Ipertensione arteriosa
di Cesare Bartorelli e Alberto Zanchetti
Ipertensione arteriosa
sommario: 1. Introduzione. 2. Classificazioni e terminologia. 3. Storia dell'ipertensione arteriosa: a) storia di un problema clinico; b) storia di un problema sperimentale. 4. Emodinamica dell'ipertensione arteriosa: a) gettata cardiaca nell'ipertensione; b) resistenza dei vari letti vascolari. 5. Dati e ipotesi sui meccanismi dell'ipertensione: a) meccanismi renali; b) meccanismi nervosi; c) meccanismi vascolari; d) la patogenesi dell'ipertensione: un'ipotesi di sintesi. 6. Il problema dell'ipertensione: retrospettiva e prospettive. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Ci sono varie ragioni che si possono addurre per rispondere alla domanda, anche troppo ovvia, perché un argomento apparentemente limitato e specifico, quale l'ipertensione arteriosa, debba trovare posto - a rappresentare le malattie cardiovascolari - in un'opera dedicata a problemi generali. Ci sono invero ragioni sociali, scientifiche e cliniche. Sotto l'aspetto sociale, l'ipertensione può essere definita la malattia del secolo, perché viene riconosciuta con una frequenza sempre maggiore in un gran numero di popolazioni sparse nella maggior parte del globo; e, nello stesso tempo, il suo trattamento - come vedremo - rappresenta il mezzo più serio e fondato per la realizzazione di quel passaggio da una medicina curativa a una medicina preventiva, che sembra debba caratterizzare i decenni a venire: passaggio che in molti altri campi è ancora, forzatamente, un'aspirazione, quando non una mera affermazione verbale. Sotto l'aspetto scientifico, le ricerche sull'ipertensione arteriosa possono essere riassunte non tanto a esemplificare lo studio di una condizione morbosa, sia pur diffusa e importante, bensì a illustrare un fertile campo di studi che ci hanno fornito un quadro insieme più vasto e particolareggiato, integrato e analitico, dei vari sistemi di controllo che partecipano alla regolazione della circolazione sanguigna. Infine, sotto l'aspetto medico, l'ipertensione arteriosa rappresenta un successo di cui la scienza medica del nostro secolo può andare orgogliosa, e di cui è giusto si parli in un consuntivo dei successi e dei fallimenti, delle certezze e dei dubbi della nostra generazione.
2. Classificazioni e terminologia
Per facilitare la comprensione di quanto è scritto nei successivi capitoli, diamo fin d'ora alcune delle più frequenti classificazioni delle ipertensioni.
Una classificazione su base emodinamica distingue le ipertensioni in ‛sistoliche' (aumento della sola pressione sistolica) e in ‛diastoliche' (aumento della pressione diastolica, oltre che della sistolica). La causa di gran lunga più frequente d'ipertensione sistolica è la perdita d'elasticità delle grosse arterie (aorta e suoi rami principali), evento che si determina con grande frequenza coll'avanzare degli anni, e che porta alla cosiddetta ipertensione sistolica degli anziani, di cui non tratteremo oltre.
La tab. I presenta la classificazione eziologica delle ipertensioni diastoliche. Come forme secondarie vengono definite quelle ipertensioni che si possono considerare il risultato di una determinata malattia, e in cui spesso l'abolizione della malattia porta alla scomparsa dell'ipertensione. Come ipertensione primaria, o essenziale, viene invece definita la stragrande maggioranza dei casi d'ipertensione in cui, come vedremo, l'ipertensione non può essere considerata come parte o conseguenza di un'altra malattia. Infine, una classificazione puramente clinica dell'ipertensione, sia essa secondaria o primaria, si fonda unicamente sui dati clinici costituiti dai valori pressori e dai segni di danno cardiaco e vascolare che accompagnano l'ipertensione (v. tab. II).
Si noti in questa classificazione che i termini ipertensione ‛benigna' e ipertensione ‛maligna' non vanno usati in senso strettamente letterale: come vedremo, non può definirsi ‛benigna' un'ipertensione che, non trattata, comporta un'elevata morbidità e una mortalità precoce; né può considerarsi inevitabilmente ‛maligna' un'ipertensione il cui esito fatale può essere spesso scongiurato da una terapia tempestiva.
3. Storia dell'ipertensione arteriosa
a) Storia di un problema clinico
La storia dell'ipertensione arteriosa come entità nosografica appartiene pressoché interamente a questi ultimi cento anni. È solo infatti con la costruzione e il perfezionamento degli apparecchi sfigmografici che la misurazione della pressione arteriosa poté uscire dal laboratorio di fisiologia e raggiungere la clinica: prima con von Basch nel 1881 (v.), infine con Riva-Rocci, che nel 1896 (v.) ci fornì lo stesso apparecchio che, con lievi modificazioni, usiamo ancor oggi nella pratica quotidiana. Ciò non significa che, prima della fine del XIX secolo, non si fosse intravista l'esistenza di quella condizione clinica che dal 1911 è nota come ipertensione essenziale, anche se le prime descrizioni si basavano ovviamente su materiale anatomopatologico anziché sulla misurazione della pressione arteriosa. Così, in quella che è probabilmente una delle più antiche descrizioni della malattia, Schaarschmidt e Nicolai (v., 1752) parlano di pazienti che presentavano ‟una costrizione spastica del letto vascolare" e la cui circolazione sanguigna era caratterizzata da uno stato di ‟veemente agitazione" che può comportare accidenti vascolari ed emorragie. Circa ottant'anni più tardi, nel 1836, Bright (v.) in una pubblicazione memorabile, nel sottolineare la frequenza con cui si riscontrava ipertrofia cardiaca nei pazienti morti con albuminuria; avanzava, tra altre ipotesi, quella che un'alterazione ematica ‟colpisse la circolazione dei piccoli vasi e dei capillari in modo tale da render necessaria una maggior azione cardiaca per forzare il sangue attraverso i distretti lontani del sistema vascolare"; un'affermazione che, tradotta in termini meccanici, equivaleva a riconoscere che doveva prodursi un aumento della pressione arteriosa.
Da allora, alterazioni renali, alterazioni vascolari e ipertrofia cardiaca sono stati i perni su cui è girata la storia dell'ipertensione arteriosa, in un quadro interpretativo che si è fatto via via più complesso man mano che all'evidenza e ai concetti anatomopatologici si aggiungevano i concetti funzionali, a quello di ipertrofia cardiaca si affiancava e sostituiva il concetto di aumento della pressione arteriosa, e si riconosceva che, oltre e accanto al danno renale e vascolare, si doveva ammettere la possibilità di alterazioni funzionali renali e di una vasocostrizione funzionale (v. una precedente rassegna di Melli e Bartorelli, 1950). Nella concezione che possiamo definire di Bright, l'alterazione renale sarebbe il primum movens, cui seguirebbero danno vascolare diffuso e ipertensione (oggi diremmo, nell'ordine: ipertensione e danno vascolare diffuso). Secondo un'altra concezione, che si fece strada nella seconda metà del secolo scorso e che merita di essere ricordata perché è la prima a svincolare l'ipertensione dalla necessaria dipendenza da una malattia renale, l'alterazione primitiva è una ‟fibrosi arterio-capillare", secondo una definizione di Gull e Sutton, (v., 1872), e l'aumento della pressione è conseguenza di una ‛arteriosclerosi' generalizzata. Infine, la concezione moderna dell'aumento della pressione arteriosa come fattore primitivo si delinea dapprima in due famosi articoli di Mahomed (v., 1879 e 1881), con l'affermazione dell'esistenza di ‟uno stadio funzionale, che è limitato alla condizione di pressione arteriosa alta senza alterazioni organiche nè nel sistema vascolare nè nei reni"; continua poi con l'affermazione di Huchard (v., 18932) che ‟l'ipertensione arteriosa è la causa dell'arteriosclerosi; essa precede, per un tempo più o meno lungo, l'evoluzione delle diverse malattie (cardiopatia e nefriti arteriose), che sono esse stesse dipendenti dalla sclerosi vascolare"; culmina con l'intuizione del Forlanini (v., 1899) che ‟nell'ipertensione tutta la sindrome indica non solo un'arteriocostrizione attiva, ma un'esagerazione dell'attività e della suscettività delle arterie periferiche". Non meraviglia quindi che nel 1911 il termine ‟essentielle Hypertonie", coniato da Frank (v., 1911), cominci ad affacciarsi, tosto tradotto nelle varie lingue come ipertensione essenziale e termini equivalenti. Si noti il termine ‟essenziale", inteso a denotare la natura costituzionale o primitiva dell'ipertensione, anche se vedremo, alla fine di questa trattazione, quanta parte di una più antica concezione della medicina sia ancora insita in questo aggettivo.
Dunque, ipertensione arteriosa non più come sintomo di una o più malattie, ma come fattore primitivo e causale di ciò che può chiamarsi malattia ipertensiva. Nell'ambito di questa interpretazione può essere vista anche la classificazione di Volhard e Fahr (v., 1914), che tenne il campo per circa 30 anni. È curioso che, come spesso avviene nella scienza, siano stati gli elementi deteriori di questa classificazione, più che gli elementi innovatori, quelli che hanno avuto un'influenza maggiore e più durevole. La distinzione di un'ipertensione ‛rossa' in soggetti pieni di vita, fiorenti e sani, e di un'ipertensione ‛bianca' in malati deboli, astenici e gravi, colpì la fantasia e rimase lungamente nella letteratura medica (v. Volhard, 1948). Sfuggì invece il significato profondo dell'acuta distinzione nosografica tra ‟die einfache blande Nierensklerose", quella che noi oggi chiamiamo l'ipertensione essenziale benigna, e ‟die Kombinationsforme" o ‟maligne Forme der Hypertonie", ciò che noi oggi chiamiamo ipertensione maligna. E non fu sufficientemente apprezzato il concetto innovatore che la prima forma poteva condurre alla seconda attraverso un circolo vizioso, per cui la vasocostrizione danneggiava il rene e il danno renale ulteriormente aumentava la vasocostrizione. Concetto che fu interamente confermato nel 1941 dagli esperimenti di Wilson e Byrom (v., 1941) che dimostrarono che l'ipertensione prodotta nel ratto dalla stenosi di un'arteria renale danneggiava il rene controlaterale; concetto che fu esteso dai successivi esperimenti di Byrom (v. Byrom e Dodson, 1949; v. Byrom, 1954) secondo cui non erano ipotetiche sostanze d'origine renale, ma era l'aumentato livello della pressione arteriosa che danneggiava i vasi periferici nel rene e negli altri distretti vascolari.
Era aperta dunque la strada alle concezioni oggi correnti, che hanno dato frutti così copiosi in campo terapeutico. L'ipertensione arteriosa è vista non più come segno, sia pur dominante e caratterizzante, di una malattia, ma come fattore di rischio per lo sviluppo susseguente di danno vascolare, renale, cerebrale, coronarico: sviluppo lento nella forma cosiddetta benigna, tumultuoso e accelerato nella forma cosiddetta maligna. Non è più necessario, in questa visione del problema, supporre due popolazioni nettamente separate di soggetti normotesi o sani, e di soggetti ipertesi o malati. Al contrario si deve riconoscere con Pickering (v., 19682) che i valori di pressione sistolica e diastolica hanno, in ogni popolazione, una distribuzione continua senza picchi di frequenza a valori diversi (v. fig. 1); si deve riconoscere con gli epidemiologi che, nelle popolazioni del mondo occidentale, c'è una tendenza di queste curve di distribuzione a divenire asimmetriche verso destra, cioè a includere con maggior frequenza valori più elevati di pressione arteriosa, mano a mano che si considerano gruppi di soggetti di età più avanzata (v. fig. 1); si deve riconoscere, grazie agli studi retrospettivi delle compagnie di assicurazione, che i soggetti con i più alti valori di pressione arteriosa sono coloro che con maggior frequenza subiscono lesioni in vari territori vascolari (v. fig. 2). Di qui breve è il passo a concludere, da una parte, che la riduzione dei valori pressori rappresenta il mezzo più razionale e sicuro per arrestare il danno vascolare dell'iperteso e per prevenirne lo sviluppo; e a concludere, dall'altra, che la ‛causa' dell'ipertensione, se non è necessariamente una specifica malattia, nemmeno è necessariamente unica e sempre identica: essa è nell'uno o nell'altro dei numerosi fattori che regolano la pressione arteriosa. Al concetto clinico di Pickering dell'ipertensione arteriosa come malattia caratterizzata da una deviazione quantitativa, anziché qualitativa, dalla norma, fa riscontro, sul piano fisiopatologico, il concetto di Page (v. Page e McCubbin, 1965) dell'ipertensione come malattia da sregolazione. Ma ciò ci conduce a seguire un'altra traccia della storia dell'ipertensione, quella sperimentale.
b) Storia di un problema sperimentale
La storia dell'ipertensione sperimentale, almeno come motivazione, è la storia dei tentativi di scoprire la causa dell'ipertensione, confermando in un modello sperimentale che l'alterazione di una determinata funzione conduce effettivamente a un aumento duraturo della pressione e a un danno vascolare. Paradossalmente, tuttavia, la molteplicità dei modelli sperimentali efficaci e la complessità delle alterazioni funzionali presenti in ciascun modello hanno finito per argomentare in favore della concezione che l'ipertensione arteriosa possa essere prodotta dall'alterazione ora dell'uno ora dell'altro dei vari fattori che partecipano al mosaico della regolazione della circolazione. È questo il significato della nota ‛teoria del mosaico' che va sotto il nome di Page (v., 1949) e su cui ritorneremo.
Ci limiteremo in questo capitolo a descrivere la nascita e la fisionomia dei principali modelli sperimentali su cui si sono affannati e si vanno affannando tanti ricercatori. Delle interpretazioni patogenetiche diremo più diffusamente in un prossimo capitolo dedicato ai meccanismi di controllo della circolazione.
