primo consisteva nel dare all’insegnamento scientifico propedeutico un indirizzo coerente con lo scopo finale della formazione degli ingegneri e comportava di conseguenza l’istituzione di scuole preparatorie diverse dalle facoltà di Matematica. Il secondo, relativo all’insegnamento tecnico, affermava che questo doveva essere non più generico come in passato, ma differenziato in scuole speciali, destinate ad aumentare con il progredire delle scienze applicate.
Infatti, finché la tecnologia si era mantenuta prevalentemente empirica l’apprendistato era rimasto il modo migliore di trasmettere i mestieri, e all’evoluzione industriale avevano continuato a contribuire molti tecnici di non elevata preparazione scientifica. Nel secondo Ottocento, con il crescere dei legami fra la scienza e la tecnica, la preparazione di grado superiore divenne sempre più necessaria e si rivelò un investimento importante a favore dell’industria.
L’apporto della Società d’incoraggiamento fu determinante nel dare vita nel 1863 a quello che poi si chiamerà Politecnico di Milano. Fornì al nascente istituto non solo le collezioni scientifiche e tecniche, le aule, ma soprattutto un corpo docente più aggiornato e tecnicamente versato rispetto a quello che, all’epoca, si poteva trovare nelle varie università del regno. L’impostazione sperimentale e pratica che fu data alla formazione degli ingegneri milanesi venne ulteriormente rafforzata con l’istituzione di diversi laboratori nei quali sempre più agli esperimenti e alle prove pratiche si affiancavano le ricerche. Sorsero così, a partire dagli anni Ottanta, la scuola di elettrotecnica, i laboratori di meccanica applicata, di geodesia applicata, di ricerche sulla carta, per i materiali da costruzione, fino alla scuola di elettrochimica (Lacaita 1984).
Privative industriali e innovazione
Un pieno sviluppo dell’innovazione tecnologica come motore del progresso industriale sarà possibile in Italia solo verso la fine dell’Ottocento, come mostrano anche le biografie emblematiche che si vedranno più avanti. Alle istituzioni per l’incoraggiamento e agli agenti di stimolo introdotti dal sistema premiale ed espositivo, dovevano aggiungersi altri importanti tasselli. In primo luogo, la formazione di un mercato unico nazionale con l’Unità d’Italia, ma anche la diffusione dell’istruzione tecnica vista nel precedente paragrafo. Di non minore importanza fu un adeguato sistema di protezione della proprietà intellettuale.
Già la partecipazione alle manifestazioni espositive nasceva, in diversi casi, non solo dal desiderio di ottenere un premio, ma anche come primo passo verso il riconoscimento della proprietà dell’idea. Infatti, a differenza della procedura per ottenere i privilegi, nell’ambito delle esposizioni e del sistema premiale le scoperte venivano testate da commissioni competenti formate da accademici, ma anche da industriali, che non si accontentavano di vedere i disegni o i modelli e spesso volevano visionare i prototipi in azione. I giudizi delle commissioni erano poi pubblicati negli atti accademici e a volte ripresi dalla stampa, attestando la proprietà intellettuale del suo autore nel caso qualcun altro avesse voluto fare analoga richiesta di privilegio. In caso poi di ottenimento di un premio, questo dava maggiore visibilità all’invenzione e metteva il suo autore nelle condizioni economiche per poter far fronte alle spese di brevettazione.
La legislazione sulla proprietà intellettuale negli Stati italiani preunitari, pur ispirandosi in diversa misura alla legge francese sui brevetti del 1791 che con Napoleone era stata sostanzialmente estesa a tutta la penisola, era più forte nel Regno lombardo-veneto e nel Regno di Sardegna, più debole nel Granducato di Toscana. La legge redatta da Antonio Scialoja per lo Stato sardo, fatta approvare da Cavour nel 1855 e poi estesa al Regno d’Italia, era di ispirazione liberista e quindi accordava una protezione di soli cinque anni, estendibile a dieci, riconosceva il diritto di proprietà dell’inventore, ma lasciava esclusivamente al mercato il compito di verificare la bontà di una invenzione, rinunciando – come nel caso della legislazione piemontese precedente – ad affidare all’Accademia delle scienze di Torino il compito di testarla. Il rapido sviluppo tecnologico di metà Ottocento e il continuo ampliarsi delle specializzazioni scientifiche stavano del resto rendendo sempre più inadeguati gli accademici a giudicare i nuovi ritrovati (Vasta 1999).
