INVESTITURE
La lotta per le investiture rappresenta l'epilogo d'una crisi nella storia della Chiesa. Già nell'età delle dominazioni barbariche papi e concilî avevano riconosciuto, o per lo meno tollerato, che i re esercitassero una certa partecipazione alla promozione dei chierici o dei preti alle dignità ecclesiastiche: il re cioè dava il suo "consenso" alla scelta del titolare d'una chiesa, d'una abbazia, scelta fatta secondo la tradizione dal clero e dal popolo per la chiesa, dalla comunità dei monaci per l'abbazia; non si ammetteva però che il re potesse influire e tanto meno imporsi nell'elezione episcopale o abbaziale. Ciò del resto era in relazione con la tradizionale autorità imperiale, riconosciuta anche dai pontefici, nelle questioni della Chiesa, per cui Costantino presiedette il concilio di Nicea e i papi stessi si consideravano sudditi dell'imperatore di Bisanzio, di cui sollecitavano l'approvazione della loro elezione.
Con Carlomagno, cui tanto larga ingerenza negli affari della Chiesa, grazie alle immense benemerenze, lasciarono i papi Adriano I e Leone III e più ancora sotto i successori di lui, per abuso e anche per il diffondersi dell'istituto della tuitio o defensio regia o imperiale in favore di chiese e più di monasteri, il potere regio si arrogò un più diretto intervento nella nomina dei vescovi e degli abati.
Quando poi per il pericoloso sviluppo dell'ordinamento feudale, specialmente gli Ottoni saranno costretti a contenere la strapotenza dei grandi signori laici, opponendo a costoro un altro ceto feudale meno riottoso, che non potesse perpetuare o tramandare di per sé a eredi o a successori i feudi avuti, troveranno appunto nei vescovi o negli abati i titolari, presumibilmente più docili e più ligi, delle marche e delle contee della rispettiva giurisdizione ecclesiastica, e l'elezione dei nuovi vescovi conti cadrà completamente nelle mani dell'imperatore o del re, che solo avrà diritto di dare l'investitura temporale con la consegna della spada e del gonfalone. I vescovi e abati quasi dappertutto rassodarono di fatto il titolo e il dominio conseguiti per regia donazione, debellando con l'aiuto delle masse urbane o rurali il signore laico ribelle alla corona. Fatti vassalli del re, vescovi e abati furono così legati al potere laico, e come questi chiamati a collaborare alle fortune del medesimo, non esclusa la partecipazione alle guerre, e, come questi, soggetti alle sanzioni regie, magari a essere deposti, senza che la superiore autorità ecclesiastica fosse comunque interpellata. L'investitura ecclesiastica essendo accoppiata a quella temporale, ambedue in potere dei laici, essa, come le cariche civili, era oggetto di brighe, di ambizioni, di pratiche venali; si presentavano candidati alle sedi vescovili o abbaziali persone, magari di condizione laicale, per nulla meritevoli della dignità, persone il cui solo titolo era quello di vantare forti aderenze nella Corte o nel ceto dominante e di poter disporre di grosse somme di danaro. Nessuna meraviglia che vescovi e abati, che senza scrupolo avevano per denaro acquistato le loro dignità, facessero alla lor volta mercato delle dignità minori soggette alla loro giurisdizione; nessuna meraviglia infine che si avessero prelati, cui la mondana potenza e le ricchezze facilmente traessero al disordine e alla corruzione più grave del costume. Il nicolaismo, cioè la violazione del celibato ecclesiastico, dilagò per tutto tra l'alto e il basso clero.
Il papato risentiva direttamente l'influenza dell'ambiente: lungi dal dominare la situazione, la subiva e ne portava i segni dolorosi. Anche la sede di Pietro, come sede vescovile e primaziale, era stata oggetto di competizioni, di contrasti. Dal diritto di conferma delle elezioni pontificie, esercitato dagl'imperatori bizantini, si era passati coi Carolingi al controllo della canonicità della medesima: questo in regime, diremo così, di legalitá; in regime di violenza o di disprezzo dei canoni, taluno degli stessi Carolingi prima e imperatori e re di Germania poi giunsero fino a regolare a loro volontà la scelta dei pontefici. Troppo spesso così si assisero sul trono di Pietro papi imposti con violenza in mezzo al cozzo delle fazioni romane o forestiere, persone indegne di reggere le sorti della Chiesa. In tali condizioni il papato non poteva esercitare alcun energico intervento nel disordine delle altre chiese. Ma già nella prima metà del sec. X uomini d'animo ardente nei chiostri e fuori additarono accorati le vie della salvezza, richiamarono senza posa i capi responsabili del governo della Chiesa al dovere di arrestare il disordine e di avviare il rinnovamento.
