iperbato
Il termine hyperbaton designava nella retorica greca il mutamento dell'ordine normale delle parole: distinguendo questa figura dall'anastrofe (v.), e rendendola col termine latino di transgressio, Quintiliano intendeva con essa la dislocazione (traiectio) di una parola dalla sua sede normale. Nella Rhetorica ad Herennium di Cicerone la transgressio comprende in senso lato l'anastrofe e l'i. propriamente detto (transiectio). Non particolarmente contemplato nelle poetiche del tardo Medioevo, tale schema era in pratica applicato diffusamente quale ornamento della prosa e della poesia latina, per l'intrinseco legame della frase che esso consente di attuare.
Meno interessante è ritrovare l'i. nella prosa latina di D. e nella prosa italiana che la ricalca. In quest'ultimo caso esso riguarda soprattutto la posizione evidenziata del predicato, distaccato dal suo sostantivo, il dislocamento del participio rispetto alla forma verbale che lo accompagna. Importa invece esaminare l'uso dell'i. nella Commedia, dove esso assolve al compito tradizionalmente dato a questo schema.
Il caso più frequente è quello della trasposizione del soggetto, sia che, situato in rima, richiami semplicemente l'attenzione del lettore (vedi che torna / dal servigio del dì l'ancella sesta, Pg XII 80-81; come per verdi fronde in pianta vita, XVIII 54), sia che contribuisca, con la sua particolare collocazione, a una maggiore imponenza descrittiva: Tutte le stelle già de l'altro polo / vedea la notte (If XXVI 128-129); ben cinquanta gradi salito era / lo sole (Pg IV 15-16); già prato di fiori / vider, coverti d'ombra, li occhi miei (Pd XXIII 81-82). In questi ultimi luoghi, tuttavia, la collocazione del soggetto, invertita rispetto al verbo, potrebbe essa stessa dipendere dalla collocazione anticipata dell'oggetto o dell'avverbio (cfr. Anastrofe). Quest'ultima, poi, è richiesta dall'esigenza di porre in risalto il concetto preminente (v. ad es. l'anima col corpo morta fanno, If X 15; silenzio posto avea da ogni parte, Pd XXVII 18), o di elevare il tono retorico del discorso, come nelle parole di Corrado Malaspina (se novella vera di val di Magra o di parte vicina / sai, Pg VIII 115-117). Un duplice i. s'incontra in una medesima terzina che intende parafrasare un versetto biblico (e quei c'hanno a giustizia lor disiro / detti n'avea beati, e le sue voci / con sitiunt', sanz'altro, ciò forniro, Pg XXII 4-6), dove all'anticipazione dell'oggetto nella prima proposizione fa riscontro la posposizione del verbo nella seconda, con l'effetto di evidenziare, ai lati estremi del primo e del terzo verso, i due termini chiave del versetto (desiro - sitiunt).
Talora la collocazione del soggetto, ritardata nell'ultimo verso della terzina, crea il giro eloquente della frase, dai toni più smorzati come in If I 42-44 (si ch'a bene sperar... / l'ora del tempo e la dolce stagione), a quelli più retorici come in Pd XVII 1-3 (Qual venne a Climenè... / quei ch'ancor fa li padri ai figli scarsi), a toni altamente lirici come nell'ultima terzina del Paradiso. L'uso di distaccare il participio dall'ausiliare, situandolo in rima, mira analogamente a dare organicità e decoro al verso: ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero / ne l'empireo ciel per padre eletto (If II 20-21); là 've del ver fosti a Troia richiesto (XXX 114); Più era già per noi del monte vòlto (Pg XII 73); per li occhi fui di grave dolor munto (XIII 57), dove l'i. concorre a dar vigore alla metafora.
Così in Pg V 84 la traiectio del predicato, collocato in rima, intensifica la desolata immagine (de le mie vene farsi in terra laco). Ed è ancora l'i. a dare al predicato una particolare espressione affettiva in If XXX 18-19 (e del suo Polidoro in su la riva / del mar si fu la dolorosa accorta) e in XXXIII 88 ss. (Innocenti facea l'età novella...), o risalto visivo in XII 1-2 (Era lo loco ov' a scender la riva / venimmo, alpestro). In Pg V 135-136 (salsi colui che 'nnanellata pria disposando / m'avea...) attraverso l'i. il predicato sottolinea il dolce e nostalgico ricordo, cui si oppone la tragica fine pudicamente taciuta da Pia, e contribuisce nello stesso tempo a creare, con la difficile costruzione, il mistero delle sue lapidarie parole.