1. Ipertensione da denervazione barocettiva. - La scoperta dei riflessi barocettivi senoaortici portò (v. circolazione: Regolazione nervosa della circolazione), come conseguenza ovvia e immediata, all'ipotesi che l'ipertensione arteriosa potesse essere causata da un'inattivazione o da un disturbo dei riflessi barocettivi stessi. L'ipotesi trovò un notevole appoggio negli esperimenti di Koch che dimostrò che, nel coniglio, la sezione bilaterale e simultanea di tutti i nervi barocettivi produceva un'ipertensione così marcata da essere quasi immediatamente fatale; se invece la denervazione veniva eseguita in stadi successivi, l'animale sopravviveva e sviluppava un'ipertensione cronica. Il cane iperteso per denervazione senoaortica divenne poi, negli anni trenta, un modello sperimentale classico a opera del gruppo di Heymans (v. Heymans e Neil, 1958). Ci sono però almeno tre aspetti sotto i quali l'ipertensione da denervazione barocettiva si differenzia dall'ipertensione essenziale: la marcata tachicardia, la modesta ipertrofia cardiaca e l'assenza di lesioni vascolari secondarie. Sta il fatto che, nell'animale cronico, l'ipertensione da denervazione barocettiva non è un'ipertensione stabile: già il gruppo di Heymans (ibid.) aveva notato che l'ipertensione scompare nel sonno, e noi abbiamo osservato che nel sonno il gatto con denervazione senoaortica ha valori di pressione addirittura più bassi che il gatto normale; nella veglia quieta la pressione arteriosa è invece superiore a quella del gatto normale, ma solo di pochi mm Hg (v. Guazzi e Zanchetti, 1965). In un recente studio, Cowley e altri (v., 1973) hanno concluso che l'effetto principale della denervazione senoaortica nel cane è quello di creare una maggiore variabilità della pressione arteriosa durante la giornata, non quello di aumentarne i valori medi. Conclusioni analoghe si possono trarre anche da un nuovo modello d'ipertensione sperimentale sviluppato da Reis e altri (v. Doba e Reis, 1973; v. Nathan e Reis, 1976). La distruzione bilaterale del nucleo del tratto solitario, la struttura bulbare su cui convergono le afferenze senoaortiche, produce un aumento drammatico della pressione arteriosa del ratto, che soccombe in poche ore per edema polmonare; il gatto, invece, sopravvive alla crisi ipertensiva che segue immediatamente la lesione bulbare, e gli effetti misurabili dopo una settimana dall'intervento consistono soprattutto nella cospicua variabilità dei valori pressori durante la giornata, con ben scarso aumento dei valori medi giornalieri. Tuttavia, l'affermazione che l'animale con denervazione barocettiva non è un buon modello d'ipertensione sperimentale dovrà essere accettata con una certa prudenza per ragioni che discuteremo in un prossimo capitolo.
2. Ipertensione renovascolare sperimentale. - Nel 1934 Goldblatt (v. Goldblatt e altri, 1934) mostrava che la stenosi delle arterie renali del cane produceva un cospicuo e prolungato aumento della pressione arteriosa (v. fig. 3), e che quest'aumento si accompagnava alla comparsa di un'ipertrofia cardiaca e allo sviluppo di lesioni vascolari e talvolta alla reazione fibrinoide caratteristica dell'ipertensione maligna dell'uomo. L'esperimento di Goldblatt ha segnato l'inizio della storia moderna degli esperimenti sull'ipertensione, anche se, paradossalmente, non ha ricevuto conferma l'ipotesi patogenetica su cui Goldblatt aveva fondato il suo esperimento, e cioè che l'ipertensione essenziale dell'uomo dipendesse da una diffusa riduzione del calibro delle arteriole renali intraparenchimali. Tuttavia l'esperimento di Goldblatt fornì un modello concettualmente semplice e una tecnica facilmente riproducibile, con cui produrre un'ipertensione sperimentale simile nel suo decorso all'ipertensione essenziale dell'uomo e come questa non necessariamente legata a insufficienza renale. Di conseguenza il modello di Goldblatt suscitò una mole di ricerche e una messe di risultati che, negli ultimi quarant'anni, hanno contribuito a illustrare meccanismi prima sconosciuti della fisiopatologia cardiovascorare e renale. Sotto l'aspetto clinico, l'esperimento di Goldblatt, se non ha rappresentato - com'era nei voti - la riproduzione in laboratorio di una condizione clinica nota, l'ipertensione essenziale, rappresenta invece l'esempio straordinario della produzione in laboratorio di una condizione clinica ancora ignota, l'ipertensione renovascolare, che - grazie a questo modello - poté essere ricercata, riscontrata e curata in un numero non trascurabile di pazienti a partire dalla fine degli anni cinquanta. Se l'insistere per tanti anni sul modello sperimentale dell'ipertensione renovascolare sia stato eccessivo e abbia costituito un abbaglio che ha sviato la ricerca da altre strade che avrebbero forse condotto a meglio comprendere i meccanismi della più diffusa ipertensione essenziale, è difficile a dirsi, né vogliamo fare il processo alle vie, spesso tortuose, lungo le quali progredisce la scienza.
Subito dopo l'esperimento di Goldblatt, per spiegare l'ipertensione da stenosi delle arterie renali furono avanzate varie ipotesi: tra queste quella che ebbe la maggior fortuna sperimentale fu la prima, sin da quando, poco dopo la scoperta di Goldblatt, il gruppo di Page (v., 1939) e quello di Braun-Menéndez (v. Braun-Menéndez e altri, 1939) dimostrarono che la stenosi dell'arteria renale faceva aumentare il contenuto renale di una sostanza ad attività pressoria, che già nel 1898 Tigerstedt e Bergmann (v., 1898) avevano estratto e denominato renina. Era l'inizio della storia fortunata, e controversa, del sistema renina-angiotensina, su cui ritorneremo più estesamente in un prossimo paragrafo. Basti dire per ora che, nonostante quarant'anni di sforzi, l'importanza del sistema renina-angiotensina nell'ipertensione renovascolare non è stata interamente chiarita, anche se i dati a nostra disposizione sembrano comporre un quadro per ora abbastanza persuasivo (v. Davis, 1975 v. i contributi di Zanchetti e altri, 1976). Almeno nel ratto, vi sono due tipi d'ipertensione renovascolare: l'ipertensione con entrambi i reni, in cui un' arteria renale è stenosata e il rene controlaterale è lasciato intatto (e che assai probabilmente corrisponde all'ipertensione da stenosi unilaterale dell'arteria renale nell'uomo); e l'ipertensione con rene unico, in cui una sola arteria renale è stenosata ma il rene controlaterale è stato asportato. I due modelli differiscono tra loro sotto vari aspetti: l'attività reninica plasmatica è elevata più a lungo nel primo modello, mentre torna prontamente normale o addirittura diventa inferiore alla norma nel secondo modello; inoltre il volume dei liquidi extracellulari è ridotto nel modello con due reni e aumentato in quello a rene unico. I modelli sperimentali di ipertensione renovascolare devono anche distinguersi in base alla durata dell'ipertensione: nel modello a rene unico il breve aumento iniziale della secrezione della renina svanisce non appena si va espandendo il volume dei liquidi extracellulari: nel modello con due reni c'è un primo stadio in cui la renina è aumentata e l'ipertensione è reversibile se si corregge la stenosi, una seconda fase in cui la renina non è più così aumentata ma l'ipertensione è ancora reversibile con la correzione della stenosi, e una terza fase in cui l'ipertensione è divenuta irreversibile. I recenti esperimenti con bioccanti specifici del sistema renina-angiotensina indicano, nell'insieme, che entrambi i modelli d'ipertensione renovascolare sono dipendenti dall'angiotensina nello stadio acuto; successivamente, solo il modello con due reni rimane dipendente - almeno in parte - dall'angiotensina, fintantoché, nel suo ultimo stadio, il danno vascolare del rene controlaterale rende l'ipertensione irreversibile.
3. Ipertensione renopriva. - L'asportazione di entrambi i reni nel cane e nel ratto conduce in pochi giorni alla comparsa di una ipertensione che non sembra dovuta alla scomparsa della funzione escretrice renale, perché l'anastomosi degli ureteri nella vena cava non produce ipertensione. Questo modello fu lungamente studiato da Groilman (v., 1973), che concluse che l'azione ipertensiva del rene non consisteva tanto nella produzione di una sostanza ipertensiva (come risultava dagli esperimenti di Goldblatt) quanto nella scomparsa o diminuzione di una normale funzione ipotensiva. Estratti renali ad azione ipotensiva, oltre che da Grollman e altri (v., 1940), sono stati preparati da numerosi altri ricercatori, e ottenuti specialmente dalla midollare renale; le sostanze ipotensive sono state identificate soprattutto con alcune prostaglandine. A parte la probabile importanza delle prostaglandine nella regolazione della circolazione renale e sistemica e la loro possibile funzione ipotensiva, su cui ritorneremo tra poco, è dubbio che l'ipertensione renopriva possa oggi considerarsi un buon modello d'ipertensione: sembra infatti che, almeno nell'uomo, la nefrectomia bilaterale non produca ipertensione se il paziente è mantenuto in un corretto equilibrio idrosalino con la dialisi extracorporea (v. Merrill e altri, 1961).
4. Ipertensione da mineralcorticoidi e sale. - Dopo l'osservazione clinica che la somministrazione di acetato di desossicorticosterone (DOCA) correggeva l'ipotensione dei pazienti con morbo di Addison, Selye (v. Selye e altri, 1943) fu il primo autore a mostrare che la somministrazione di sale e di cospicue dosi di questo mineralcorticoide produceva una duratura ipertensione nel ratto, con nefrosclerosi, ipertrofia cardiaca e danno vascolare. Successivamente, Sapirstein e altri (v., 1950) ottennero una simile ipertensione con la semplice somministrazione di sale al ratto. Dopo la scoperta dell'aldosterone, identificato come il più potente e il più importante dei mineralcorticoidi secreti naturalmente, alcuni autori riferirono che l'aldosterone, a differenza del DOCA, non produceva ipertensione sperimentale: ma ricerche più recenti hanno dimostrato che anche l'aldosterone è in grado di produrre un'ipertensione nel ratto (v. Hall e Hall, 1973). L'ipertensione sperimentale da mineralcorticoidi trova il suo diretto riscontro clinico nell'ipertensione dell'aldosteronismo primario (v. Conn, 1955) e nei più rari casi di sovrapproduzione di altri mineralcorticoidi (v. Genest e altri, 1973). Sebbene l'ipotesi originale di Selye insistesse su un danno renale e vascolare causato direttamente dagli ormoni mineralcorticoidi, l'opinione corrente oggi è che l'ipertensione da mineralcorticoidi, con o senza l'aggiunta di sale, dipenda fondamentalmente dalla ritenzione di sodio. Sul meccanismo con cui la ritenzione di sodio conduce all'ipertensione e la mantiene (aumento del volume dei liquidi corporei, imbibizione delle pareti vascolari, aumento della reattività vascolare, alterazione del metabolismo delle catecolammine) le opinioni differiscono, e avremo occasione di ritornare presto su alcune di queste ipotesi. Basti dire per ora che, come l'ipertensione renovascolare - dopo un tempo più o meno lungo - diventa irreversibile, cioè non recede anche se la stenosi iniziale viene rimossa, così l'ipertensione da mineralcorticoidi recede solo se la somministrazione dell'ormone viene interrotta entro alcune settimane; se la somministrazione è prolungata per molte settimane, anche questo tipo di ipertensione diviene irreversibile (v. Sturtevant, 1958).
5. Ipertensione genetica o spontanea. - L'opinione che, nella comparsa dell'ipertensione, accanto a fattori ambientali avessero importanza anche fattori genetici, consigliò il tentativo di selezionare, per via di successivi incroci, ceppi di ratti spontaneamente ipertesi (SHR). Il gruppo di Smirk (v. Smirk e Hall, 1958) fu il primo a ottenere un ceppo di ratti (ceppo New Zealand), la cui pressione sistolica aumentava di circa 2 mm Hg a ogni generazione e raggiungeva alla 31a generazione valori di circa 175 mm Hg (v. Simpson e altri, 1973). Successivamente, Okamoto e Aoki (v., 1963) selezionarono in Giappone un altro ceppo di ratti (ceppo Kyoto), in cui un'ipertensione di paragonabile entità si sviluppò in sole 3 o 4 generazioni. Negli animali del ceppo New Zealand la comparsa dell'ipertensione è molto precoce, in quanto si riscontra un aumento significativo della pressione già al secondo giorno di vita e i ratti sono marcatamente ipertesi alla quinta settimana; nel ceppo giapponese l'ipertensione è un po' più tardiva, e nelle prime settimane la differenza di pressione tra individui del ceppo normale e individui del ceppo iperteso è abbastanza lieve così che questo periodo può essere designato, sia pure con qualche approssimazione, come fase preipertensiva. In entrambi i ceppi, e con particolare frequenza e gravità in quello giapponese, si sviluppano ipertrofia cardiaca e danno vascolare, soprattutto mesenterico, renale e cerebrale (v. Simpson e altri, 1973; v. Okamoto e altri, 1973). Vedremo in un prossimo capitolo che in entrambi questi ceppi fattori neurogeni sembrano intimamente coinvolti nel dare origine all'ipertensione, anche se tardivamente assumono importanza patogenetica fattori vascolari periferici.
Ci sono due altri ceppi di ratti geneticamente ipertesi, che sono assai diversi dal ceppo New Zealand e da quello Kyoto, ma che hanno invece qualche somiglianza tra loro. Nel ceppo selezionato da Dahl e altri (v., 1962) l'ipertensione si sviluppa con grande facilità e gravità solo se agli animali viene somministrato del sale; questo ceppo è perciò un interessante modello di ipertensione che nasce dal concomitare di fattori genetici e ambientali. Un altro ceppo è stato più recentemente selezionato da Bianchi (v., 1968); l'ipertensione di questi animali, pur non essendo dipendente dalla somministrazione di sale, sembra dipendere da fattori renali, probabilmente dalla capacità del rene di eliminare il sodio (v. sotto).
Lo sviluppo dei vari ceppi di ratti con ipertensione spontanea, o geneticamente selezionata, ha rappresentato indubbiamente un grande passo in avanti nelle ricerche sull'ipertensione : soprattutto il ceppo giapponese è divenuto, in questi ultimi anni, il modello sperimentale più ampiamente usato. Tuttavia occorre una certa prudenza prima d'affermare, come spesso viene fatto, che il ratto con l'ipertensione spontanea rappresenta un modello molto rassomigliante all'ipertensione essenziale. In primo luogo, si può supporre che gli incroci eseguiti per selezionare l'ipertensione arteriosa probabilmente portano alla selezione genetica occasionale di qualche altro carattere che non ha necessariamente un rapporto di causa a effetto con l'ipertensione stessa. In secondo luogo le differenze stesse tra alcuni almeno dei vari ceppi di SHR dimostrano che siamo di fronte a ‛dei' modelli, piuttosto che a ‛un' modello dell'ipertensione essenziale: a quale di questi modelli corrisponda l'ipertensione essenziale dell'uomo non sappiamo, né sappiamo se essa corrisponda invece a un altro modello genetico non ancora riprodotto o non riproducibile nel ratto, o se infine anche nell'ipertensione essenziale debbano riconoscersi varie forme, geneticamente e patogeneticamente diverse, come nell'ipertensione spontanea del ratto.
