iperbole
L’iperbole (dal gr. yperbolḗ, in lat. superlatio) è una figura retorica che consiste nel portare all’eccesso il significato di un’espressione, amplificando o riducendo il suo riferimento alla realtà per rafforzarne il senso e aumentarne, per contrasto, la credibilità.
Tradizionalmente, l’iperbole coincide con l’esagerazione, cioè col proferire un enunciato in cui il riferimento alla realtà è reso calcolatamente incredibile proprio per intensificare l’espressione di partenza fino a portarla al massimo o al minimo grado, con effetti di varia natura, anche ironici e paradossali. Ecco alcuni esempi italiani, di segno positivo e negativo:
(1) amare da morire
aspettare da una vita
aspettare un secondo
bere un goccio
dire un milione di volte
essere (stanco) morto
fare quattro passi
salire alle stelle
spezzarsi il cuore
In (1) sono contenute espressioni che si caratterizzano per essere modi di dire abusati (tecnicamente, catacretici) o iperboli d’uso (cfr. Mortara Garavelli 1993) e che segnalano l’impossibilità di essere ‘prese alla lettera’, costringendo il destinatario a risolvere da sé l’incongruità tra quanto si dice e quanto si vuole fare intendere.
Da questo punto di vista, l’iperbole è il corrispettivo grammaticale e retorico dei dispositivi linguistici mediante cui si determina il grado con cui diverse entità comunicano la loro idea (ad es., il ➔ superlativo degli aggettivi).
I latini chiamano l’iperbole superlatio. Con questo termine nella Retorica a Gaio Erennio (opera del I sec. a.C. per tradizione attribuita a Cicerone ma in realtà di autore ignoto, il cosiddetto Pseudo-Cicerone) viene indicata quell’espressione che serve per accrescere o diminuire qualcosa oltre la verità. Essa si può ottenere direttamente (per es., misurare l’estensione dell’impero col sorgere e il tramontare del sole) o con il confronto di uguaglianza (nel volto eguaglia l’ardore del sole), ma anche di superiorità (fluiva un discorso più dolce del miele). Nella sua Institutio oratoria Quintiliano mantiene il termine greco e considera l’iperbole come la forma più audace nell’abbellimento (ornatus) dei discorsi. Essa si presenta in diversi modi: dicendo più di quanto avviene o è avvenuto; con una similitudine; con un paragone; o per mezzo di una metafora. Ma si possono anche accostare più iperboli per rafforzarne l’effetto (VIII, 6, 67-70), pur considerando che si tratta di una figura difficile: l’iperbole è infatti una «bugia» che non vuole ingannare, sicché è il fatto stesso di cui si vuol parlare ad andare «oltre la misura» (VIII, 5, 74-76).
I trattati alto-medioevali delle artes poetriae (XI-XII secolo), accogliendo questa definizione, inseriscono l’iperbole nell’ornatus gravis, in quanto tendono a considerarla come un tropo e a collocarla accanto alla ➔ metafora, alla ➔ metonimia e alla ➔ sineddoche. Nasce così la tradizione dell’iperbole come tropo composto, che ottiene il suo effetto a partire da altre figure retoriche (con esempi come un oceano di sangue scorreva come il mare). Goffredo di Vinosalvo nella sua Poetria nova (vv. 1013-19; Faral 19622), raccomandando l’iperbole, mette in guardia rispetto a un suo impiego selvaggio che ferirebbe la mente e l’orecchio, mentre un uso accorto risponde perfettamente all’esigenza di amplificare o diminuire le lodi. Del resto, questo modo di collegare l’iperbole alle lodi è incluso nel topos medievale, e prima classico, del panegirico iperbolico o sopravanzamento (Curtius 1992: 182 segg.) che consiste nel ‘magnificare’ oltre misura una persona, un evento o anche una descrizione naturale. Nel rivolgersi al papa destinatario della sua opera, lo stesso Goffredo lo definisce come stupor mundi («meraviglia del mondo»).