Un importante centro propulsore della riforma della Chiesa si suole additare, non a torto, nell'abbazia di Cluny (Borgogna). Là per opera del santo abate Oddone (926-942) e dopo di lui, di altri, la disciplina monastica veniva ricondotta al puro spirito della regola benedettina; di là tale restaurazione irradiava potenti fiotti di vita su gran parte delle comunità di Francia, d'Italia e di Germania. Contemporaneamente, o quasi, altri centri di riforma si ebbero, a Gorze presso Metz, a San Benigno di Digione per merito di San Guglielmo di Volpiano, a Einsiedeln per opera di San Volfango, a Camaldoli per lo zelo di San Romualdo, a Vallombrosa per impulso di San Giovanni Gualberto. Certo, questa molteplice opera di riforma fu prevalentemente monastica; ma non restò circoscritta ai monasteri; dai chiostri i monaci dissodarono per largo spazio il terreno all'intorno, su cui gli uomini preposti al governo della Chiesa poterono iniziare il lavoro intensivo e raccogliere infine ubertosa messe. È certo ancora che la necessità d'imperniare la riforma sulla liberazione della giurisdizione ecclesiastica dal potere laicale non poté essere avvertita e tanto meno attuata da quelle comunità monastiche (ed erano le più in verità) che avevano vincoli di sudditanza verso i re e verso potenti protettori, e tanto meno da quei vescovi o abati, che nel regime di confusione dei due poteri avevano potuto far fortuna o comunque assecondare le loro ambizioni. Lo stesso Attone, vescovo di Vercelli, valoroso assertore della riforma, non sa staccarsi dalla concezione invalsa di riconoscere all'imperatore, ai re, ai grandi signori feudali un certo diritto sovrano sulle chiese e sul clero della rispettiva giurisdizione. Ancora un secolo dopo sarà in quest'ordine d'idee San Pier Damiano.
Invece già nel sec. X il lorenese Raterio, vescovo di Verona, riaffermava il principio della suprema autorità della Chiesa come base fondamentale dei rapporti di questa con lo Stato e della riforma stessa; più nettamente ancora sostenne queste idee il conterraneo di Raterio, Vasone vescovo di Liegi, che denunciò gli abusi della potestà laicale sulle giurisdizioni ecclesiastiche; così press'a poco la pensava il lorenese, o borgognone che fosse, Umberto di Moyenmoutier, il cardinale-vescovo di Silva Candida, l'illustre consigliere dei papi Stefano IX e Nicolò II, il flagellatore dell'"eresia simoniaca", l'assertore della nullità delle ordinazioni sacerdotali fatte dai prelati simoniaci, l'oppositore tenace delle investiture laicali, il propugnatore del ritorno integrale alla tradizione canonica quanto alle elezioni episcopali e alla subordinazione della potestà secolare all'autorità spirituale.