4. Emodinamica dell'ipertensione arteriosa
Per chi ricordi l'equazione emodinamica fondamentale che descrive le relazioni tra pressione arteriosa media, gettata cardiaca e resistenze vascolari periferiche, sarà facile comprendere come l'aumento della pressione dipenda, in ultima analisi, da una sproporzione tra gettata cardiaca e resistenze vascolari periferiche. È stata comune opinione, per molti anni, che in tutti gl'ipertesi diastolici l'ipertensione fosse dovuta all'aumento diffuso delle resistenze periferiche, per vasocostrizione, e che la gettata cardiaca rimanesse normale (v. Freis, 1960). Negli ultimi quindici anni, almeno due importanti correzioni sono state apportate a questo classico quadro, correzioni che vanno ricordate non tanto per questioni di completezza e d'esattezza, ma perché entrambe le correzioni hanno condotto a interessanti interpretazioni d'ordine patogenetico.
a) Gettata cardiaca nell'ipertensione
Anche se è stato confermato che in tutti i soggetti con valori di pressione sistolica e diastolica stabilmente elevati da parecchio tempo (cosiddetta ipertensione stabile) la gettata cardiaca è normale, se non addirittura diminuita, e di conseguenza le resistenze vascolari periferiche sono aumentate anche considerevolmente, è vero tuttavia che numerosi studi compiuti in pazienti con ipertensione lieve e recente, per lo più giovani con pressione media tra i 100-110 mm Hg, hanno messo in evidenza che in questi soggetti la gettata cardiaca è, sia pur moderatamente, elevata, e le resistenze periferiche sono uguali a quelle dei soggetti normotesi (v. Lund-Johansen, 1973). Valori simili a quelli dei normotesi non significano, tuttavia, una condizione del tutto normale delle resistenze periferiche, perché nell'individuo normale un aumento della gettata cardiaca comporta un adattamento delle resistenze vascolari a valori più bassi. È nondimeno interessante che il quadro dell'ipertensione lieve del giovane (ipertensione borderline o di confine, come viene spesso denominata) sia diverso da quello dell'ipertensione stabile; e che un'elevata gettata cardiaca con scarso aumento delle resistenze sia stata osservata nell'ipertensione renovascolare, sia nell'uomo (v. Frohlich e altri, 1967) sia nell'animale (v. Ledingham e Cohen, 1963). Anche il ratto con ipertensione spontanea ha una circolazione di tipo iperdinamico (v. Frohlich e Pfeffer, 1975). Dall'interessante osservazione di Ledingham e Cohen (v., 1963) che nel ratto con ipertensione renovascolare l'aumento iniziale della gettata cede il passo, col tempo, a una vasocostrizione, è nata una corrente d'opinione, che è stata soprattutto impersonata da Guyton e i suoi collaboratori (v., 1974), secondo la quale l'aumento iniziale della gettata cardiaca influenzerebbe in modo fondamentale lo svolgersi dell'ipertensione: secondo il pensiero di Guyton l'aumento del flusso al di là del bisogno dei tessuti produrrebbe, per autoregolazione, una progressiva vasocostrizione (cosiddetta ‛autoregolazione vascolare generale'), e l'aumento del carico resistivo riporterebbe la gettata a valori normali.
Torneremo a suo tempo sui vari meccanismi, nervosi e renali, che sono stati chiamati in causa per spiegare l'aumento della gettata in alcune ipertensioni sperimentali e in alcuni casi d'ipertensione umana. Alcune considerazioni generali devono però essere fatte a questo punto (v. Zanchetti, 1977): in primo luogo, la vasocostrizione autoregolativa in risposta a un aumento del flusso è un fenomeno fisiologico che deve essere ancora chiaramente provato; in secondo luogo, è dimostrato che, sia nell'uomo con ipertensione borderline (v. Julius e altri, 1975) sia nel ratto con ipertensione spontanea (v. Frohlich e Pfeffer, 1975), la normalizzazione della gettata con farmaci adatti (per lo più bloccanti dei β-recettori adrenergici) non riporta alla norma la pressione arteriosa, e anzi produce un ulteriore aumento delle resistenze vascolari. Perciò, il problema della reale importanza di un iniziale aumento della gettata cardiaca nel determinare il quadro emodinamico finale dell'ipertensione è ancora aperto, come ancora aperto è il problema di accertare se realmente l'ipertensione cosiddetta borderline rappresenti l'obbligatorio stadio iniziale dell'ipertensione essenziale.
b) Resistenza dei vari letti vascolari
Un altro concetto emodinamico che è stato sfatato è che le resistenze periferiche siano negli ipertesi essenziali uniformemente aumentate in tutti i distretti vascolari. Nella fig. 4, presa da un lavoro di Brod (v., 1963), la pressione arteriosa, la gettata cardiaca e le resistenze vascolari, totali e regionali, di un gruppo d'ipertesi essenziali sono espresse come percentuali dei valori tipici degli individui normotesi. Trattandosi di soggetti con ipertensione stabile, la gettata cardiaca corrisponde a quella dei normotesi, e l'aumento della pressione va di pari passo con quello delle resistenze periferiche totali. L'aumento delle resistenze non è però uniformemente distribuito a tutti i distretti vascolari: la vasocostrizione è intensa nei reni e nella cute, è meno intensa, seppur cospicua, nell'area splancnica, ma le resistenze periferiche sono inferiori alla norma nel distretto muscolare, che deve perciò considerarsi vasodilatato. Esiste quindi nell'ipertensione un riaggiustamento selettivo delle resistenze vascolari, misto di vasocostrizione e vasodilatazione, per cui un certo volume di sangue viene deviato dal letto renale, splancnico e cutaneo verso il territorio muscolare. Queste variazioni emodinamiche sembrano essere peculiari dell'ipertensione essenziale, perché, secondo Brod, gli ipertesi renovascolari e quelli con nefropatie parenchimali hanno invece resistenze periferiche uniformemente aumentate. Brod insiste pure sulle somiglianze tra quadro emodinamico dell'ipertensione essenziale e risposta fisiologica all'esercizio muscolare e alle emozioni: sul significato di queste somiglianze per l'interpretazione della patogenesi dell'ipertensione essenziale ritorneremo tra poco.
5. Dati e ipotesi sui meccanismi dell'ipertensione
Prima di affrontare questo arduo capitolo, occorre fare qualche precisazione sulle ragioni per cui, nel suo titolo, si parla di meccanismi, anziché di cause, dell'ipertensione. La differenza tra cause e meccanismi è, a prima vista, abbastanza ovvia: causa essendo la modificazione iniziale, o primitiva, che interviene a cambiare l'omeostasi circolatoria, e meccanismi essendo le modificazioni che successivamente (o ‛secondariamente') conducono al quadro emodinamico e clinico che definiamo ipertensione. Ovviamente, nei vari modelli d'ipertensione sperimentale, la ‛causa' e l'intervento che viene di volta in volta eseguito, sia esso la stenosi di un'arteria renale o la somministrazione di sale e di mineralcorticoidi, sia essa la selezione genetica appropriata. Nell'uomo iperteso, però, la situazione è molto più complessa, e per numerose ragioni, la prima delle quali è la constatazione che solo alcune delle modificazioni ‛primarie' provocate nell'animale si ritrovano nell'uomo, e solo in un numero limitato di casi di ipertensioni secondarie (ipertensione renovascolare, aldosteronismo primario). Ci è sembrato più opportuno, perciò, parlare più semplicemente di meccanismi, un termine che prescinde da gerarchie causali o temporali; ma, di volta in volta, ci siamo sforzati di distinguere quando un certo meccanismo sembra avere un'importanza ‛primaria' come possibile causa, e quando la sua importanza sia chiaramente quella di intermediario o di mediatore finale in una catena di eventi iniziata altrove.
Nel raggruppare i vari meccanismi abbiamo considerato che, alla luce di quanto è stato sottolineato nel capitolo sull'emodinamica, il quadro emodinamico dell'ipertensione può derivare o da un primitivo aumento della vasocostrizione o da un primitivo aumento del volume plasmatico. Questa interpretazione corrisponde a una recente analisi fisiopatologica dell'ipertensione, che è stata definita analisi di vasocostrizione e di volume (v. Laragh, 1973) e che ha avuto notevole fortuna. Anche se non accettiamo tutte le deduzioni che sono state tratte dai presupposti di questa ipotesi, ci è parso che i presupposti stessi fossero accettabili almeno come elemento ordinatore. Ci sono tre fattori principali che possono influenzare lo stato di costrizione vascolare e il volume del plasma o dei liquidi extracellulari. Essi sono: 1) il rene, che possiede sia un'azione vasocostrittrice (per mezzo del sistema renina-angiotensina) sia un'azione vasodilatatrice (attività propria della midollare renale), e che ovviamente influisce sul volume dei liquidi dell'organismo attraverso l'escrezione del sodio e dell'acqua (contesto in cui va vista anche la partecipazione degli ormoni mineraloattivi corticosurrenali); 2) il sistema nervoso simpatico (incluse le catecolammine della midollare surrenale), di cui è ben nota l'azione vasocostrittrice, e di cui oggi conosciamo anche l'azione sul fattore volume (cioè la regolazione simpatica della secrezione di renina e dell'escrezione del sodio); e infine 3) i vasi stessi, vuoi per un'alterazione primitiva, vuoi quando, secondariamente, l'ipertrofia vascolare si svincola dai primitivi fattori che l'hanno provocata e, indipendentemente da questi, mantiene elevata la pressione.
a) Meccanismi renali
1. Il sistema renina-angiotensina. - Come si è già accennato, è questo uno dei sistemi più importanti nella genesi dell'ipertensione renovascolare. In esso si distinguono varie componenti.
A. Componenti del sistema. Essi sono illustrati nella fig. 5. La renina è una proteina che non è stata ancora completamente purificata. Il peso molecolare della renina umana è di circa 42.000, ma esiste nel rene e nel sangue una proteina a più alto peso molecolare (circa 60.000), denominata ‛prorenina', che può forse considerarsi un precursore inattivo della renina (v. Sealey e Laragh, 1975). La renina è un enzima, che agisce sopra un substrato (detto substrato della renina), presente nel plasma e prodotto dal fegato, e rappresentato da una α2-globulina. Pare che nel substrato siano presenti dei radicali tetradecapeptidici, come quello indicato nella fig. 5. La renina agirebbe come enzima proteolitico a livello del legame leucil-leucina, producendo un decapeptide, di costituzione chimica nota, l'angiotensina I. A sua volta, il decapeptide costituisce il substrato per l'azione del cosiddetto enzima di conversione, presente nel plasma ma soprattutto attivo nei tessuti, in primo luogo nei polmoni, ma anche nel rene, nell'intestino, negli arti. L'enzima di conversione, staccando dall'angiotensina I il frammento istidil-leucina, muta il decapeptide in un octapeptide, l'angiotensina II. La rimozione di un radicale aspartilico a opera di una amminopeptidasi, nota come angiotensinasi A, trasforma l'octapeptide in un eptapeptide, recentemente denominato angiotensina III. L'eptapeptide può anche essere generato indipendentemente dall'octapeptide, per azione dell'angiotensinasi A sul decapeptide, con la formazione di un nonapeptide intermedio (la Des-aspartil-angiotensina I), che a sua volta l'enzima di conversione converte nell'eptapeptide (v. Goodfriend e Peach, 1975).
B. Effetti fisiologici. Gli effetti dell'angiotensina Il sono numerosi (v. Page e Bumpus, 1974) e possono essere raggruppati come segue.
I. Effetti sulla muscolatura liscia, in particolare quella vascolare. L'angiotensina Il produce un cospicuo aumento della pressione sistolica e diastolica, esclusivamente dovuto a un aumento delle resistenze vascolari. Pur esercitando l'angiotensina una debole azione inotropa positiva, la gettata cardiaca si riduce a causa della bradicardia riflessa e dell'aumento del carico di resistenza. L'estrema efficacia dell'angiotensina come agente vasocostrittore è indicata dal fatto che, per qualsivoglia aumento pressorio, le dosi efficaci di angiotensina II sono 10-20 volte inferiori a quelle di noradrenalina.
II. Effetti sul sistema simpatico. L'octapeptide agisce pure sul sistema nervoso simpatico, a vari livelli periferici e centrali, ed è concepibile che quest'azione contribuisca indirettamente all'effetto vasocostrittore (v. Zanchetti, 1972). I vari livelli dell'azione simpatico-stimolatrice dell'angiotensina II sono indicati nella fig. 6. Tra gli effetti centrali (v. Dickinson e Ferrario, 1974) hanno suscitato particolare interesse l'aumento pressorio e la tachicardia mediate dall'azione dell'angiotensina sui neuroni dell'area postrema del bulbo (v. Joy e Lowe, 1970).
III. Effetti renali. A piccole dosi l'angiotensina II riduce il filtrato glomerulare, il volume urinario e l'escrezione di sodio e di potassio; a dosi più elevate, essa aumenta invece il volume urinario e l'escrezione di sodio e di potassio, mentre il filtrato glomerulare rimane immodificato. Gli effetti delle piccole dosi sono quasi certamente mediati dalle modificazioni prodotte dall'angiotensina sulla circolazione renale; per gli effetti delle alte dosi, invece, è stato anche chiamato in causa un possibile effetto diretto del peptide sul riassorbimento tubulare. Infine, tra gli effetti renali dell'angiotensina va considerato quello, inibitore, sulle cellule iuxtaglomerulari produttrici di renina, su cui torneremo in un prossimo paragrafo.
IV. Effetti sulla secrezione di aldosterone: il sistema renina-angiotensina-aldosterone. Per primo Gross (v., 1958) formulò l'ipotesi che l'angiotensina Il stimolasse la secrezione di aldosterone da parte delle cellule della zona glomerulare del surrene. La conferma di quest'ipotesi fu data contemporaneamente nel 1960 dal gruppo di Genest (v. Genest e altri, 1960) e da quello di Laragh (v. Laragh e altri, 1960), che dimostrarono nell'uomo un aumento dell'escrezione di aldosterone durante l'infusione di angiotensina. Contemporaneamente anche Davis (v., 1974), in una brillante serie di ricerche sul cane, forniva la dimostrazione che la secrezione surrenale di aldosterone è strettamente dipendente dal rene grazie alla produzione renale di renina e alla genesi di angiotensina II. D'allora si parla di un sistema renina-angiotensina-aldosterone. È importante ricordare a questo punto che l'eptapeptide, angiotensina III, è più potente dell'octapeptide, angiotensina II, come stimolatore della secrezione di aldosterone (mentre l'angiotensina II è più potente dell'angiotensina III come vasocostrittore), e che perciò l'angiotensina III è oggi ritenuta, nel sistema renina-angiotensina-aldosterone, il legame fisiologicamente più importante tra renina e aldosterone (v. Blair-West e altri, Effect of.., 1974). Anche se di recente alcuni autori hanno sottolineato, e giustamente, che l'angiotensina non costituisce il solo fattore fisiologico per la secrezione di aldosterone (v. Blair-West e altri, Aldosterone regulation..., 1974), rimane indubbio che l'azione dell'angiotensina rappresenti un meccanismo d'estrema importanza fisiologica e fisiopatologica nella regolazione dell'aldosterone.