L’indebolimento della legge sui brevetti finì per aumentare la propensione all’innovazione, soprattutto in quei settori leggeri a medio e basso contenuto tecnologico che dal commercio internazionale ricavavano un vantaggio comparato. Un Paese in fase di sviluppo come l’Italia finì per essere avvantaggiato da una legislazione debole, che favoriva l’utilizzazione di innovazioni provenienti dall’estero, anche se per contro tutelò poco le invenzioni nazionali e soprattutto quei rari inventori nostrani che si cimentavano a loro spese e con grandi rischi in quei campi più innovativi e ad alto contenuto tecnologico (Giannetti 1998).
Eugenio Barsanti, Felice Matteucci e il motore a scoppio
L’invenzione e il perfezionamento del motore a scoppio da parte di due italiani, una macroinvenzione dalla portata potenzialmente straordinaria, si colloca esattamente sul discrimine fra quanto si poteva fare operando in un ambiente arretrato (nel quale infatti i due non riuscirono mai a mettere veramente in produzione la loro invenzione, così come faticarono a far valere i loro brevetti) e lo sviluppo ormai incipiente di un vero sistema industriale alimentato da un adeguato flusso di innovazioni e miglioramenti tecnologici.
La macchina a vapore di James Watt (1736-1819), che aveva permesso la prima rivoluzione industriale, era relativamente ingombrante e costosa, non adatta ad alimentare piccoli impianti domestici o artigianali; inoltre, aveva tempi relativamente lunghi sia per l’accensione del carbone sia per la messa in pressione della caldaia; infine, il generatore di vapore era a rischio di esplosione.
Verso la metà dell’Ottocento molti innovatori cercarono di superare i vincoli della macchina a vapore, sperando di favorire lo sviluppo della piccola industria attraverso la realizzazione di piccoli motori, oppure attraverso la trasmissione della forza a grande distanza, come avverrà però solo con l’energia elettrica. I motori a gas del francese Jean-Joseph-Étienne Lenoir (1822-1900) o quelli dei tedeschi Nikolaus August Otto (1832-1891) ed Eugen Langen (1833-1895), e altri dello stesso tipo, facevano infatti presagire come prossima la realizzazione di un generatore di potenza sufficientemente economico, facile da installare ovunque e di agevole utilizzazione e manutenzione. È indubbio però che furono due inventori italiani a sviluppare per primi il prototipo meglio funzionante.
Niccolò Barsanti (1821-1864) aveva studiato presso i padri scolopi e prese i voti in quest’ordine con il nome di Eugenio. Iniziò a insegnare matematica e fisica presso i collegi di educazione del suo ordine, prima a Volterra nel 1841 e poi a Firenze nel 1848. A Volterra, facendo esperimenti con la pistola elettrico-flogopneumatica di Alessandro Volta (1745-1827), ebbe la prima idea di ricavare forza motrice dall’esplosione di una miscela gassosa provocata da una scintilla elettrica. Verso la fine del 1851, decise di mettere in atto le sue idee iniziando a collaborare con l’ingegnere Felice Matteucci (1808-1887). Questi aveva studiato idraulica e meccanica al Collège Bourbon di Parigi e poi aveva concluso gli studi di ingegneria all’Università di Firenze. Nella seconda metà degli anni Trenta si era distinto nella realizzazione di alcuni strumenti idraulici, ma soprattutto aveva dato inizio a un progetto ardito e grandioso per la bonifica della palude di Bientina nella campagna lucchese, che lo impegnerà per tutta la vita.