Su queste stesse direttive si metterà il campione della lotta per la riforma Ildebrando da Soana, poi papa Gregorio VII. Ma una azione da parte del papato per purificare la Chiesa cominciò già da Leone IX (1048-1054). Nello stesso primo anno di pontificato egli convocò e personalmente presiedette uno dopo l'altro più concili, a Roma, a Pavia, a Reims, a Magonza, senza intendersi preventivamente con la corte di Germania, limitandosi a dare solo volta per volta comunicazione dei suoi propositi. Il problema nei detti concilî agitato fu quello della simonia, contro il quale malanno egli avrebbe voluto procedere, annullando tutte le elezioni conseguite attraverso questo indegno mezzo; ma dovette limitare le sanzioni, imponendo ai simoniaci una penitenza di quaranta giorni; in Roma stessa Leone incontrò una reazione violenta ai suoi propositi repressivi. A Magonza colpì anche il nicolaismo, forse perché in Germania questo disordine era più diffuso. Risultato in verità tutt'altro che felice, perché i prelati colpiti cercarono protezione e difesa presso le autorità secolari. Gli anni successivi dell'attivo pontificato non furono sotto questo riguardo più fruttuosi. Vittore II (1055-1057), eletto per designazione imperiale sollecitata dallo stesso clero e popolo romano, fu di tempra diversa dal predecessore; al concilio da lui convocato a Firenze il 4 giugno 1055 egli si fece premura d'invitare l'imperatore Enrico III; il concilio si limitò a confermare le precedenti sanzioni contro i simoniaci e i nicolaiti. L'assunzione al pontificato (agosto 1057) di Federico di Lorena (Stefano IX), fratello del duca Goffredo, che tanto aveva osteggiato la corona tedesca, parve offrire alla S. Sede l'occasione di liberarsi dalla tutela dei re tedeschi, tanto più che allora l'Impero nella minorità di Enrico IV era retto dalla vedova imperatrice e da un discorde consiglio di reggenza. Ma Stefano IX regnò poco (morì il 29 marzo 1058). Con Nicolò II (1058-1061), ancorché eletto in mezzo a contrasti di fazione e a intrighi della corte tedesca, la riforma fece un più risoluto passo innanzi; basterebbe a caratterizzarlo il decreto relativo all'elezione del papa, deliberato dal concilio lateranense dell'aprile 1059, in forza del quale la elezione suddetta veniva commessa ai cardinali vescovi con la collaborazione dei cardinali preti; al resto del clero e del popolo era riservato l'assenso, puramente formale, alla nomina; le prerogative dell'imperatore e re di Germania erano riservate con la vaga formula "salvi restando l'onore dell'Impero e la riverenza dovutagli"; l'eletto doveva appartenere possibilmente alla Chiesa romana. Un decreto conciliare del 1060 accordava al collegio elettorale suddetto la facoltà di deporre dalla sede di Pietro chi vi si fosse intruso con la simonia o con la violenza. Di fronte all'opposizione di parte della nobiltà romana e della corte imperiale, Nicolò II abilmente si premunì, alleandosi coi Normanni e col re di Francia. Per tal via poté tutelare altresì le importanti deliberazioni conciliari in materia di riforma: divieto ai preti nicolaiti di celebrare messa o comunque di assistere ai divini uffici e di percepire reddito alcuno dei beni della Chiesa; diffida ai laici di non ascoltare la messa di preti noti violatori dei canoni in materia. Aderendo alle idee di San Pier Damiano, Nicolò II volle dare una soluzione all'annoso e spinoso problema delle sacre ordinazioni fatte dai vescovi simoniaci: salva restando la deposizione di questi, fece deliberare dal concilio romano del 1060 la validità delle ordinazioni, che erano state concesse gratuitamente e ciò "per un sentimento di misericordia più che per ragioni di giustizia", proibendo però per l'avvenire anche siffatte ordinazioni sotto pena di annullamento. È piuttosto nell'ordine delle idee di Umberto di Moyenmoutier il canone VI del concilio del 1059, relativo al divieto fatto ai chierici e ai preti di ricevere comunque una chiesa dalle mani di un laico. Di qui al celebre decreto sull'investitura laicale, promulgato da Gregorio VII nel 1075, il passo è breve: al divieto puro e semplice saranno aggiunte le sanzioni contro i preti e i laici investitori; passo breve, ma tutt'altro che facile.