C. Sede di produzione della renina. Già nel 1944 Goormaghtigh (v., 1944), con considerevole acume, aveva intravisto che la sede di sintesi, di deposito e di liberazione della renina fossero le cellule iuxtaglomerulari, alcune cellule mioepiteliali altamente differenziate, che costituiscono la parete della porzione più distale dell'arteriola afferente del glomerulo. L'ipotesi di Goormaghtigh è stata confermata dalle ricerche successive (v. Davis e Freeman, 1976). La fig. 7 è un noto diagramma di Davis, che illustra il cosiddetto apparecchio iuxtaglomerulare, cioè, oltre alle cellule iuxtaglomerulari granulate dell'arteriola afferente, anche le cellule della macula densa, ossia della porzione del tubulo distale che è giustapposta all'arteriola afferente; come vedremo tra breve, anche le terminazioni adrenergiche del simpatico renale devono considerarsi come parte integrante dell'apparecchio iuxtaglomerulare, dell'apparecchio che non solo presiede alla formazione di renina ma ne governa anche la liberazione.
D. Regolazione della secrezione della renina. I meccanismi che regolano la secrezione e la liberazione di renina da parte delle cellule iuxtaglomerulari sono molteplici (v. Davis e Freeman, 1976; v. Zanchetti e altri, 1976) e possono essere classificati in almeno tre categorie principali: meccanismi intrarenali, che comprendono sia il recettore vascolare localizzato nell'arteriola afferente sia le cellule della macula densa del tubulo distale; meccanismi simpatici adrenergici, che comprendono sia i nervi renali sia le catecolammine; meccanismi umorali, che comprendono il sodio, il potassio, la vasopressina e la stessa angiotensina Il.
I. Meccanismi intrarenali. a) Recettore vascolare. L'ipotesi che la secrezione di renina fosse regolata dalle variazioni della pressione media dell'arteriola afferente fu avanzata, per la prima volta, da Tobian e altri (v., 1959), i quali supposero che le cellule iuxtaglomerulari stesse - trovandosi nell'arteriola afferente - rappresentassero un recettore da stiramento, in modo tale che un aumento della pressione arteriolare, e perciò un maggior stiramento, portassero a una diminuzione della produzione e secrezione di renina; e che l'opposto avvenisse quando la pressione arteriolare media si riduceva. Pochi anni dopo, Skinner e altri (v., 1964) dimostravano a loro volta che, contrariamente alle interpretazioni correnti dell'esperimento di Goldblatt, era la caduta della pressione di perfusione, anziché la riduzione del flusso sanguigno, che stimolava la produzione di renina dopo stenosi dell'arteria renale. Tuttavia è al gruppo di Davis che va il merito di aver portato la dimostrazione più decisiva dell'esistenza di un recettore vascolare nell'arteriola afferente. Per eliminare il possibile intervento dei recettori della macula densa, essi elaborarono sul cane il cosiddetto modello del rene non filtrante, in cui la macula densa non funziona. Grazie a questo preparato essi poterono dimostrare che vari stimoli che riducono la pressione di perfusione renale, riescono ancora a liberare renina quando il recettore vascolare renale è isolato in vivo dagli altri sistemi di regolazione (la macula densa, le influenze nervose, le catecolammine circolanti). b) Natriorecettore della macula densa. Un altro meccanismo intrarenale che si suppone intervenga nel regolare la liberazione di renina è rappresentato dalla macula densa. I rapporti tra macula densa e cellule iuxtaglomerulari erano già stati sottolineati da Goormaghtigh, ma sono stati soprattutto gli esperimenti di Vander (v., 1967) e di Thurau (v., 1975) che hanno attirato l'attenzione sulla possibilità che la stessa composizione dell'urina tubulare influisca sulla produzione della renina. Ci sono diverse interpretazioni circa la natura dello stimolo a cui sarebbe sensibile la macula densa. Secondo Vander, esso sarebbe rappresentato dal carico tubulare di sodio e dal trasporto di sodio da parte delle cellule della macula densa, per cui un diminuito carico tubulare di sodio (per es. una dieta iposodica) o un diminuito trasporto di sodio (per es. la somministrazione di diuretici) stimolerebbe la produzione di renina. Di contro, Thurau va ribadendo da anni, con eleganti esperimenti di microperfusione del rene, che sarebbe invece un aumento della concentrazione del sodio nell'urina tubulare che, per mezzo della macula densa, stimolerebbe la produzione di renina, o più esattamente la sua conversione da un precursore inattivo. In base ai suoi dati, Thurau ha formulato l'interessante ipotesi che l'apparecchio iuxtaglomerulare sia parte integrante di un fine meccanismo omeostatico, per cui ogni singolo nefrone autoregolerebbe la propria filtrazione glomerulare: un aumento della filtrazione glomerulare produrrebbe infatti un aumento del sodio inviato alla macula densa, che a sua volta stimolerebbe la produzione di renina, e l'angiotensina formatasi localmente costringerebbe l'arteriola afferente stessa, riportando il filtrato glomerulare alla norma. È difficile prendere posizioni a favore dell'una o dell'altra ipotesi sulla natura del segnale che stimola la macula densa: è vero infatti che le osservazioni più recenti sono a favore dell'ipotesi di Vander più che di quella di Thurau, ma è anche vero che, almeno in certe condizioni, il flusso tubulare sembra in grado di regolare il filtrato glomerulare.
II. Meccanismi simpatici adrenergici. I dati sperimentali più recenti, compresi quelli del nostro laboratorio, hanno portato in primo piano l'importanza dei meccanismi simpatici adrenergici, che rappresentano un mezzo assai efficace per una fine e pronta regolazione della liberazione della renina (v. Zanchetti e Stella, 1975; v. Zanchetti e altri, 1976). In breve è stato dimostrato che l'attività reninica del plasma arterioso e venoso o la liberazione di renina dal rene vengono aumentate dalla somministrazione intravenosa o intrarteriosa di catecolammine e dalla stimolazione elettrica dei nervi renali o dei centri vasomotori; inoltre (v. schema della fig. 7) l'indagine ultramicroscopica e istochimica ha mostrato terminazioni simpatiche adrenergiche che hanno contatto diretto con le cellule iuxtaglomerulari.
La fig. 8 schematizza la regolazione nervosa dell'attività delle cellule iuxtaglomerulari. Il simpatico renale esercita un'azione stimolante diretta sulle cellule iuxtaglomerulari, indipendentemente dalla messa in azione dei meccanismi vascolari e della macula densa; questa azione è mediata da recettori adrenergici di tipo β, essendo simulata da ammine β-stimolanti, quali l'isoproterenolo, ed essendo bloccata dai farmaci che bloccano i β-recettori adrenergici. Le cellule iuxtaglomerulari contengono pure dei recettori adrenergici α, del tipo di quelli che mediano l'azione simpatica vasocostrittrice, ma questi recettori a mediano un'inibizione anziché un'eccitazione della liberazione di renina. L'azione renina-secretrice del simpatico renale è stimolata dal centro vasomotorio bulbo-pontino e da meccanismi ipotalamici che appartengono alla cosiddetta area di difesa (v. sotto; v. Neil, 1975). Un'azione inibitrice è invece esercitata da strutture ipotalamiche a localizzazione anteriore, appartenenti alla cosiddetta area simpatico-inibitrice. Un'inibizione riflessa è esercitata da recettori periferici, anche se non è del tutto chiaro se si tratti di recettori arteriosi stimolati dalla pressione arteriosa (barorecettori seno-aortici) o di recettori cardiopolmonari sensibili a variazioni del volume sanguigno e connessi con i nervi vaghi.
Esistono numerosi stimoli renina-secretori che agiscono, interamente o in parte, attivando i meccanismi simpatici di controllo delle cellule iuxtaglomerulari. La fig. 9 riassume alcune ricerche del nostro gruppo, compiute su gatti anestetizzati, in cui si paragonava la liberazione di renina da parte di un rene normalmente innervato con quella del rene opposto acutamente denervato. Il passaggio passivo dalla posizione orizzontale a quella verticale per 30 mm (v. fig. 9A) produce un cospicuo aumento della liberazione di renina solo da parte del rene innervato; altrettanto avviene quando s'inietta un diuretico a pronta azione, la furosemide, in dosi moderate (0,75 mg/kg; v. fig. 9B). Quando invece la furosemide è iniettata in dosi molto più cospicue (6 mg/kg; v. fig. 9C), o quando lo stimolo consiste in una riduzione bilaterale della pressione di perfusione renale (stenosi aortica soprarenale; v. fig. 9D), anche il rene denervato aumenta la sua secrezione di renina, ma questa è assai minore, soprattutto durante il periodo iniziale di stimolazione, della secrezione da parte del rene innervato. Di questi quattro stimoli, dunque, due (la posizione verticale e piccole dosi di un diuretico) agiscono interamente per mezzo del controllo nervoso delle cellule iuxtaglomerulari; ma anche gli altri due stimoli (maggiori dosi di diuretico e la stenosi aortica o dell'arteria renale), esempi tradizionali di attivazione della macula densa e del recettore vascolare, oltre a questi meccanismi coinvolgono anche, e in misura assai cospicua, l'innervazione simpatica adrenergica delle cellule iuxtaglomerulari.
Anche nell'uomo la postura eretta e la somministrazione intravenosa di singole dosi di furosemide (40 mg) producono un aumento dell'attività reninica plasmatica, e anche nell'uomo questi stimoli agiscono per mezzo dell'innervazione simpatica iuxtaglomerulare e sono bloccati dalla somministrazione di farmaci bloccanti i β-recettori adrenergici.
III. Meccanismi umorali. Delle varie sostanze circolanti che possono agire sulla secrezione di renina, le catecolammine sono già state considerate nel paragrafo dedicato ai meccanismi simpatici adrenergici; il sodio e il potassio (un aumento della concentrazione di questi ioni nel plasma inibisce la liberazione di renina) agiscono molto probabilmente sulla macula densa, perché gli effetti dovuti a variazioni della sodiemia e della potassiemia sono assenti nel cane con i reni non filtranti. Di particolare interesse è l'azione inibitoria esercitata dalla vasopressina, dall'angiotensina Il e dall'angiotensina III direttamente sulle cellule iuxtaglomerulari, senza interposizione della macula densa e del recettore vascolare.
E. Funzioni omeostatiche del sistema renina-angiotensina. La fig. 10 illustra schematicamente il sistema omeostatico incentrato sulla renina. In essa abbiamo raffigurato le cellule iuxtaglomerulari che ricevono il segnale della pressione nell'arteriola afferente (a sua volta conseguenza della pressione sistemica e del tono dell'arteriola afferente), il segnale del riassorbimento tubulare distale per mezzo delle cellule della macula densa, nonché gli stimoli simpatici. A loro volta i prodotti dell'azione della renina, l'angiotensina Il e III, inibiscono le cellule iuxtaglomerulari direttamente (servomeccanismo negativo corto) e indirettamente, grazie alla loro azione vasocostrittrice sistemica con conseguente aumento della pressione anche a livello dell'arteriola afferente (servomeccanismo negativo lungo). Un altro servomeccanismo negativo lungo è messo in moto dall'azione dell'angiotensina Il e soprattutto dalla III sulla zona glomerulosa del surrene, con aumento della secrezione di aldosterone, esagerato riassorbimento distale del sodio e aumento del volume plasmatico. Ne risulterà un aumento della pressione e un inibizione riflessa dell'attività simpatica, fattori che ridurranno la liberazione di renina agendo su almeno due meccanismi di controllo, quello vascolare e quello adrenergico. Nella fig. 10 abbiamo anche indicato che l'angiotensina II stimola, a vari livelli, l'attività simpatica: ciò fa supporre la possibile esistenza anche di un circuito omeostatico di tipo positivo, che probabilmente è difficile mettere in evidenza per il prevalere dei numerosi circuiti negativi. Infine, per semplicità, non abbiamo indicato nella figura il possibile circuito omeostatico ipotizzato da Thurau, per cui il filtrato glomerulare regolerebbe se stesso per mezzo della macula densa e della renina; ma di esso abbiamo già detto.
F. Il sistema renina-angiotensina nell'ipertensione sperimentale e umana. Dobbiamo porci ora una serie di quesiti. Il primo è se nell'ipertensione, o almeno in un certo numero di casi d'ipertensione, ci siano dei disturbi del sistema renina-angiotensina. Il secondo è se le quantità di renina secrete normalmente o in risposta a stimoli fisiologici normali partecipino efficacemente alla regolazione della pressione. Il terzo è se, nei casi in cui la secrezione di renina è alterata, l'ipertensione possa considerarsi renina-dipendente.
I. Disturbi del sistema renina-angiotensina nell'ipertensione. Se l'attività reninica plasmatica degli ipertesi viene messa in rapporto con l'eliminazione urinaria di sodio (come indice dell'assunzione giornaliera di sodio) e si paragonano i valori di questo rapporto (il cosiddetto indice renina-sodio) ai valori calcolati nei soggetti normotesi, si osserva (v. fig. 11) che la maggior parte degli ipertesi ha valori che rientrano nella gamma dei valori normali (‛ipertesi a renina normale'), ma che una non trascurabile porzione di pazienti (circa il 20%, ma anche di più negli anziani) ha valori inferiori a quelli normali (‛ipertesi a bassa renina'), e un minor numero di pazienti ha valori superiori a quelli normali (‛ipertesi ad alta renina'; v. Laragh, 1973; v. Brunner e altri, 1973). Abbiamo già menzionato l'analisi di vasocostrizione e volume tentata da Laragh per interpretare la fisiopatologia dell'ipertensione; dobbiamo aggiungere che la misurazione dell'attività reninica plasmatica costituisce, secondo Laragh, lo strumento principale per effettuare quest'analisi. È indubbio infatti che il sistema renina-angiotensina-aldosterone può controllare sia i fattori di volume (per mezzo dell'aldosterone) sia lo stato di vasocostrizione (per mezzo dell'angiotensina), e che i fattori di vasocostrizione e di volume, a loro volta, influenzano il sistema, secondo lo schema della fig. 10. L'uso dell'attività reninica plasmatica come unica chiave per l'intepretazione della fisiopatologia dell'ipertensione ha dato origine a delle giuste obiezioni; è tuttavia indubbio che la conoscenza dei valori d'attività reninica plasmatica ci fornisce un interessante indice fisiopatologico, la cui importanza in ogni caso d'ipertensione rimane però da indagare.