Il 5 giugno 1853, dopo diversi esperimenti e aver fatto realizzare il primo prototipo dalla ditta Pietro Benini di Firenze, Barsanti e Matteucci depositarono in plico chiuso all’Accademia dei Georgofili una memoria sul loro motore a scoppio, facendolo poi aprire il 20 settembre 1863, quando l’enorme clamore suscitato dalla comparsa del motore a scoppio Lenoir fece loro temere che i brevetti internazionali da loro depositati non sarebbero stati una protezione sufficiente. È una ulteriore dimostrazione di come, pur in presenza di legislazioni sulle privative industriali, si continuasse a riconoscere grande importanza alle accademie per la tutela della proprietà intellettuale.
Nel 1856 venne realizzato, sempre dalla ditta Benini, un secondo motore per l’azionamento di macchine utensili presso le officine della Ferrovia Maria Antonia di Firenze, conformemente alla descrizione del loro primo brevetto inglese depositato due anni prima. Ulteriori studi e perfezionamenti portarono poi alla realizzazione di nuovi motori e al deposito dei relativi brevetti. Nel 1858 venne costruito presso la fonderia Vincenzo Calegari di Livorno un motore a stantuffi contrapposti della potenza di venti cavalli per la motonavigazione; un secondo, basato sullo stesso principio, venne realizzato dalla ditta Benini nel medesimo anno. Proprio la qualità di quest’ultimo modello convinse i due inventori a costituire la Società anonima del nuovo motore Barsanti e Matteucci per lo sfruttamento commerciale dell’invenzione. Nel 1861 realizzarono un terzo motore a stantuffi contrapposti a gas, presentato all’Esposizione nazionale di Firenze dello stesso anno e fatto costruire dall’impresa meccanica di fama internazionale Escher Wyss e C. di Zurigo. Un ultimo motore, costruito nel 1863 dall’industria meccanica Bauer e C. Elvetica di Milano, venne presentato all’Istituto lombardo di scienze, lettere ed arti e premiato con medaglia d’argento.
Il successo ottenuto da quest’ultimo motore e le numerose richieste pervenute da industriali italiani e stranieri indussero la Società a dare il via alla produzione su larga scala e si decise di affidarne il compito alla Società anonima John Cockerill e C. di Seraing, vicino a Liegi in Belgio, forse la più famosa impresa siderurgica e metalmeccanica del continente europeo. Ma, giunto in Belgio nel marzo del 1864 e dopo aver dato dimostrazione del funzionamento del motore realizzato a Milano l’anno prima, Barsanti morì ponendo fine così alla realizzazione del progetto della messa in produzione (Arrighi 1964). Come ebbe a scrivere Giuseppe Colombo «Barsanti è morto qualche anno fa senza aver gustato la gioja di veder riconosciuto il frutto del suo lavoro, di veder compensati dal successo le privazioni, gli stenti, i dolori che esso dovette costargli» (G. Colombo, L’Esposizione internazionale di Parigi del 1867, 1868, in Id., Industria e politica nella storia d’Italia. Scritti scelti: 1861-1916, a cura di C.G. Lacaita, 1985, p. 196).
Le cose non andarono meglio a Matteucci, il quale si era dimesso il 18 dicembre 1862 da direttore tecnico della Società anonima del nuovo motore Barsanti e Matteucci a causa di un grave esaurimento nervoso, di cui era caduto preda a Parigi nel tentativo fallito di far valere i brevetti depositati con Barsanti contro quello di Lenoir.
Al momento della morte di Barsanti la direzione tecnica della Società anziché tornare a Matteucci, che nel frattempo era guarito, passò nelle mani degli scolopi Giovanni Antonelli e Filippo Cecchi, fino al fallimento nel 1866. Pur deluso per l’esclusione, egli continuò nelle ricerche sui motori a scoppio, brevettando nel 1866 un motore igneo-pneumatico a doppio effetto, per poi tornare all’idraulica realizzando un pluviometro e, presso le Officine Galileo di Firenze, l’idrometrografo, strumento che indica le variazioni della portata dei fiumi (Ricci 2009).