La funzione di legame svolta dall'i., e quindi la stretta relazione di esso con la poetica dantesca, è evidente nell'uso di separare l'attributo dal suo sostantivo, come in questo caso tipico, in cui la distanza è calcolata sulla misura del verso: non però che puro / già mai rimagna d'essi testimonio (Pg XIV 119-120). La si ritrova poi nell'uso di separare lo specificante dallo specificato: vidi due mostrar gran fretta / de l'animo, col viso, d'esser meco (If XXIII 82-83), dove ancora i due termini sintatticamente legati si collocano all'estremità di due versi. Più vicino all'influsso stilistico della lingua latina è l'i. in casi come e di mostrar lo 'nferno a lui intendo (If XXIX 96), Se per veder la sua ombra restaro (Pg V 34). La trasposizione del verbo alla fine del periodo ha però, talora, una forte motivazione espressiva, come in Pd XII 91-95 (non dispensare... / non la fortuna... / non decimar... / addimandò...), dove l'i. è rafforzato dal concorso dell'anafora. Ancora al modulo latino va riportato l'i. in Pg II 94 (Nessun m'è fatto oltraggio), o nei casi in cui la relativa è separata dal termine che essa specifica (l'ombra sua torna, ch'era dipartita, If IV 81; ad ogne cosa è mobile che piace, Pg XVIII 20), dove, al fondo, è sempre l'esigenza di dare unità al verso. Così in Pg XX 26-27 l'esempio morale racchiuso in due versi (con povertà volesti anzi virtute / che gran ricchezza posseder con vizio) trae la sua efficacia dall'i., che ha allontanato, ponendoli in evidenza, i due termini essenziali e ha dato a tutta la frase un difficile movimento.
Si fa rientrare nel genere dell'i. la dialisi, che consiste propriamente nell'inserire un'espressione parentetica fra due parti del discorso sintatticamente collegate. Non molto frequente nella Commedia, la dialisi risponde tuttavia all'esigenza del tono discorsivo (la selva, dico, di spiriti spessi, If IV 66; del mio attender, dico, e del vedere, Pd XXIII 17; cantando, credo, il ben ch'a sé le move, XVIII 99), o della struttura dialogica della narrazione, anche se mira sovente, in questi casi, a dar risonanza alle parole riportate (" S'elli han quell'arte ", disse, " male appresa... ", If X 77; " La Grazia che mi dà ch'io mi confessi ", / comincia' io, " da l'alto primipilo... ", Pd XXIV 58). Può aggiungersi a queste ultime una rara dialisi come la prima cosa che per me s'intese, / " Benedetto sia tu ", fu, " trino e uno... ", Pd XV 46-47. Più preziosa ancora è poi quella di Pg XX 136-137 (‛ Gloria in excelsis ' tutti ‛ Deo ' / dicean), perché interrompe l'unità del versetto latino, ma innestando sintatticamente il Deo nella frase volgare. Il medesimo schema compare nell'uso frequente di spezzare l'ordine sintattico inserendo un verbo nella forma gerundiva: nulla quasi / per me fatica, andando, si riceve, Pg 119-120; e io pensai, andando, / prode acquistar, XV 41; per quel ch'io vidi di color, venendo, / cui buon volere e giusto amor cavalca, XVIII 95-96; quanta pareami allor. pensando, avere, XX 148; di bella verità m'avea scoverto, / provando e riprovando, il dolce aspetto, Pd III 2-3.
Già nella Vita Nuova era in atto la tendenza a interrompere l'ordine normale della frase, o mediante una parentesi (andavano, secondo che mi parve, molto pensosi, XL 2), o mediante la traiectio del verbo (e li sospiri m'assalivano grandissimi e angosciosi, XXXVII 3) per dar vigore coesivo al discorso, e risalto ai predicati.
Nella sua forma più evidente la dialisi è adoperata per introdurre una precisazione e riguarda il carattere raziocinativo dello stile dantesco: tal mi fec'io, ma non a tanto insurgo, / quand'io odo nomar, Pg XXVI 96-97; Ma poi ch'al poco il viso riformossi / (e dico ‛ al poco '...), XXXII 13-16; nel qual, si come vita in voi, si lega, Pd II 141.