Prototipo delle ipertensioni a bassa renina è l'aldosteronismo primario, cioè l'ipertensione arteriosa dovuta a un adenoma o a un'iperplasia della zona glomerulosa del surrene e, quindi, a un'ipersecrezione d'aldosterone. La fig. 12 illustra come, in questa forma d'ipertensione secondaria, si abbia un aumento del riassorbimento tubulare distale del sodio (con perdita urinaria di potassio) e l'ipertensione dipenda da un aumento del volume dei liquidi extracellulari: di conseguenza, la secrezione di renina viene soppressa, senza che questa inibizione si traduca, come dovrebbe, in un freno alla secrezione di aldosterone, perché il normale circuito omeostatico è rotto, e la secrezione d'aldosterone è autonoma. Per analogia con l'aldosteronismo primario, anche le ipertensioni essenziali a bassa renina (che si differenziano dall'aldosteronismo perché l'aldosterone è normale o basso) sono state interpretate come delle ipertensioni da volume, ed è stato anche sostenuto ch'esse siano dovute alla secrezione di un mineralcorticoide diverso dall'aldosterone. Sebbene il problema non sia stato ancora ben chiarito, almeno in un certo numero di casi d'ipertensione essenziale a bassa renina non c'è aumento né del volume plasmatico né del volume dei liquidi extracellulari, e non ci sono elementi per supporre la presenza d'un mineralcorticoide anormale. È possibile che nell'ipertensione essenziale a bassa renina esista invece una diminuita stimolazione simpatica delle cellule iuxtaglomerulari o una diminuita reattività delle cellule stesse (v. Zanchetti e altri, 1976). È comunque ovvio che le ipertensioni a bassa renina non sono ipertensioni renina-dipendenti.
Tra le ipertensioni ad alta renina (che nella sua analisi Laragh considera ipertensioni da vasocostrizione causata dalla renina) dobbiamo prendere in considerazione, oltre a un certo numero di casi di ipertensione essenziale, due forme almeno di ipertensione secondaria. Nella prima, che è molto rara, i valori di attività reninica plasmatica sono molto elevati per la presenza di un tumore delle cellule iuxtaglomerulari (emangiopericitoma; iperreninismo primario): l'ablazione del tumore abolisce l'ipertensione (v. Conn e altri, 1973). L'altra forma è l'ipertensione renovascolare. Abbiamo già ricordato, parlando del modello sperimentale di ipertensione renovascolare, che l'attività reninica plasmatica rimane elevata abbastanza a lungo solo nella cosiddetta ipertensione a due reni, cioè con un'arteria costretta e il rene controlaterale intatto. Probabilmente, questo modello corrisponde nell'uomo all'ipertensione renovascolare unilaterale nello stadio che precede il danno secondario del rene controlaterale. Invero negli ipertesi renovascolari l'attività reninica plasmatica è variabile da soggetto a soggetto, e solo alcuni pazienti possono essere classificati ad alta renina. La misura della renina nel sangue periferico ha tuttavia, in questi pazienti, uno scarso significato diagnostico e prognostico; maggior significato ha, dal punto di vista fisiopatologico (e forse anche da quello prognostico), la misurazione della renina nel sangue refluo da ciascuna vena renale. La fig. 13 illustra la regolazione della renina nell'ipertensione renovascolare. Dal lato affetto, la diminuita pressione a valle della stenosi agirà sul recettore vascolare e il diminuito carico di sodio (dovuto all'aumentato riassorbimento tubulare prossimale) agirà sulla macula densa, ed entrambi i fattori aumenteranno la secrezione di renina (insufficientemente frenata dal servo-meccanismo corto operato dall'angiotensina II e III). Dal lato sano, l'aumentata pressione sistemica (e perciò anche arteriolare afferente), l'aumentato carico di sodio (dovuto al diminuito riassorbimento tubulare prossimale), le angiotensine II e III generate dal rene opposto, tutti questi fattori contribuiranno a sopprimere la secrezione di renina. Infatti, in un buon numero di ipertesi renovascolari si può misurare un'elevata differenza veno-arteriosa di renina dal lato affetto, e una differenza minima o nulla (e talvolta addirittura valori negativi) dal lato opposto. Sono questi i pazienti in cui più spesso l'intervento chirurgico riparatore abolisce l'ipertensione (v. Vaughan e altri, 1973). Nei non rari ipertesi renovascolari in cui la secrezione reninica dei due reni è uguale, è probabile che la comparsa di un danno vascolare secondario nel rene inizialmente sano abbia stimolato la secrezione reninica anche da questo lato, o abbia invece ridotto l'escrezione di sodio e aumentato il volume plasmatico (o dei liquidi extracellulari) a tal punto da frenare la produzione di renina da parte del rene primitivamente affetto. In questo stadio il paziente renovascolare è in condizioni simili a quelle dell'animale nell'ultimo stadio dell'ipertensione alla Goldblatt, quando l'ablazione della pinza non abolisce più l'ipertensione.
II. Funzione del sistema renina-angiotensina nell'omeostasi pressoria dell'animale e dell'uomo normoteso. Questo dibattuto problema è stato chiarito recentemente grazie all'uso di bloccanti specifici del sistema. Sono stati infatti sintetizzati degli octapeptidi analoghi all'angiotensina II, dotati di antagonismo competitivo col peptide naturale a livello dei recettori vascolari; sono stati pure sintetizzati dei peptidi che inibiscono la conversione dell'angiotensina I in angiotensina II (v. Davis, 1975). Il blocco del sistema renina-angiotensina con uno di questi inibitori specifici non diminuisce la pressione degli animali in condizioni normali; se però la gettata cardiaca è diminuita dall'emorragia, dalla costrizione della vena cava inferiore o dalla deplezione di sodio, il blocco dell'angiotensina produce una cospicua ipotensione: in queste condizioni l'azione vasocostrittrice dell'angiotensina II contribuisce a impedire un'ipotensione. Analogamente, i bloccanti specifici del sistema non producono ipotensione nell'uomo normale, nemmeno nella posizione eretta, a meno che la posizione eretta sia combinata con la deplezione di sodio: anche nell'uomo, dunque, l'unione di due stimoli che riducono la gettata cardiaca richiede la secrezione di renina per mantenere la pressione a livelli normali.
III. Funzione pressoria del sistema renina-angiotensina nell'ipertensione sperimentale e umana. Anche questo importante problema è in via di chiarimento grazie all'impiego dei peptidi inibitori. Abbiamo già ricordato che gli esperimenti con queste sostanze hanno confermato che l'aumento della pressione nello stadio acuto di entrambi i modelli d'ipertensione renovascolare sperimentale, quello con entrambi i reni e quello con un rene solo, dipende dalla presenza di angiotensina; in uno stadio successivo, invece, solo nel modello con due reni l'aumento pressorio continua a dipendere dall'angiotensina (v. Davis, 1975).
I primi studi eseguiti somministrando i peptidi inibitori ai pazienti di ipertensione hanno fornito la prova che nella maggior parte dei pazienti ad alta renina (sia con ipertensione essenziale sia con forme secondarie) gli elevati livelli di pressione sono in gran parte sostenuti dall'angiotensina. La funzione pressoria del sistema renina-angiotensina negli ipertesi a renina normale pare invece scarsa. Si può dunque concludere che in una parte almeno dei pazienti con ipertensione essenziale e con ipertensione renovascolare e secondaria renale c'è un'aumentata secrezione di renina, e che l'eccesso di angiotensina è in parte responsabile degli elevati valori pressori. I problemi importanti che rimangono aperti per le future ricerche sono due: accertare quanto grande sia il numero di questi pazienti (è probabile ch'essi siano una piccola minoranza tra gli ipertesi essenziali), e accertare se, anche tra i pazienti con renina normale, ce ne siano alcuni in cui l'attività reninica plasmatica possa considerarsi sproporzionatamente alta quando venga valutata insieme alle altre variabili che regolano la secrezione di renina e controllano la circolazione.
2. Attività antipertensiva della midollare renale. - Il sistema renina-angiotensina rappresenta il principale meccanismo con cui il rene esercita un'azione proipertensiva, ma - come già abbiamo detto - ci sono ragioni per ritenere che il rene secerna anche una o più sostanze antipertensive, e che in vari tipi d'ipertensione sperimentale la produzione di questa sostanza, o di queste sostanze, sia diminuita. Il fondamento indiretto di questa opinione sta nel modello di ipertensione renopriva che già abbiamo discusso. Un fondamento di importanza più diretta risiede in alcuni esperimenti di Muirhead e altri (v., 1973), che hanno dimostrato che l'impianto di frammenti della midollare renale sotto la cute di animali ipertesi ne riduce la pressione, e che questa ritorna ai precedenti livelli ipertensivi quando il trapianto viene rimosso. I trapianti ad azione ipotensiva contengono grandi cellule stellate, normalmente presenti nel tessuto interstiziale della papilla renale, il cui citoplasma è ricco di granuli lipidici, dai quali si possono estrarre delle prostaglandine (E2 e A2) e un lipide neutro non meglio identificato. L'osservazione che le cellule interstiziali di ratti con vari tipi d'ipertensione contengono un minor numero di granuli lipidici (v. Tobian, 1973), è senz'altro compatibile con l'ipotesi che l'ipertensione sia in parte dovuta a una diminuita attività antipertensiva della midollare renale. Dove e come il prodotto secretorio delle cellule interstiziali midollari eserciti la sua azione antipertensiva non è chiaro. L'azione potrebbe essere intrarenale o extrarenale. Un'azione extrarenale è improbabile per la prostaglandina E2, che viene distrutta pressoché interamente al suo passaggio per i polmoni, ma è possibile per la prostaglandina A2 e per il lipide neutro. Le prostaglandine esercitano un'importante azione natriuretica, e vi è chi ha supposto ch'esse intervengano normalmente nella regolazione dell'escrezione del sodio. È improbabile tuttavia che l'azione natriuretica sia l'unico meccanismo della funzione ipotensiva midollare: infatti, proprio l'esperimento su cui si fonda l'ipotesi della funzione ipotensiva midollare (la presenza d'ipertensione dopo nefrectomia bilaterale, e l'assenza d'ipertensione dopo impianto degli ureteri in vescica) esdude l'importanza di una regolazione della natriuresi.
Per completezza, è opportuno ricordare che un'altra sostanza di provenienza renale, la callicreina urinaria, potrebbe mediare la funzione ipotensiva del rene (v. Margolius e altri, 1973). La callicreina urinaria è prodotta localmente dal rene ed è diversa dalla callicreina plasmatica. Essa agisce come un enzima su un chininogeno per produrre la chinina callidina, che è un potente agente vasodilatatore e natriuretico. Nelle urine dei pazienti d'ipertensione essenziale ci sono ridotte quantità di callicreina. È possibile perciò che ci sia qualche rapporto tra ipertensione e callicreina renale, ma quale esso sia e quale ne sia la reale importanza è ancora impossibile dirlo. È interessante, comunque, che siano state dimostrate delle interazioni tra callicreina, prostaglandine e sistema renina-angiotensina.
3. Rapporti tra pressione arteriosa ed escrezione renale. - È nozione classica che, da un lato, la pressione arteriosa influisce sull'escrezione di sodio e acqua da parte del rene e che, dall'altro, la ritenzione e la perdita di volume influiscono sulla pressione arteriosa. È stato merito di Guyton (v. Guyton e altri, 1974) aver sottolineato con grande vigore e insistenza l'importanza della funzione escretrice renale nell'omeostasi pressoria. La fig. 14 riassume il circuito omeostatico che, secondo Guyton, lega l'assunzione e l'eliminazione di fluidi alla pressione arteriosa. Il primo blocco della figura indica che il rapporto tra pressione arteriosa (PA) ed escrezione urinaria (EU) è descritto da una curva assai ripida, perché l'aumento e la riduzione della pressione di perfusione renale, anche di pochi mm Hg, provocano un cospicuo aumento e, rispettivamente, una marcata riduzione dell'escrezione urinaria. L'equilibrio tra eliminazione urinaria di liquidi, perdita di liquidi per vie diverse dal rene e assunzione di liquidi determina le variazioni del volume dei liquidi extracellulari (VLEC; blocchi 2 e 3); il VLEC a sua volta determina il volume sanguigno (VS; blocco 4), e quest'ultimo regola - in funzione della capacità del sistema vascolare - la pressione di riempimento vascolare (PRV) e di conseguenza (blocchi 5-7) il ritorno venoso al cuore e la gettata cardiaca. La gettata cardiaca (GC) e le resistenze periferiche totali (RPT) sono i fattori finali che determinano il valore della pressione arteriosa (blocco 8). Abbiamo già ricordato che, nella concezione di Guyton, la gettata cardiaca è in grado d'influenzare le resistenze periferiche grazie al lento svilupparsi di ciò che egli ha definito l'autoregolazione circolatoria totale, per cui un aumento della gettata, e quindi del flusso attraverso i vari organi, genererebbe lentamente una vasocostrizione che riporterebbe nella norma il flusso attraverso ogni organo, e rinormalizzerebbe quindi la gettata cardiaca e il volume sanguigno.
Guyton ha sottolineato l'importanza preminente del servomeccanismo renale per la regolazione a lungo termine della pressione arteriosa. Il servomeccanismo renale sarebbe infatti un sistema ad accumulo (o di tipo ‛integrale'), capace cioè di sommare (o integrare) gradualmente le variazioni di volume, in un senso o nell'altro, fino a riportare la pressione esattamente ai valori di partenza (da cui la sua definizione come servomeccanismo a guadagno infinito). Al contrario, tutti i meccanismi regolatori che non coinvolgono il rene potrebbero produrre solo delle variazioni transitorie della pressione arteriosa, perché a lungo termine essi sarebbero sovrastati dalla dominante funzione regolatrice del rene. In tal modo si potrebbe spiegare, per esempio, la breve e modesta ipertensione che segue, cronicamente, alla denervazione barocettiva (v. sopra): l'ipertensione durerebbe solo finché il rene, riducendo il volume sanguigno, non riporta la pressione a valori pressoché normali. Invero, nella concezione di Guyton, il sistema nervoso simpatico, i riflessi barocettivi, il sistema renina-angiotensina sono tutti servomeccanismi la cui importanza sarebbe limitata alla regolazione a breve termine della circolazione.
Secondo Guyton, dunque, i due fattori fondamentali che determinano, a lungo termine, il livello della pressione arteriosa sarebbero il volume dei liquidi assunti e la capacità escretoria del rene, definita come la curva che descrive i rapporti tra pressione ed escrezione renale (v. fig. 15). Finché la capacità escretoria del rene è normale, anche se l'assunzione di liquidi e sale aumenterà di parecchie volte, la pressione aumenterà solo di pochi mm Hg, per cui è improbabile che si possa provocare ipertensione col solo aumento dei liquidi ingenti. È più facile invece ipotizzare varie condizioni in cui la capacità di escrezione renale sia modificata, ed è ciò che hanno fatto Guyton e altri (v., 1975) nella fig. 15. Un aumento delle resistenze vascolari renali (come quello che si determina nell'ipertensione renovascolare per effetto della stenosi di un'arteria principale, o nell'ipertensione essenziale per costrizione arteriolare) sposterebbe la curva a destra, senza alterarne la forma, per cui l'equilibrio tra assunzione ed eliminazione di liquidi si raggiungerebbe solo a un più elevato livello pressorio. Se invece la massa renale è ridotta (vuoi, sperimentalmente, per ablazione di un rene e di buona parte dell'altro; vuoi per un processo patologico che riduce notevolmente il numero dei nefroni funzionanti), la curva viene deformata, in modo tale che l'equilibrio tra assunzione ed eliminazione di liquidi si ottiene ancora a valori pressori pressoché normali finché l'assunzione di liquidi è normale, ma un'assunzione elevata conduce inevitabilmente a un cospicuo aumento pressorio. Una riduzione del coefficiente di filtrazione glomerulare per ispessimento della membrana glomerulare o per riduzione dei capillari glomerulari (per es. nella tossiemia gravidica) appiattisce la curva, così che una pressione normale potrebbe esser mantenuta soltanto da un'assunzione di liquidi molto ridotta. Un aumento dell'aldosterone (ipertensione sperimentale da mineralcorticoidi; aldosteronismo primario) altererebbe la curva, perché l'aumentato riassorbimento tubulare del sodio potrebbe essere controbilanciato soltanto da un'aumentata pressione di perfusione renale. Infine un'aumentata produzione di renina e di angiotensina (ipertensione ad alta renina) influenzerebbe l'escrezione renale non solo attraverso l'azione dell'angiotensina sulla secrezione di aldosterone, ma per l'azione vasocostrittrice renale e per l'azione tubulare dell'angiotensina.