Tommaso Agudio e le ferrovie montane
Come Barsanti, anche l’ingegnere ferroviario Tommaso Agudio (1827-1893) presenta un profilo coerente di inventore, dedito per tutta la vita a un unico campo di ricerca. Laureato a Pavia nel 1849 e poi a Parigi l’anno dopo, era stato capo dell’ufficio tecnico nella costruzione della ferrovia Parigi-Mulhouse. Tornato in Italia, fu tra i progettisti della fonderia di cannoni di Torino, ma soprattutto si dedicò agli studi per un nuovo sistema di trazione dei convogli ordinari nelle ferrovie con forte pendenza. La biografia di Agudio consente di giungere a una fase finalmente matura della storia delle invenzioni e degli inventori italiani, paragonabile a quella attraversata negli stessi anni dalle altre nazioni industrializzate. A partire dal percorso formativo, fin dall’inizio focalizzato sulla tecnica, alla specializzazione delle sue competenze e alla risposta che ebbe dal sistema industriale nel quale si trovò a operare, nella sua vicenda personale appaiono superate le difficoltà e le incomprensioni incontrate da tecnici e inventori di pochi anni più anziani di lui.
Alla loro nascita, nel 1829, le ferrovie soffrivano alcuni vincoli strutturali apparentemente insormontabili nelle curve e nelle pendenze. Le prime locomotive, infatti, erano utilizzabili solo su strade che avevano minime pendenze e curve di grande raggio. Negli Stati Uniti, fin dagli anni Trenta, erano state prodotte in via sperimentale locomotive in grado di affrontare pendenze del 22 per mille, ma solo nel 1851 entrarono in servizio regolare.
In Europa, uno dei primi casi in cui si rese necessaria la realizzazione di un locomotore speciale fu la linea Alessandria-Genova, inaugurata nel dicembre del 1853, nella quale si trova la salita dei Giovi con pendenza del 35 per mille. Da qui la ricerca di altri sistemi, primi fra tutti quelli che facevano muovere un convoglio attaccandolo a un cavo messo in movimento da una macchina fissa operante a un’estremità della strada. Con il grande sviluppo ferroviario di metà secolo e la necessità di oltrepassare i valichi alpini con costi d’impianto e di esercizio sostenibili, divenne sempre più urgente superare questi vincoli tecnici. Uno dei modi possibili era la realizzazione di lunghe gallerie a foro cieco con due soli punti di attacco. Si trattava di imprese enormemente costose, che richiedevano molti anni per essere realizzate e che esigevano anche queste il superamento di alcune questioni tecniche. Il tunnel di tredici chilometri del Fréjus nelle Alpi Cozie, che metteva in comunicazione il Regno di Sardegna con la Francia, concluso nel 1871, fu il primo a dimostrare che questo tipo di impresa era possibile.
Ma negli anni Sessanta i tempi e i costi per la realizzazione di gallerie erano ancora poco competitivi e la ricerca di una soluzione mediante la trazione diretta (con i sistemi pneumatici o con i sistemi funicolari) continuava a sembrare a molti la soluzione migliore. Fra i sistemi funicolari quello dell’ingegnere Agudio appariva a molti come il più efficace. A differenza degli altri sistemi funicolari a trazione diretta, il sistema Agudio rendeva la trazione a fune concretamente applicabile anche su linee lunghe, sinuose e di traffico importante. Questa invenzione, che fu via via da lui perfezionata, non utilizzava funi trainanti, ma le funi metalliche attraverso un sistema di pulegge trasmettevano il moto a un carrello che fungeva da locomotore in grado di spingere i vagoni. L’aderenza era garantita dalla massa del carrello e in alcuni casi da sistemi ausiliari a cremagliera. Il movimento era impresso da motori collocati a monte e a valle dell’impianto. Dopo una prima prova pratica compiuta nel 1863, il sistema Agudio fu sperimentato su grande scala sulla ferrovia provvisoria del Moncenisio. I lavori per la realizzazione del «piano inclinato» Lanslebourg-Mont-Cenis furono iniziati nel 1869 e, dopo l’interruzione per la guerra franco-prussiana, nonostante il diminuito interesse per l’impresa con l’apertura del traforo del Fréjus, furono portati a termine nel 1874.