Non oserà farlo Alessandro II (1061-1073). Troppo questi fu assillato dall'ostilità delle fazioni e d'un antipapa, creatura della corte di Germania e dalle violenze dei Normanni. Egli non conta a vantaggio della riforma che le felici missioni in Francia e in Germania, affidate a San Pier Damiano, e la scomunica inflitta a consiglieri di Enrico IV, l'invito infine rivolto a costui di allontanare da sé gli scomunicati suoi collaboratori e di riparare ad altri disordini sotto pena di censure ecclesiastiche. A Gregorio VII (1073-1085), che era stato, se non di tutti i papi riformatori soprannominati, degli ultimi fervente collaboratore, la via era aperta alla soluzione decisiva del conflitto di fronte alla potestà laicale, ormai riconosciuta precipuo ostacolo alla riforma della Chiesa. Altrove (v. gregorio VII) si è detto quale grandiosa concezione egli avesse dell'autorità papale, espressa in modo caratteristico nei suoi Dictatus papae, quale energico governo abbia impresso alla Chiesa e soprattutto quale andamento appassionato e veemente abbia avuto il suo lungo contrasto con Enrico IV (v.). Qui si vogliono mettere in rilievo i tratti caratteristici del contributo da lui dato al trionfo della causa. Il programma gregoriano si accentra tutto nell'affermazione e nel riconoscimento del primato romano: attorno alla Chiesa romana si devono raccogliere le potestà tutte della terra, secolari e spirituali, in intima concordia e collaborazione per il bene della Chiesa universale e per la pace dei popoli. Sul terreno specifico della riforma egli attacca simultaneamente il disordine disciplinare tra il clero e l'investitura laicale. Il suo famoso decreto del 1075 colpiva tutti gli ecclesiastici che ricevessero dalle mani di un laico un vescovado, un'abbazia o altra dignità ecclesiastica inferiore; essi erano esclusi senz'altro dalla comunione della Chiesa; solo dimettendosi dalla dignità così conseguita potevano essere riammessi nella grazia di San Pietro; il decreto colpiva similmente il laico, chiunque fosse, che osasse disporre di un'investitura ecclesiastica. Quando Gregorio diede corso alle severe sanzioni suddette e ad altre contro i preti simoniaci e concubinarî, sorsero dappertutto malcontenti e reazioni: agli occhi di molti in Italia, in Germania, in Francia, Gregorio VII apparve un perturbatore della Chiesa e del civile consorzio. Sotto questa imputazione egli subì il tremendo contrasto con Enrico IV, senza avere il conforto di vedere nemmeno l'alba del trionfo. Il successore di Gregorio, Vittore III, già abate di Montecassino (1086-1087), ebbe un pontificato travagliato dal contrasto con l'antipapa, che tanto aveva afflitto Gregorio. Solo nel concilio di Benevento poté rinnovare i decreti del 1075.
Più felice il governo di Urbano II (1088-1099), che continua, pur in mezzo ai torbidi politici e ad onta dell'ostilita imperiale, il programma gregoriano. Egli è il papa della prima crociata; tenne alta l'idea della riforma, curò che fossero eletti vescovi prelati di retta condotta e d'alto sentire, colpì con le censure della Chiesa parecchi violatori dei canoni.
Pasquale II (1099-1118) tenne pure il governo della Chiesa secondo lo spirito gregoriano; ma o violenza di circostanze (contrasto con Enrico IV e poi con Enrico V) o minore fermezza di propositi lo trasse ad atteggiamenti tutt'altro che coerenti. Egli pure nei concilî convocati condannò le investiture laicali e l'"eresia simoniaca", ma nel sinodo di Guastalla dell'ottobre 1106, pur avendo rinnovate le sanzioni relative, acconsentì che fosse deliberato che tutti i vescovi e chierici, ordinati durante lo scisma causato dall'antipapa, fossero mantenuti nelle dignità conseguite, purché non risultassero usurpatori di sedi vacanti, simoniaci o rei di delitto contro la fede e il costume. Assai più grave la concessione, che egli s'indusse a fare a Sutri il 5 febbraio 1111: Pasquale II con atto che, se non avesse dovuto considerarsi destinato a un sicuro fallimento, si sarebbe potuto dire rivoluzionario e in ogni caso altamente magnanimo e restauratore della vera libertà della Chiesa, pur d'ottenere dalla corona di Germania la rinuncia alle investiture, s'impegnò a detta data d'emanare un decreto col quale si proibiva che "alcun vescovo o abate, presente o futuro, potesse occupare regalie, città, ducati, marche, contee, moneta, teloneo, mercato, avvocazie del regno, diritti di centurioni e corti con