Lo stile iperbolico del sopravanzare nella descrizione gli altri poeti è raccolto da ➔ Dante nella Commedia quando, ad es., ricorre alla tipica formula «taccia», riferendosi a Lucano e a Ovidio:
(2) Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca del misero Sabello e di Nasidio. […] Taccia di Cadmo e Aretusa Ovidio (Inf. XXV, 94-95, 97)
Ma l’iperbole, nella sua forma più tipica, è piuttosto frequente nella Commedia. Qui si ricorre spesso all’impiego del numero simbolico per intensificare la quantità, secondo una tradizione già classica:
(3) Per mille fonti, credo, e più si bagna (Inf. XX, 64)
(4) “O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente” (Inf. XXVI, 112-113)
(5) se per mille fiate in sul capo mi tomi (Inf. XXXII, 102)
In altri casi, la quantità viene espressa per via metaforica (con l’uso del termine laco per riferirsi al sangue):
(6) vid’io delle mie vene farsi in terra laco (Purg. V, 84)
o per attenuazione (col termine gocciol per indicare una minima quantità di acqua: «e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo», Inf. XXX, 63; od oncia, una minima misura di spazio: «ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia», Inf. III, 83). In Dante l’impiego dell’iperbole consegue però a una pluralità di esigenze espressive. In particolare, la Commedia inaugura il tema iperbolico dell’indicibile e dell’ineffabile e, insieme, prosegue quello (già della Vita nova) della ‘loda’ della donna in quanto figura mistica:
(7) lucevan gli occhi suoi più che la stella (Inf. II, 55)
Fra i vari temi cui si presta l’uso dell’iperbole, quello dell’amplificazione iperbolica della donna amata si instaura nella tradizione lirica italiana e diventa forse il modulo più ricorrente. Ciò appare nei testi poetici di ➔ Francesco Petrarca, con versi celeberrimi («che ’n mille dolci nodi gli avolgea», Canz. XC, 2). In partic., però, l’iperbole si realizza, ancor più che in Dante, come schema compositivo globale capace di organizzare il testo nel suo complesso:
(8) Le stelle, il cielo et gli elementi a prova
tutte lor arti et ogni estrema cura
poser nel vivo lume, in cui Natura
si specchia, e ’l sol che altrove par non trova (Canz. CLIV, vv. 1-4).
Lo stile dell’esagerazione iperbolica come meccanismo testuale è ampiamente testimoniato nel Seicento (ad es., con Giovan Battista Marino; ➔ età barocca, lingua dell’). Ma fu soprattutto l’Ottocento a riportare in auge l’iperbole come forma ricorrente dell’ornatus. Lo testimonia il manuale di Pierre Fontanier che descrive l’iperbole come autentica figura di «veridizione», cioè di produzione di un «effetto rafforzato di verità». Nel collegare le cose ben al di sopra o ben al di sotto di quelle che sono, l’iperbole rafforza l’effetto di credibilità perché porta a intensificare quanto viene detto di incredibile (Fontanier 1971: 123-124). La figura mostra così tutta la sua disponibilità a incrementare i toni forti ed emozionali di un intento comunicativo che si propone di trasmettere al lettore ampliate sensazioni di varia natura (dall’esasperazione all’esaltazione al delirio). Così leggiamo in ➔ Ugo Foscolo:
(9) Allor lento io vagando, ad una ad una palpo le piaghe onde la rea fortuna
e amore e il mondo hanno il mio core aperto (Sonetti, “Così gl’interi giorni”, vv. 7-8)
Foscolo impiega l’iperbole anche concentrandovi più artifici figurativi:
(10) Figlio infelice, e disperato amante,
e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,
giovine d’anni e rugoso in sembiante,
che stai? (Sonetti, “Che stai?”, vv. 9-12)
Lo stesso si può dire per ➔ Giacomo Leopardi:
(11) Fugaci giorni! A somigliar di un lampo
son dileguati! (Canti, “Le ricordanze”, vv. 131-32)
(12) il giovanile stato
dove ogni ben di mille pene è il frutto (Canti, “Il tramonto della luna”, vv. 35-37)
che riprende il tema iperbolico dell’indicibile, come nei celebri versi:
(13) Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno (Canti, “A Silvia”, vv. 26-27)
Per ➔ Alessandro Manzoni, invece, i toni iperbolici sembrano riportarsi a moduli più classici:
(14) Dalle Alpi alle Piramidi
dal Manzanarre al Reno
di quel securo il fulmine
tenea dietro il baleno
(“Cinque maggio”, vv. 25-28)
o, come spesso avviene, collegano l’iperbole con l’ironia (col celebre riferimento ai «venticinque lettori» del primo capitolo dei Promessi sposi).