Forte di una notevole considerazione, che faceva scrivere a Giuseppe Colombo nel 1867 «il locomotore dell’Ing. Agudio fu la sola cosa, in tutta l’Esposizione meccanica italiana, che difendesse l’onore del paese e mostrasse ancor vivo il genio nazionale» (G. Colombo, L’Esposizione internazionale di Parigi del 1867, cit., p. 199), Agudio tentò di imporre il suo metodo nella realizzazione della strada ferrata delle Alpi elvetiche. Il ministro dei Lavori pubblici, Stefano Jacini, determinato a dare il via all’impresa ferroviaria, nominò nel 1865 una commissione, costituita da autorevoli tecnici, con il compito di esaminare i vari sistemi a trazione diretta. La conclusione della commissione riconosceva al sistema Agudio e alla locomotiva ad aderenza artificiale dell’inglese John Barraclough Fell l’idoneità a essere impiegati nelle ferrovie di montagna per superare pendenze dal 40 all’80 per mille. Ma nel caso del passaggio delle Alpi elvetiche, riteneva la loro utilizzazione solo temporanea, in attesa della realizzazione di un apposito traforo, che sarà poi quello di quindici chilometri del Gottardo, i cui lavori iniziati nel 1872 furono portati a termine dieci anni dopo (Lacaita 1984).
Venuta meno la possibilità di utilizzare in modo permanente il suo sistema sui grandi valichi alpini, nel 1878 ottenne comunque con la società Agudio Bellani Cail e C. di realizzare la ferrovia a scartamento ridotto tra Torino e il colle di Superga, e nel 1883 la concessione della linea da Sassi a Superga, inaugurata l’anno seguente (Gulli 1960).
Un percorso accidentato
A partire dal ruolo svolto dalle accademie nel valorizzare e stimolare la pratica e la sperimentazione individuale, ancora sganciate dalle imprese, accogliendo nelle esposizioni i primi timidi tentativi di miglioramento e inserendoli nel circuito dell’informazione dal quale erano esclusi, si sono delineati i percorsi lenti e faticosi dell’innovazione tecnologica italiana. Si è notato come abbiano subito poi un’accelerazione, in seguito a una messa in moto più decisa dell’intera società italiana a partire dagli anni Quaranta, con la diffusione degli studi di economia applicata e di statistica, le società d’incoraggiamento, i congressi degli scienziati, l’organizzazione di mostre industriali e di concorsi finalizzati al perfezionamento di metodi e strumenti operativi, la crescita di un’editoria sempre più interessata allo sviluppo delle scienze, fino all’istituzione, dopo l’Unità, di formalizzati corsi di studi tecnici superiori.
La mancanza nell’Italia prima risorgimentale poi dei primi decenni unitari di inventori davvero importanti, fatta eccezione per Meucci, potrebbe far ritenere l’intero Ottocento quasi irrilevante nella storia dell’inventiva tecnica italiana. Si è cercato di dimostrare come invece, nella trama quotidiana degli sforzi tesi a promuovere l’innovazione tecnologica e lo sfruttamento dell’ingegno, vada cercato un elemento di estremo interesse di questo periodo storico. E come abbia svolto una funzione preparatoria sulla consapevolezza delle classi dirigenti e degli stessi lavoratori, predisponendo strumenti e occasioni che avrebbero consentito, fra gli ultimi due decenni del secolo e l’inizio del Novecento, il salto che avrebbe portato anche l’Italia al passo con le altre nazioni industrializzate.
Bibliografia
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