investimento diretto estero
investiménto dirètto èstero locuz. sost. m. – Investimento effettuato da imprese multinazionali che operano in paesi diversi da quello dove è insediato il centro della loro attività. Gli investimenti diretti esteri, noti anche con la sigla IDE, possono essere greenfield, quando danno origine a impianti e capacità produttiva del tutto nuovi, oppure nascere da operazioni di (v.) o acquisizione finalizzate all’acquisizione di partecipazioni durevoli (di controllo, paritarie o minoritarie) di imprese locali preesistenti. Gli IDE possono inoltre essere di tipo verticale, quando danno luogo alla produzione degli stessi beni e servizi in differenti paesi, oppure orizzontale, quando singole fasi del processo produttivo sono delocalizzate e frammentate a livello geografico (v. ). Il paradigma interpretativo cui si fa riferimento per spiegare la relazione tra vantaggi e scelte di localizzazione delle imprese (definito anche approccio eclettico) tiene conto di tre elementi che possono spiegare la scelta di effettuare IDE: la proprietà, la localizzazione e l’internalizzazione (ownership, localization and internalization, da cui la sigla OLI con cui è conosciuto questo tipo di approccio). Le imprese multinazionali sono proprietarie di capitale umano, conoscenze, brevetti, tecnologie o vantaggi intangibili (la reputazione); tutti elementi che possono essere trasferiti e replicati in diversi paesi senza costo. Inoltre la vicinanza con i mercati di sbocco permette una maggiore prossimità ai consumatori finali, l’aggiramento di eventuali barriere al commercio e l’abbattimento dei costi di produzione e di trasporto. Infine, le imprese internalizzano la produzione per evitare i rischi legati alla cessione di informazioni proprietarie a terzi esterni all’impresa stessa. Infatti, cedendo la licenza di una propria produzione, l’impresa innanzitutto incorrerebbe nel rischio di imitazione del prodotto e inoltre dovrebbe sostenere costi di transazione con terzi. Se tutti e tre gli elementi sono presenti, le imprese opteranno per gli IDE; se il vantaggio di localizzazione non esiste, sceglieranno di produrre i loro beni nel mercato domestico, sfruttando le economie di scala per poi rivenderli all’estero; se invece il vantaggio di internalizzazione non è presente, alle imprese può convenire appaltare a terzi la produzione senza strutturarsi nella forma di investimenti diretti. Gli IDE rappresentano uno degli aspetti centrali del fenomeno della globalizzazione dell’economia e a partire dai primi anni Novanta fino al 2007 – anno in cui è esplosa negli Stati Uniti la crisi economica e finanziaria successivamente propagatasi in tutti i principali paesi industrializzati – il livello mondiale dei flussi di IDE ha mantenuto tassi di crescita superiori a quelli del prodotto lordo mondiale e dei flussi di interscambio. Il valore mondiale dei flussi è passato da poco più di 200 miliardi di dollari nel 1990 a circa 2000 miliardi del 2007, anche se, per effetto della crisi, questi si sono contratti a poco più di 1100 miliardi nel 2009, anno a partire dal quale è cominciata una nuova fase di ripresa, che ha portato il loro livello a circa 1500 miliardi di dollari nel 2011. La ripresa degli IDE alla fine del primo decennio del 21° secolo non è stata omogenea tra le aree di destinazione e la sua redistribuzione ha comportato l’emergere di una nuova geografia economica. La quota dei paesi industrializzati come destinatari degli investimenti è infatti scesa dal 41% nella media degli anni 2005-07 al 34% nel 2011, mentre nello stesso periodo quella dei paesi in via di sviluppo e in transizione è aumentata di 8 punti percentuali, passando dal 49% al 57%, con una crescita significativa di Cina, India e Russia come paesi non solo destinatari, ma anche esportatori di IDE (United nations Conference on trade and development, 2012).