L'ipotesi di Guyton interpreta in modo relativamente unitario quasi tutti i diversi tipi d'ipertensione. Ci sono inoltre parecchi dati, anche di altri autori, che sono senz'altro in accordo con l'interpretazione di Guyton. In primo luogo, gli esperimenti già citati di Dahl (v., 1972), che ha selezionato un ceppo di ratti in cui l'ipertensione si sviluppa con grande facilità se viene somministrato del sale, e un altro ceppo in cui invece l'ipertensione non si sviluppa. L'importanza del rene nel determinare la predisposizione genetica all'ipertensione è dimostrata dal fatto che il trapianto crociato di un rene tra ratti predisposti all'ipertensione e ratti resistenti trasforma i resistenti in predisposti e viceversa (v. Dahl e altri, 1974). Simili osservazioni sono state compiute, con il trapianto crociato dei reni, da Bianchi (v. Bianchi e altri, 1974) nel suo ceppo di ratti in cui l'ipertensione si sviluppa indipendentemente da un' eccessiva somministrazione di sale, ma in cui il rene probabilmente ha, geneticamente determinata, una diminuita capacità di eliminare il sodio. Freis (v., 1976) ha recentemente argomentato che il caso dell'uomo in cui si sviluppa l'ipertensione essenziale sia analogo a quello del ratto di Dahl predisposto all'ipertensione da sale. In appoggio all'ipotesi che in alcuni individui esista una congenita riduzione della capacità escretoria del rene, che causerebbe l'ipertensione solo in presenza di somministrazione di sale, Freis richiama alcuni interessanti dati epidemiologici, secondo cui nelle società non acculturate non c'è ipertensione e la pressione non aumenta con l'età, come avviene invece in tutte le popolazioni ‛civilizzate'. Delle varie ipotesi che sono state avanzate per spiegare questo fenomeno (debolezza causata da malattie parassitarie e altre malattie endemiche tra le popolazioni non acculturate, la vita più semplice e meno competitiva di queste popolazioni, la mancanza di obesità e, infine, la scarsa ingestione di sale), Freis insiste su quest'ultima e argomenta che l'ipertensione sarebbe comparsa come malattia relativamente nuova durante lo sviluppo sociale mano a mano che le popolazioni, acculturandosi, avrebbero sviluppato il gusto per i cibi salati; essa si manifesterebbe però solo in quegli individui il cui rene geneticamente non è capace di eliminare l'accresciuto carico di sale se non a più elevati livelli di pressione. Infine, Coleman e altri (v., 1975) hanno passato in rassegna vecchi e nuovi dati per sostenere che nell'ipertensione essenziale v'è, fin dall'inizio, un aumento delle resistenze vascolari renali soprattutto afferenti, e ciò sarebbe la causa piuttosto che la conseguenza dell'ipertensione.
Se merito indiscusso di Guyton è stato quello d'insistere sulla nozione che nessun meccanismo ipertensivo può consentire il permanere dello stato ipertensivo se non coinvolge in qualche modo la capacità del rene di eliminare sale e acqua, si devono sottolineare alcune limitazioni e dell'ipotesi stessa di Guyton e, soprattutto, di alcuni corollari che sono stati tratti da essa. In primo luogo, l'indubbia necessità di un riaggiustamento funzionale renale nell'ipertensione non significa che necessariamente il disturbo iniziale che causa l'ipertensione debba essere intrinseco al rene. Guyton stesso ammette esplicitamente che la curva funzionale renale può essere modificata dal simpatico, dal sistema renina-angiotensina e da vari altri fattori estrinseci. In secondo luogo, l'importanza che il gruppo di Guyton dà ai fattori glomerulari per la regolazione dell'escrezione del sodio potrebbe essere eccessiva, perché gli studi più recenti indicano che anche i meccanismi tubulari hanno un'importanza non trascurabile. Quanto alla catena di eventi per cui la ritenzione di sodio porterebbe a un'espansione del volume sanguigno e questa a un aumento della gettata e poi, per autoregolazione, a una vasocostrizione periferica, abbiamo già detto come l'autoregolazione vascolare generale propugnata da Guyton sia solo un'ipotesi fisiologica da dimostrare. Inoltre, l'aumento dei liquidi extracellulari e del volume plasmatico è un fenomeno dimostrato solo nell'aldosteronismo primario e nell'ipertensione da insufficienza renale; non c'è un'espansione di volume nell'ipertensione essenziale, e non si capisce perché essa dovrebbe determinarsi inizialmente per poi essere corretta, mentre questa correzione non avverrebbe nelle due altre forme d'ipertensione. Abbiamo già ricordato che, anche per ciò che riguarda l'ipertensione renovascolare, solo la forma a rene unico si accompagna a ritenzione di liquidi, mentre ciò non avviene nella forma a due reni, che anzi, nella pecora, compare malgrado una perdita di sodio. Infine, il caso del feocromocitoma (forma con ipertensione stabile, non accessuale), in cui con l'ipertensione coesiste una marcata riduzione del volume plasmatico, è in lampante contraddizione con le eccessive generalizzazioni dell'ipotesi di Guyton.
b) Meccanismi nervosi
E. Neil ha già ampiamente trattato la fisiologia della regolazione nervosa della circolazione in un articolo precedente, a cui rimandiamo (v. circolazione: Regolazione nervosa della circolazione). Lo scopo di questo capitolo (v. anche Zanchetti, 1972; v. Zanchetti e Bartorelli, 1977) è quello di discutere se questi stessi meccanismi, così importanti per la regolazione ‛normale' della circolazione, possano essere chiamati in causa anche per spiegare le alterazioni circolatorie caratteristiche dell'ipertensione arteriosa. Questo problema, che ha appassionato gli studiosi per anni, sarà discusso sotto due aspetti distinti: 1) la possibilità che dei meccanismi nervosi siano ‛causa' di alcune ipertensioni sperimentali e di alcuni casi d'ipertensione umana; 2) la possibilità che dei meccanismi nervosi intervengano secondariamente a mantenere e perpetuare un'ipertensione scatenata da cause non-nervose.
1. Ipertensioni iniziate da meccanismi nervosi. - Che la stimolazione del simpatico e di vari centri nervosi aumenti la pressione è fuori discussione, ma l'affermazione che un'iperattività di questi meccanismi sia la causa iniziale di almeno un certo numero di casi d'ipertensione richiede la dimostrazione preliminare di alcuni punti. In primo luogo, occorre provare che meccanismi simpatici ad azione pressoria vengano coinvolti da quegli stimoli ambientali e psichici, la cui frequente ripetizione nelle moderne società acculturate sarebbe - secondo un'ipotesi corrente - una delle cause dell'attuale diffusione dell'ipertensione. In secondo luogo è importante stabilire se reazioni pressorie d'origine psichica o ambientale diano luogo col tempo a un'ipertensione stabile, che sopravvive allo stimolo e che porta ad alterazioni vascolari secondarie, come avviene nell'ipertensione essenziale.
A. Effetti cardiovascolari del comportamento emotivo. Gli studi di Folkow e di Hilton, riassunti da Neil nel suo articolo, hanno permesso di descrivere la cosiddetta ‛reazione cardiovascolare di difesa', cioè l'insieme di alterazioni cardiache e vascolari che sono prodotte dalla stimolazione di quei centri cerebrali (soprattutto l'ipotalamo laterale) che governano le reazioni emotive di difesa e attacco nel gatto e nel cane. Ricorderemo brevemente che esse consistono nei segni di una diffusa attivazione del simpatico adrenergico, con aumento della frequenza e della forza contrattile cardiaca e conseguente aumento della gettata, e con una diffusa costrizione dei vasi viscerali e cutanei e conseguente cospicua ipertensione: in contrasto con la vasocostrizione viscerale e cutanea, il letto vascolare muscolare si dilata sotto l'azione di fibre simpatiche specializzate a mediazione colinergica. Stimolazione cardiaca, vasocostrizione viscerale e cutanea adrenergica e vasodilatazione muscolare colinergica sono comunemente considerate le manifestazioni cardiovascolari delle emozioni. È evidente, tuttavia, che i risultati della stimolazione elettrica dell'ipotalamo nell'animale anestetizzato non possono essere usati che con cautela per interpretare le reazioni naturali dell'animale normale. Infatti, gli studi da noi compiuti sulle manifestazioni cardiovascolari che accompagnano vari comportamenti emotivi naturali del gatto (v. Zanchetti e altri, 1972) hanno mostrato che, se esse hanno notevoli rassomiglianze con le reazioni alla stimolazione elettrica dell'ipotalamo, vi sono anche notevoli diversità. In particolare, la vasodilatazione colinergica è presente solo nei muscoli che partecipano ai movimenti di lotta, quando il gatto è aggredito da un altro gatto o da un cane; nei muscoli che rimangono inattivi si osserva invece una vasocostrizione, e quando il confronto emotivo dell'aggredito con l'aggressore non è accompagnato da alcun movimento si ha una vasocostrizione generalizzata. Nell'insieme, le reazioni emotive naturali provocano reazioni pressorie assai minori di quelle scatenate, artificialmente, dalla stimolazione elettrica dell'ipotalamo, probabilmente perché la vasocostrizione nei visceri e nei muscoli inattivi è in buona parte bilanciata dalla vasodilatazione, colinergica e metabolica, nei muscoli attivi. Tuttavia, marcate reazioni pressorie si osservano quando si provocano episodi di lotta molto intensa e prolungata.
B. Ipertensioni sperimentali prodotte da manipolazioni del comportamento. Sono stati compiuti numerosi tentativi di produrre un'ipertensione persistente con stimoli nervosi o psicologici, e alcuni di questi tentativi sono stati coronati da successo. Folkow e Rubinstein (v., 1966), con la stimolazione ripetuta per parecchie settimane dell'area ipotalamica di difesa del ratto, ottennero un'ipertensione che persisteva tra uno stimolo e l'altro, e che lentamente scemava, in due settimane, dopo l'interruzione delle stimolazioni (v. fig. 16). Le tecniche di condizionamento pavloviano, largamente impiegate, specie nell'Unione Sovietica, nel tentativo di produrre un'ipertensione sperimentale, non hanno avuto molto successo; migliori risultati hanno avuto, recentemente, le tecniche di condizionamento operativo. Herd e altri (v., 1969) e Forsyth e Harris (v., 1970) hanno prodotto ipertensione in alcune scimmie sottoposte a un pesante programma di condizionamento operativo (pressione di un tasto per evitare uno stimolo elettrico doloroso) e questa ipertensione perdurava anche negli intervalli, talora prolungati, tra una sessione e l'altra di condizionamento. Una delle scimmie di Herd presentò delle lesioni vascolari renali.
La dimostrazione ancora più chiara che stimoli sociali e psicologici possono causare un'ipertensione duratura è stata data da Henry e altri (v., 1975), che hanno impiegato due ingegnosi modelli sperimentali. Secondo il primo, numerosi topi vengono allevati insieme in una colonia a scompartimenti intercomunicanti: rapidamente i vari maschi della colonia vanno sviluppando diverse caratteristiche comportamentali e si differenziano come individui dominanti, indifferenti e subordinati; parallelamente va cambiando anche la pressione arteriosa, che diventa assai più alta nei maschi dominanti. Secondo l'altro modello, i topi vengono mantenuti in isolamento fino al termine della crescita, e poi immessi nella colonia, dove combattono vivacemente e continuamente tra di loro, a causa della mancata educazione a vivere in società. Come indica la fig. 17, già dopo pochi giorni questi topi mostrano elevati livelli di pressione e, se la stimolazione sociopsicologica viene continuata per alcuni mesi, l'ipertensione persiste, almeno in parte, anche dopo la rimozione dello stimolo ambientale. Inoltre, col prolungarsi della stimolazione va aumentando in questi animali l'incidenza di lesioni aortosclerotiche, va sviluppandosi un'ipertrofia cardiaca e va deteriorandosi la funzione renale.
C. Fattori psichici e comportamento nell'ipertensione spontanea del ratto. Se i ratti ipertesi del ceppo di Dahl, e probabilmente anche quelli del ceppo di Bianchi, rapprcsentano un esempio di ipertensione dovuta alla concomitanza di fattori genetici che riguardano il rene e di fattori dietetici (assunzione di sale), i ratti ipertesi del ceppo giapponese rappresentano invece un modello d'ipertensione dovuta alla concomitanza di fattori genetici, che probabilmente riguardano il sistema nervoso, e di fattori ambientali, che agiscono sul sistema nervoso. Gli esperimenti di Folkow (v., Central neurohormonal..., 1975) hanno infatti dimostrato che questi ratti, quando vengono esposti a vari stimoli ambientali, reagiscono con reazioni cardiovascolari di difesa di particolare vivacità; queste esagerate risposte sono presenti anche nei giovani ratti, in una fase che si può ancora definire ‛pre-ipertensiva', e si può perciò escludere che esse siano causate dall'ipertensione. Inoltre, se i giovani ratti sono cresciuti in segregazione, lontano dagli stimoli che producono la reazione di difesa, l'ipertensione non si sviluppa o si sviluppa in misura minore. È ragionevole dunque concludere con Folkow che un'ipertensione stabile si sviluppi col tempo nei ratti del ceppo giapponese, mano a mano che la frequente ripetizione di esagerate reazioni pressorie conduce a un'ipertrofia della parete vascolare.