Nell’Ottocento l’iperbole entra come figura caratteristica anche nei testi a diffusione popolare, come i libretti d’opera lirica (➔ melodramma, lingua del); così nella Bohème:
(15) Per sogni, per chimere
e per castelli in aria
l’anima ho milionaria (Quadro primo)
o negli inni (così in “Fratelli di Italia” di Goffredo Mameli:
(16) Dall’Alpe a Sicilia,
ovunque è Legnano (vv. 28-29).
Nel Novecento, il clima culturale delle avanguardie consente all’iperbole forme originali soprattutto per quella che è stata chiamata iperbole combinata (Lausberg 1960). Ad es., nel futurismo di Filippo Tommaso Martinetti, l’iperbole penetra nella parola fino a dilatarla graficamente:
(17) Veramente dio d’una razza d’acciaio
Automobile ebbrrrezza di spazio, che scalpiti e frrremi d’angoscia (Lussuria-velocità, “All’automobile da corsa”, vv. 1-3)
In altri casi, l’iperbole è sempre più dissimulata combinandola con la metafora e l’➔ epifonema, come in Dino Campana:
(18) Nel cuore della sera c’è
sempre una piaga rossa languente
(Canti orfici, “L’invetriata”, vv. 10-11)
o in Giuseppe Ungaretti:
(19) È il mio cuore
il paese più straziato
(L’allegria, “San Martino del Carso”, vv. 11-12).
Nella seconda parte del Novecento, ➔ Eugenio Montale conferma la tendenza dell’iperbole a presentarsi ‘pura’ («Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale»; Satura, Xenia, II 5, v. 1) o più spesso combinata in formule sentenziose:
(20) che il vuoto è il pieno e il sereno
la più diffusa delle nubi
(Satura, Xenia, I, 14, vv. 11-12).
Agli inizi del XXI secolo, l’iperbole si manifesta attraverso molti mezzi, ad es., con i suffissi espressivi che consentono al parlante ampi margini per amplificare o diminuire quanto dice, agendo sui nomi, sui verbi e sugli avverbi (il caso di attimino o subitissimo, per indicare un minuscolo periodo di tempo, è emblematico). Ma nella cultura di massa, l’iperbole trova facile alimento nei testi pubblicitari e in quelli parodico-comici. Essa si presenta anche nelle canzoni (➔ canzone popolare e lingua), confermando la tendenza ottocentesca a intensificare il valore emozionale delle informazioni (ad es., espressioni come «mi costa una vita», riferita a una motocicletta, in Lucio Battisti, o «bussò cent’anni ancora alla tua porta», in un testo di Fabrizio De Andrè).
Lo stesso – e in maniera più raffinata – può valere per il discorso politico, i cui meccanismi iperbolici sono molto più complessi (➔ politica, linguaggio della) e comportano un insieme di tecniche argomentative che orientano lo spettatore. Non si disdegna in questo senso il ricorso all’ironia ‘congelata’ in aneddoti o barzellette che rendono più vigorosi i sottintesi («Il Presidente del Consiglio cammina sulle acque!»; il giornale dell’opposizione titola: «Il Presidente non sa nuotare»; Reboul 19942). Si tratta di un costume retorico che è alimentato probabilmente da un clima di eccesso e di esagerazione tipico della cultura dello spettacolo e di cui l’iperbole è stata per secoli, nei testi poetici e letterari, la figura regina.
Cicerone, Marco Tullio (1992), La retorica a Gaio Erennio, in Id., Tutte le opere, Milano, Arnoldo Mondadori, 33 voll., vol. 32°.
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Curtius, Ernst Robert (1992), Letteratura europea e Medio evo latino, a cura di R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia (ed. orig., Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern, Francke Verlag, 1948).
Faral, Edmond (19622), Les arts poétiques du XIIe et du XIIIe siècle. Recherches et documents sur la technique littéraire du Moyen âge, Paris, Champion (1ª ed. 1924).
Lausberg, Heinrich (1960), Handbuch der Literarischen Rhetorik. Eine Grundlegung Literaturwissenschaft, München, Max Hueber Verlag, 2 voll.
Mortara Garavelli, Bice (1993), Le figure retoriche. Effetti speciali della lingua, Milano, Bompiani.
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Reboul, Olivier (19942), Introduction a la rhétorique. Théorie et pratique, Paris, Presses Universitaires de France (1a ed. 1991; trad. it. Introduzione alla retorica, a cura di G. Alfieri, Bologna, il Mulino, 1996).
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