le loro pertinenze, milizia e castelli, che manifestamente appartenevano al regno". Ma lo stesso Enrico V liberò gli alti ecclesiastici dalla preoccupazione della rinuncia; col pretesto che costoro erano contrarî, egli rifiutò di stare all'accordo concluso coi delegati del papa a Sutri e poìché Pasquale II dinnanzi a tale resistenza rifiutò alla sua volta di concedergli la corona imperiale, Enrico passò alla violenza contro la persona stessa del pontefice, lo fece detenere, sino a tanto che non consentì a dargli la corona imperiale e a fare nella questione controversa la concessione che il re desse l'investitura con l'anello e col pastorale ai vescovi e agli abati del suo regno, eletti liberamente senza simonia e violenza. "Ricevuta l'investitura, gli eletti sarebbero stati consacrati dal vescovo o metropolita cui competeva". L'enormità dell'eccesso, a cui Enrico si era lasciato andare e la gravità delle rinunce fatte da Pasquale II (pravilegium e non privilegium si disse il suo decreto) rinunce che contraddicevano nello spirito e nella lettera a tante sentenze dei suoi ultimi predecessori e dei concilî, suscitarono specialmente in Italia e in Francia una vivacissima reazione: il concilio lateranense del 18 marzo 1112 proclamava privo d'ogni valore il decreto di Pasquale II e senza gettare, per desiderio del papa, contro il re la scomunica, invitava Enrico a rispettare i canoni e "le libertà" della Chiesa; parecchi vescovi di Francia e di Germania di loro iniziativa inflissero al monarca le censure ecclesiastiche. Enrico V però non cedette. A Callisto II (1119-1124), seguito a Pasquale II, dopo il breve e irrequieto pontificato di Gelasio II (1118-1119), toccò la lieta sorte di por fine al lungo contrasto, superando non lievi difficoltà.
Certo da una parte e dall'altra si sentiva il bisogno che gli odî e i contrasti posassero; Callisto Il stimolò l'imperatore a dar soddisfazione alla S. Sede, insistendo sul concetto che la rinuncia alle investiture non avrebbe menomato l'autorità regia; s'abboccò all'uopo con Enrico V a Mouzon il 24 ottobre 1119; ma il sovrano riluttava e pareva mirasse a guadagnar tempo; le pratiche di pace furono anzi rotte e dal concilio di Reims imperatore e antipapa furono di nuovo scomunicati. Ancora nel concilio di Worms, che pure stabilì i termini dell'accordo, due concezioni erano sempre in conflitto: secondo gli uni l'investitura conferita agli ecclesiastici era un'eresia; secondo gli altri le "regalie", per essere di diritto imperiale o regio, non potevano venire dal principe abbandonate, se non a scapito della corona; alla fine si giunse a una soluzione più equa e più consona all'esigenza delle circostanze: l'investitura spirituale doveva darsi d'ora innanzi solo dalla Chiesa; l'investitura temporale o delle "regalie" poteva darsi dall'imperatore o da chi per lui. Così si conchiuse il concordato di Worms del 23 settembre 1122, mediante la pubblicazione di due documenti: il "privilegio" di Callisto II e il "precetto" di Enrico V: con quello il papa concesse all'imperatore che le elezioni alle sedi vescovili o abbaziali di terre spettanti al regno di Germania fossero fatte alla presenza del re o d'un messo regio senza simonia e senza violenza; in caso di contrasto nell'elezione detta fosse lecito al re a o chi per lui dare il suo aiuto o consenso al giudizio, che sarebbero per emettere il metropolita e i vescovi suffraganei; l'eletto avesse a ricevere dal sovrano l'investitura delle "regalie" per mezzo dello scettro senza sottostare ad alcuna esazione e in conformità prestasse l'omaggio dovuto. Nelle altre parti dell'impero e cioè in Italia e in Borgogna, il consacrato entro sei mesi ricevesse similmente l'investitura temporale e prestasse conforme omaggio al re, salvi i diritti pertinenti alla Chiesa romana.
L'imperatore in forza del suo "precetto" rinunciava a ogni investitura spirituale e prometteva di lasciare a tutte le chiese piena libertà nelle elezioni e consacrazioni vescovili e abbaziali, che dovevano seguire a norma dei canoni; prometteva ancora alla Chiesa romana e alle altre chiese la restituzione dei beni loro tolti da lui e da suo padre e s'impegnava di mantenere pace con la S. Sede e di assicurare ad essa la sua protezione e difesa. Questi accordi furono approvati e giurati dai grandi dell'Impero a Bamberga l'11 novembre 1122; il papa ne prese atto ufficiale nel concilio lateranense del marzo 1123.