D. Fattori psichici e nervosi nell'ipertensione essenziale. Ci sono elementi che avvalorano l'ipotesi che l'ipertensione essenziale dell'uomo, similmente all'ipertensione spontanea del ratto giapponese, dipenda dalla concomitanza di fattori genetici e ambientali che coinvolgono il sistema nervoso? Bisogna riconoscere che, più che di fatti, disponiamo a questo proposito solo di indizi (v. Zanchetti e Bartorelli, 1977). Vari studi della personalità dei pazienti ipertesi concordano nel descrivere questi pazienti come soggetti con ostilità, aggressività e ansietà scarsamente soppresse (v. Weiner, 1977), ma purtroppo le metodiche per lo studio psicologico dell'uomo sono ancora abbastanza imprecise sotto l'aspetto quantitativo, o non permettono delle conclusioni definitive. Altri studi, che indicano un rapporto tra stress psicologici e comparsa d'ipertensione essenziale, hanno altre limitazioni. Così la frequente osservazione di una pressione elevata tra i combattenti in prima linea, e l'osservazione di un'epidemia d'ipertensione durante l'assedio di Leningrado e dopo il disastro di Texas City si basano su ricerche epidemiologiche eseguite in condizioni tecniche ovviamente assai difficoltose. Abbiamo già ricordato che Brod (v., 1963) ha sottolineato la stretta somiglianza tra il quadro emodinamico dell'ipertensione essenziale e quello della reazione di difesa (v. fig. 4), entrambi caratterizzati da aumento della gettata cardiaca, da una vasocostrizione viscerale e cutanea e da una vasodilatazione muscolare; da questa somiglianza (che è limitata all'ipertensione essenziale, perché in quella da lesioni renali parenchimali non c'è vasodilatazione muscolare) Brod trae argomenti a favore dell'ipotesi che l'ipertensione essenziale (ma non quella renale) origini dal frequente ripetersi di reazioni emotive. Per quanto si debba essere cauti nel trarre conclusioni patogenetiche da una semplice analogia emodinamica, bisogna riconoscere che le osservazioni di Brod nell'uomo iperteso sono consistenti con quelle di Folkow nel ratto con ipertensione spontanea. Infine, alcuni recenti dati di Julius e altri (v., 1975), secondo cui l'aumentata gettata cardiaca, caratteristica dell'ipertensione lieve (o borderline) del giovane, viene riportata alla norma dal blocco farmacologico del vago e del simpatico cardiaco, si accordano molto meglio con l'ipotesi di Brod (aumento della gettata come manifestazione di una reazione di difesa) che con quella di Guyton (aumento della gettata per ritenzione renale di fluidi). È pure conforme all'ipotesi di un aumentato tono simpatico all'inizio dell'ipertensione essenziale l'osservazione di Julius e altri (v., 1975) che, in un certo numero di questi ipertesi giovani, l'aumento delle resistenze vascolari, che si evidenzia dopo il blocco della regolazione nervosa cardiaca, venga abolito dal blocco degli alfa- recettori simpatici.
2. Controllo nervoso della circolazione nell'ipertensione: meccanismi centrali e meccanismi periferici. - Discuteremo qui di seguito quelle osservazioni che, pur senza voler dimostrare che meccanismi nervosi danno origine all'ipertensione, provano tuttavia che essi sono importanti nel mantenere elevata la pressione anche in quelle ipertensioni chiaramente iniziate da altri meccanismi (per es., ipertensione nefrovascolare; ipertensione da mineralcorticoidi), in situazioni cioè in cui i fattori nervosi possono intervenire solo come meccanismi secondari, ma per questo non meno essenziali. Discuteremo altresì delle interrelazioni tra meccanismi nervosi e meccanismi renali del controllo cardiovascolare, sottolineando così i circuiti fisiologici per cui ipertensioni primitivamente nervose possono coinvolgere il rene, e viceversa.
A. Meccanismi centrali. Ci sono due gruppi di osservazioni che indicano che i meccanismi centrali che regolano l'attività del simpatico adrenergico sono coinvolti nell'ipertensione.
I. Sonno e ipertensione. Durante il sonno desincronizzato del gatto normale (periodi di sonno fisiologico caratterizzati da un elettroencefalogramma desincronizzato, da ipotonia muscolare e da salve di rapidi movimenti oculari; v. sonno), si osserva una diminuzione della pressione arteriosa, lieve riduzione della frequenza e della gettata cardiaca e una più marcata diminuzione delle resistenze vascolari periferiche. Quest'ultima è prodotta da una soppressione centrale del tono vasocostrittore simpatico, ed è potenziata dall'interruzione dei riflessi senoaortici: infatti nell'animale con denervazione senoaortica la pressione cade, durante il sonno desincronizzato, a livelli molto bassi. Nel gatto reso iperteso dalla stenosi bilaterale delle arterie renali, il sonno desincronizzato riduce modestamente la pressione, ma quando la denervazione senoaortica permette una più profonda soppressione del tono simpatico vasocostrittore, la pressione scende a livelli molto bassi anche nel gatto iperteso (v. fig. 18). Ciò dimostra che anche l'ipertensione renovascolare viene sostenuta dall'attività simpatica adrenergica, e può esser abolita dall'inattivazione centrale del tono simpatico (v. Zanchetti e altri, 1973). Queste conclusioni coincidono con quelle di precedenti esperimenti, pure del nostro gruppo (v. Bartorelli e altri, 1952), nei quali l'ipertensione renovascolare del cane veniva transitoriamente abolita quando il cane era portato in posizione verticale dopo che il centro vasomotorio bulbare era stato inattivato dall'applicazione di un anestetico locale sul pavimento del quarto ventricolo.
Le variazioni della pressione arteriosa durante il sonno fisiologico sono state studiate anche nell'uomo, normoteso e iperteso (v. Zanchetti, 1971). Purtroppo gli studi sull'uomo hanno dato risultati meno chiari che non gli studi sull'animale, forse perché il sonno REM dell'uomo ha caratteristiche un po' diverse dal suo equivalente nell'animale, il sonno desincronizzato, e non si accompagna a cadute pressorie maggiori di quelle che si osservano nelle fasi profonde del sonno sincronizzato; e anche perché nell'uomo, ovviamente, non si possono compiere quegli interventi, per esempio la denervazione senoaortica, che nel gatto permettono una più profonda soppressione del tono vasocostrittore simpatico da parte del sonno desincronizzato. Rimane comunque il fatto che anche nell'uomo iperteso la pressione spesso ritorna a valori normali, o pressoché normali, durante il sonno (v. fig. 19), dimostrando con ciò che parte almeno del rialzo pressorio è legato a una vasocostrizione simpatica.
II. Meccanismi noradrenergici centrali e ipertensione. Conclusioni analoghe a quelle tratte con lo studio dell'ipertensione sperimentale durante il sonno sono state raggiunte grazie a recenti ricerche neurochimiche e farmacologiche, che hanno altresì ampliato le nostre conoscenze della regolazione centrale del sistema cardiovascolare (v. De Champlain, 1977). Le principali strutture centrali ad azione vasomotoria (il centro vasomotorio bulbare, l'ipotalamo, le colonne mediolaterali spinali) contengono neuroni a trasmissione noradrenergica, adrenergica e serotonergica. I neuroni noradrenergici sono interposti in una via bulbo-spinale facilitatrice, che mantiene elevata l'attività delle fibre simpatiche vasocostrittrici. La distruzione di questi neuroni per mezzo dell'iniezione intracisternale di 6-idrossidopammina (6-OHDA, una sostanza che, assunta dai neuroni adrenergici, li distrugge) impedisce la comparsa di vari tipi d'ipertensione sperimentale, o fa marcatamente diminuire la pressione quando l'ipertensione è già sviluppata (ipertensione da denervazione senoaortica, da lesione del nucleo del tratto solitario, da stenosi dell'arteria renale). In questi modelli d'ipertensione, dunque, sembra che la via noradrenergica bulbo-spinale ad azione facilitatrice partecipi in maniera essenziale, o quanto meno assai importante, allo sviluppo e al permanere dell'ipertensione. Nei ratti con ipertensione spontanea (ceppi giapponese e neozelandese) e nei ratti con ipertensione da DOCA, l'iniezione intracisternale di 6-OHDA è solo in grado d'impedire l'insorgenza dell'ipertensione, ma non di abolirla una volta che essa si è sviluppata: pare dunque che, in questi modelli sperimentali d'ipertensione, la via facilitatrice bulbo-spinale partecipi solo allo scatenamento dell'ipertensione.
Inoltre c'è ragione di supporre che altri neuroni noradrenergici siano interposti in un'altra via centrale ad azione inibitrice sull'attività simpatica. Questa via è stata recentemente indicata come il meccanismo attraverso il quale eserciterebbero la loro azione ipotensiva alcuni farmaci attualmente impiegati nella cura dell'ipertensione; ma il problema è ancora aperto. Infine, è anche possibile che i neuroni serotonergici del bulbo e del midollo spinale partecipino a un meccanismo centrale facilitatore del tono simpatico, e che questo meccanismo, a fianco del meccanismo noradrenergico facilitatore, abbia importanza per alcuni tipi d'ipertensione sperimentale; ma i dati in proposito sono ancora troppo scarsi e contraddittori.
B. Meccanismi periferici. I. Metabolismo delle catecolammine nelle terminazioni adrenergiche. Le nostre conoscenze del metabolismo del trasmettitore nelle terminazioni adrenergiche del simpatico postgangliare si sono notevolmente approfondite, soprattutto grazie agli studi di Axelrod. Come si vede nella fig. 20, la quantità di trasmettitore che raggiunge i recettori delle cellule effettrici e ne determina la risposta dipende dalla capacità che hanno i granuli intracellulari di tenere in deposito il trasmettitore, dalla capacità di ricattura di parte del trasmettitore libero da parte della terminazione nervosa e dalla presenza di almeno due enzimi che degradano la noradrenalina (la monoamminossidasi, MAO, e la catecol-O-metiltransferasi, COMT). I begli studi di Axelrod e di De Champlain (v. De Champlain e altri, 1968; v. De Champlain, 1977) hanno mostrato che nel ratto reso iperteso con somministrazione di DOCA e sale c'è una diminuzione della noradrenalina presente nelle terminazioni simpatiche dei vari organi, diminuzione che non è dovuta a una ridotta cattura, né a un difetto di sintesi del trasmettitore, ma a una diminuita capacità di deposito dei granuli intrasinaptici. Ne consegue un accresciuto metabolismo locale della noradrenalina, col risultato che una maggior quantità di trasmettitore raggiunge l'effettore, sicché gli effetti dell'attività simpatica vengono potenziati perifericamente (v. fig. 20). Secondo Axelrod e De Champlain, queste alterazioni non sarebbero una conseguenza dell'ipertensione ma il meccanismo con cui l'ipertensione si determina, perché esse precedono nel tempo la comparsa dell'ipertensione. Un'accelerazione del metabolismo locale del trasmettitore simpatico è stata descritta in altri modelli d'ipertensione (renovascolare, da deafferentazione senoaortica, spontanea del ceppo giapponese), anche se con talune differenze; perciò un potenziamento periferico dell'attività simpatica sembra essere un importante meccanismo comune mediante il quale si perpetuerebbero vari tipi d'ipertensione pur indotti ciascuno da cause diverse.
II. Simpaticectomia e ipertensione. L'interruzione cronica del simpatico periferico è stata frequentemente usata per valutare l'importanza dell'attività simpatica nel mantenere elevata la pressione in vari modelli d'ipertensione sperimentale (v. Zanchetti, 1972; v. De Champlain, 1977). Delle tecniche impiegate la simpaticectomia chirurgica può difficilmente essere completa per difficoltà tecniche; l'immunosimpaticectomia (somministrazione di un anticorpo contro il fattore che condiziona lo sviluppo dei neuroni simpatici) è pure incompleta, perché l'anticorpo non può agire su quei neuroni che sono già maturi alla nascita; la simpaticectomia più estesa si può ottenere chimicamente grazie alla somministrazione intravenosa ripetuta di 6-OHDA, che si concentra nelle terminazioni simpatiche periferiche e le distrugge. I risultati più chiari sono stati perciò ottenuti con quest'ultima tecnica: l'ipertensione da DOCA e sale viene completamente abolita dalla simpaticectomia chimica combinata con la surrenectomia, l'insorgere dell'ipertensione da lesione del nucleo del tratto solitario viene impedita da una precedente simpaticectomia chimica e surrenectomia, la sola surrenectomia sembra che basti per abolire l'ipertensione spontanea del ratto nel ceppo giapponese, e infine la combinazione di simpaticectomia chimica e surrenectomia riduce marcatamente l'ipertensione renovascolare pur lasciando persistere una modesta componente pressoria d'origine renale.
III. Catecolammine e ipertensione essenziale. È sempre stato difficile valutare l'attività simpatica nell'uomo. Fini metodiche recenti permettono di misurare con buona precisione la concentrazione plasmatica delle catecolammine. Le catecolammine plasmatiche sono però una piccola frazione di quelle che vengono liberate dalle terminazioni del simpatico, perché la maggior parte del trasmettitore viene ricatturata dalle terminazioni stesse. Tuttavia, è probabile che le quantità di catecolammine che sfuggono nel plasma siano proporzionali a quelle liberate, e che perciò il dosaggio delle catecolammine plasmatiche rappresenti una misura pallida, ma abbastanza fedele, dell'attività simpatica adrenergica. Meno fedele sarebbe invece il dosaggio delle concentrazioni plasmatiche della β-dopammina-idrossilasi, un enzima necessario alla sintesi della noradrenalina e che passerebbe in parte nel plasma con la fuoriuscita dalle vescicole sinaptiche contenenti il trasmettitore. Suscita interesse l'osservazione che alcuni studi che hanno impiegato metodiche sufficientemente sensibili e selettive per il dosaggio delle catecolammine plasmatiche hanno rivelato che una parte dei pazienti con ipertensione essenziale ha concentrazioni di catecolammine più elevate dei soggetti normotesi; si tratta inoltre degli ipertesi in cui la pressione sistolica e diastolica e la frequenza cardiaca sono più elevate (v. De Champlain, 1977). È difficile dire, per il momento, se la presenza di segni d'iperattività adrenergica solo in una parte degli ipertesi studiati significhi che un'iperattività adrenergica esiste solo in un sottogruppo d'ipertesi essenziali e non in altri, o se essa dipenda invece da limitazioni metodologiche.
IV. Riflessi barocettivi e ipertensione. Dobbiamo prendere in considerazione due aspetti delle relazioni tra riflessi barocettivi e ipertensione: se cioè un'alterazione dei riflessi barocettivi possa produrre ipertensione, e se l'ipertensione a sua volta alteri i riflessi barocettivi.
Abbiamo già detto che l'interruzione dei riflessi senoaortici non produce un'ipertensione permanente ma solo un aumento della variabilità della pressione, per cui Guyton ha argomentato che un'alterazione dei barocettori non può essere causa di un'ipertensione permanente. Tuttavia, questa conclusione dev'essere accettata con una certa prudenza: per esempio, nei nostri esperimenti (v. Baccelli e altri, 1976) la modesta ipertensione da denervazione senoaortica si accompagnava tuttavia a una cospicua vasocostrizione viscerale, e non si può escludere che questa vasocostrizione, e in particolare una vasocostrizione renale, rappresenti il primo anello di una catena di eventi che, proprio secondo la concezione di Guyton, potrebbe condurre a una più marcata ipertensione, che si manifesterebbe se gli animali fossero seguiti per un tempo più lungo dopo l'intervento. Non può perciò escludersi che, almeno in alcuni casi, le alterazioni dei riflessi barocettivi descritte nell'ipertensione essenziale (v. sotto) rappresentino la causa anziché l'effetto dell'ipertensione.