Così dopo una lotta quasi secolare, che tante violente passioni aveva scatenate in seno alla cattolicità, la Chiesa otteneva la sua libertà e cioè il diritto di provvedere da sé alla sua organizzazione, alla scelta dei suoi rettori maggiori e minori, dai quali in tanta parte dipendeva la restaurazione spirituale e morale della società, e quindi alla sua riforma.
Fonti: Benzone d'Alba, Ad Henricum imperatorem libri VII, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, XI, pp. 591-680; Ivi: Libelli de lite imperatorum et pontificum saeculi XI et XII conscripti (Hahn 1891-1897): tomo 1°; Pier Damiano, Liber gratissimus e Disceptatio synodalis; Umberto di Moyenmoutier, Libri III adversus simoniacos; Pietro Crasso, Defensio Henrici IV; Bonizone di Sutri, Liber ad amicum, tomo 2°: Liber de unitate Ecclesiae conservanda; Benone, card., Gesta Romanae Ecclesiae contra Hildebrandum; Deusdedit, card., Libellus contra invasores et symoniacos et reliquos schismaticos; Sigiberto di Gembloux, Apologia contra eos qui calumniantur missas coniugatorum sacerdotum; Ugo di Fleury, Tractatus de regia potestate et sacerdotali dignitate: tomo 3°; Ivo di Chartres, Epistolae ad litem investiturarum spectantes. - Epistolae pontificum Leonis IX. Alexandri II, in Migne, Patrologia Latina, CXIX, CXLIV, CXLV; Pier Damiano, Epistolae e altri scritti, ib., CXXXVI; Raterio di Liegi, Epistolae e altri scritti; Gregorii VII, Registrum; libri IX, in Epistolae selectae in usum scholarum ex monumentis Germaniae historicis separatim editae, Berlino 1920-1923; J. March, Liber Pontificalis prout extat in codice Dertusensi, Barcellona 1925; Watterich, Vitae Pontificum Romanorum, I, pp. 127-170; Guiberto, Vita S. Leonis papae, I, pp. 474-546, Paolo di Bernried, Vita S. Gregorii VII pontificis romani.
Bibl.: Per le indicazioni anteriori al 1924 ci si rimette alle citazioni bibliografiche dell'opera di A. Fliche, La Reforme Grégorienne, II, Lovanio 1924-1925, e della Cambridge Medieval History, Cambridge 1926, I e V, cap. 1°-3°, pagine 846-854; vedi ancora bibliografia data alle voci enrico iii; enrico iv, enrico v; gregorio vii; v. inoltre: E. Noris, Istoria delle investiture delle dignità ecclesiastiche, Mantova 1741; J. P. Whitney, Peter Damiani und Humbert, in Cambridge Hist. Journal, I (1925), pp. 225-248; P. Schmid, Der Begriff der Kanonischen Wahl in den Anfängen des Investiturstreites, Stoccarda 1926; B. Schmeldler, Kaiser Heinrich und seine Helfer, Lipsia 1927; A. Brackmann, Heinrich IV. als politiker beim Ausdruck des Investiturstreites, in Sitzungsberichte der Preussischen Akademie der Wissenschaften (Philol.-histor. Klasse), 1927, pp. 393-411; A. Brackmann, Die politische Wirkung der Kluniazensischen Bewegung, in Historische Zeitschrift, CXXXIX (1928), pp. 34-47; H. Feierabend, Die politische Stellung der deutschen Rechsabteien während des Investiturstreites, in Historische Untersuchungen, Breslavia 1929; E. Bernheim, Quellen zur Geschichte des Investiturstreites, 3ª ed., Lipsia 1930; Reissa Bloch, Die Klosterpolitik Leos IX in Deutschland, Burgund und Italien, in Archiv für Urkundenforschung, XI (1930); J. Evans, Monastic life at Cluny (910-1137), Oxford 1931.