Quanto al problema delle alterazioni barocettive prodotte dall'ipertensione, dopo gli esperimenti di McCubbin e altri (v., 1956) e la recente conferma di Sleight (v., 1975), non v'è dubbio che la soglia dei barocettori si innalzi durante l'ipertensione renovascolare sperimentale (v. fig. 21), e che la curva che descrive i rapporti tra scarica barocettiva e pressione si sposti a destra. Questo fenomeno, noto come resetting dei barocettori, è d'importanza fondamentale, altrimenti non sarebbe concepibile che ipertensioni iniziate attraverso meccanismi non nervosi siano poi mantenute grazie all'attività vasocostrittrice simpatica. L'attività simpatica dovrebbe infatti essere inibita dai barocettori, se la soglia di questi non si elevasse nel corso dell'ipertensione. E perciò importante, per la validità delle ipotesi che sostengono l'intervento di fattori neurogeni nell'ipertensione essenziale, che anche in questa ci sia un resetting dei barocettori e ciò è stato dimostrato da numerosi autori (v. Sleight, 1975; v. Mancia e altri, 1976). La fig. 22 riassume le osservazioni del nostro gruppo, ottenute variando la pressione in una scatola che racchiude il collo del paziente e alterando così la pressione di distensione del seno carotideo. Rimane ancora da accertare fino a qual punto, oltre al resetting, esista nell'ipertensione anche una diminuzione di sensibilità dei barocettori (cioè, oltre all'aumento della soglia, una minor risposta a pari variazione di stimolo) e se barocettori senocarotidei e barocettori aortici siano alterati nella stessa maniera durante l'ipertensione.
Va ricordata a questo punto la possibile importanza di un altro meccanismo riflesso. A fianco dei noti riflessi barocettivi senoaortici e vagali, che costituiscono un servo- meccanismo di tipo negativo (e cioè inibitorio), Malliani (v. Malliani e altri, 1975) ha recentemente supposto l'esistenza di un servomeccanismo riflesso di tipo positivo (o facilitatorio), rappresentato da riflessi spinali di origine vascolare con fibre afferenti simpatiche. La fig. 23 riassume la concezione di Malliani della coesistenza del classico servomeccanismo negativo senoaortico e vagale, integrato a livello bulbare, con quello positivo, integrato a livello spinale. Nella concezione di Malliani il servomeccanismo spinale potrebbe rappresentare, per la regolazione nervosa della circolazione, un meccanismo di base analogo ai riflessi spinali che determinano il tono dei muscoli striati. Come un'alterazione dei riflessi spinali somatici e dei meccanismi sopraspinali che li governano dà luogo alla spasticità, così l'ipertensione potrebbe essere causata da una sregolazione del servomeccanismo spinale di tipo positivo e dei circuiti sopraspinali che lo governano.
C. Interazioni tra meccanismi nervosi e renali dell'ipertensione. I. Interazioni tra sistema simpatico e sistema renina-angiotensina. Abbiamo già menzionato, a proposito del sistema renina-angiotensina, che l'angiotensina Il stimola il sistema simpatico a vari livelli, e che, a sua volta, il simpatico renale è uno dei meccanismi principali che governano la liberazione di renina. Il primo tipo d'interazione potrebbe spiegare come in un'ipertensione renale il meccanismo renale iniziale venga poi a essere sostituito dall'attività simpatica; e il secondo tipo d'interazione potrebbe rappresentare una delle vie attraverso le quali un'iniziale alterazione neurogena provoca un'ipertensione. Alcuni aspetti dell'ipertensione renovascolare sperimentale e alcuni casi clinici d'ipertensione possono forse spiegarsi con queste interazioni. Per esempio, la diminuzione della pressione di perfusione renale produce una secrezione di renina nettamente maggiore da parte di un rene innervato che da parte di un rene denervato (v. fig. 9D), per cui lo stesso meccanismo renale che è causa dell'insorgere dell'ipertensione renovascolare è a sua volta dipendente dall'attività di un meccanismo nervoso (v. Zanchetti e altri, 1976). Sul piano clinico, abbiamo già ricordato che in un non trascurabile numero di pazienti d'ipertensione essenziale, e anche d'ipertensione renovascolare e renale parenchimale, la renina plasmatica è assai aumentata e la pressione viene diminuita dall'iniezione dei peptidi che bloccano specificamente il sistema renina-angiotensina. In parecchi di questi pazienti la pressione viene pure ridotta dalla somministrazione di farmaci bloccanti i β-recettori adrenergici, cioè quei recettori che mediano l'azione del simpatico sulle cellule iuxtaglomerulari. Si potrebbe perciò supporre che in questi pazienti l'ipertensione sia causata, o almeno sostenuta, da un disturbo del controllo nervoso della secrezione della renina: occorrono però altri esperimenti perché quest'ipotesi possa considerarsi come provata.
II. Interazioni tra sistema simpatico e funzione escretrice del rene. Questo tipo d'interazione potrebbe avere un'importanza fondamentale nello sviluppo dell'ipertensione, se ci si attiene all'ipotesi di Guyton secondo cui la capacità del rene di eliminare acqua e sodio è il principale fattore che determina i valori della pressione. È ben noto che il sistema simpatico e le catecolammine possono regolare ‛la funzione escretrice del rene grazie alla loro azione sulle arteriole afferenti e quindi sul filtrato glomerulare, e non è forse senza importanza che quest'azione si esplichi anche nel corso del comportamento emotivo (v. Mancia e altri, 1974), rappresentando essa un ulteriore meccanismo mediante il quale l'attività emotiva potrebbe condurre a uno stato ipertensivo duraturo. Si deve tenere presente però che esperimenti recenti vanno dimostrando che il simpatico renale è capace di potenziare il riassorbimento tubulare prossimale del sodio indipendentemente da ogni effetto vasomotorio, grazie a un'azione tubulare diretta. L'importanza fisiologica di questo meccanismo non è ancora interamente conosciuta, ma pare non trascurabile; e le relazioni tra simpatico e funzione tubulare renale nella genesi dell'ipertensione rappresentano probabilmente un felice campo di studi per il prossimo futuro (v. Zanchetti, 1975; v. Zanchetti e Bartorelli, 1977).
c) Meccanismi vascolari
1. L'ipertrofia vascolare nell'evoluzione dell'ipertensione. - L'aumento delle resistenze periferiche che caratterizza tutte le ipertensioni non è, come si pensa troppo spesso e troppo semplicisticamente, la semplice e diretta espressione di fattori funzionali prontamente reversibili, ma è dovuto in larga misura ad alterazioni strutturali. Se oggi non c'è ragione di ritenere, come fu fatto in passato (v. le supposizioni di Schaarschmidt e Nicolai e il concetto di ‟fibrosi arterio-capillare" di Gull e Sutton), che un'ipertrofia vascolare sia la causa prima dell'ipertensione, è certo tuttavia che essa è un fattore di grande importanza non solo nel mantenere continuamente elevati i valori pressori, anche indipendentemente dal perdurare dei fattori scatenanti iniziali, ma nell'aggravare e accelerare il progredire dell'ipertensione, e nel preparare e scatenare quelle lesioni vascolari che sono la causa dell'elevata morbilità e mortalità dell'ipertensione.
Il problema del circolo vizioso ipertensione-ipertrofia vascolare-esagerate reazioni ipertensive è stato studiato brillantemente da Folkow (v., Vascular changes..., 1975). Nel ratto con ipertensione spontanea o con ipertensione renovascolare, così come nel paziente d'ipertensione essenziale, le resistenze vascolari, rispetto a quelle dei soggetti normotesi, sono aumentate anche in condizioni di massima vasodilatazione, e la risposta vasocostrittrice alla noradrenalina è potenziata: ciò indica che l'ipertrofia della parete riduce il lume delle arteriole di resistenza anche quando le miocellule vascolari sono rilasciate al massimo, e aumenta il rapporto tra spessore della parete e raggio del lume; per cui lo stesso raccorciamento delle miocellule produce una vasocostrizione maggiore che in un vaso normale (v. fig. 24). Ci sono anche delle osservazioni morfologiche che confermano che nell'ipertensione il ventricolo sinistro, le arterie e le arteriole precapillari hanno una caratteristica ipertrofia muscolare, con un ispessimento della parete strettamente proporzionale all'aumento del livello pressorio.
Nella concezione di Folkow, l'ipertrofia vascolare sarebbe il corrispettivo strutturale della normale reazione funzionale di autoregolazione vascolare, il fenomeno descritto da Bayliss per il quale un aumento della pressione intravascolare produce un'ulteriore contrazione delle miocellule vascolari, e quindi un'ulteriore vasocostrizione. L'ipertrofia, a sua volta, soprattutto grazie all'aumentato rapporto parete-lume, crea un vero e proprio servomeccanismo di tipo positivo, per cui gli stimoli pressori divengono più marcatamente pressori e creano una sempre maggiore ipertrofia, così che, alla fine, le resistenze rimangono aumentate anche se lo stato contrattile della miocellula non è maggiore che nel soggetto normoteso. L'ipertrofia dei vasi senoaortici sarebbe alla base del resetting dei barocettori, e inoltre l'ipertrofia delle arteriole renali e il conseguente aumento delle resistenze vascolari renali impedirebbe al rene di correggere l'ipertensione con un'aumentata natriuresi.
L'insorgere dell'ipertrofia della media è molto precoce nel corso dell'ipertensione e, se l'ipertensione è di breve durata, l'ipertrofia è facilmente reversibile col ritorno alla norma della pressione. Ciò si osserva nei ratti con ipertensione renovascolare quando questa è abolita con la rimozione della stenosi, e nei ratti con ipertensione spontanea se s'incomincia a somministrare loro dei farmaci ipotensivi sin dalle prime settimane di vita (fase ‛pre-ipertensiva'); la regressione è solo parziale, invece, se il trattamento è iniziato più tardi quando l'ipertensione è pienamente sviluppata. I dati che riguardano l'uomo sono più scarsi, ma sembra che, dopo anni di trattamento, anche nell'iperteso essenziale ci sia una certa regressione dell'ipertrofia vascolare. Ma, ovviamente, il caso dell'uomo ricorda abbastanza da presso quello del ratto in cui il trattamento è iniziato a ipertensione palese, quando cioè le lesioni ipertrofiche non sono più pienamente reversibili: quest'interpretazione sottolinea quanto grande potrebbe essere il beneficio di un trattamento incominciato precocemente al primo elevarsi dei valori pressori.
2. Lesioni vascolari nell'ipertensione. - L'ipertrofia della media è la prima, ma non la sola reazione vascolare prodotta dall'ipertensione. Ci sono altre reazioni che, se non hanno altrettanta importanza patogenetica, hanno un'importanza clinica particolare, perché sono la causa delle complicazioni cliniche che fanno dell'ipertensione la malattia ipertensiva (v. Rorive e van Cauwenberge, 1976). Con Pickering (v., 19682), che ha esposto il problema con grande lucidità, prenderemo in considerazione quattro tipi diversi di lesione vascolare, particolarmente frequenti nell'iperteso: 1) l'arteriosclerosi nodulare (o aterosclerosi); 2) gli aneurismi miliari di Charcot e Bouchard; 3) l'arteriolosclerosi; 4) la necrosi fibrinoide. L'arteriolosclerosi, presente in tutti i visceri ma particolarmente nel rene e che è la causa del lento declino della funzione renale degli ipertesi, è la forma in cui possiamo vedere più direttamente il legame tra l'iniziale ipertrofia muscolare e lo sviluppo successivo della lesione: per l'ipertrofia della media numerose miocellule migrano nell'intima, si allargano gli spazi intercellulari, si deposita del collagene e si forma una placca fibrosa intimale che riduce marcatamente il lume del vaso. Le lesioni arteriosclerotiche nodulari delle grandi arterie solo in parte sono simili a quelle delle piccole arterie e arteriole: probabilmente al fattore di proliferazione connettivale scatenato dall'ipertrofia muscolare si aggiungono altri fattori metabolici, ematologici e locali che portano alla formazione della placca ateromatosa. La necrosi fibrinoide tipica dell'ipertensione maligna rappresenta una versione accelerata ed esagerata delle lesioni arteriolosclerotiche dell'ipertensione benigna: la proliferazione delle miocellule è intensissima e si formano strati concentrici intimali, un mucopolisaccaride si deposita nella matrice interstiziale dell'intima, e infine la parete vasale viene quasi interamente obliterata dall'accumulo di un materiale denso che deriva probabilmente dalla necrosi delle miocellule. Gli aneurismi di Charcot e Bouchard, responsabili della maggior parte delle emorragie cerebrali degli ipertesi, rappresentano la lesione che più difficilmente si può mettere in relazione con l'iniziale ipertrofia della media, perché anzi la loro parete è puramente connettivale; ma questa loro peculiarità forse si spiega col fatto che essi compaiono nelle arterie cerebrali che, tra tutte le arterie, sono quelle in cui la parete muscolare è meno sviluppata.
Non è del tutto chiaro con quale meccanismo l'ipertensione produca, o collabori a produrre, tutte queste lesioni: il fattore meccanico, o emodinamico, che porta all'ipertrofia muscolare e a un danno dell'intima è senz'altro il meccanismo più probabile, ma è possibile che partecipi anche un aumento della permeabilità dell'intima, dovuto all'aumento della pressione di filtrazione, alla separazione delle cellule endoteliali e a un allargamento delle finestre della lamina elastica interna. Infine non si può ignorare l'ipotesi ricorrente che, soprattutto nello scatenare le lesioni dell'ipertensione maligna, intervengano oltre a fattori meccanici anche fattori umorali, tra i quali sono stati sospettati sia fattori della coagulazione sia la renina e i suoi prodotti (v. Brunner e altri, 1973): si tratta di possibilità interessanti, che non si possono escludere a priori, ma che devono essere ancora dimostrate.
Sta il fatto, comunque, che il rapporto tra ipertensione e ciascuno dei vari tipi di lesione vascolare non è identico: il rapporto tra ipertensione e necrosi fibrinoide è strettissimo, quello con gli aneurismi miliari cerebrali è molto stretto, abbastanza stretto è quello con l'arteriolosclerosi, mentre molto più lasso è il rapporto con l'arteriosclerosi nodulare dei grandi vasi, che - come abbiamo detto - è una lesione da cause multiple, delle quali l'ipertensione è una soltanto. Questa distinzione spiega bene anche i risultati, più o meno favorevoli, ottenuti col trattamento antipertensivo: l'ipertensione maligna è quasi scomparsa, il numero dei casi d'emorragia cerebrale e insufficienza renale secondari all'ipertensione è drammaticamente diminuito, ma scarso vantaggio è stato riscontrato finora nella prevenzione della malattia arteriosclerotica, specie coronarica (v. Freis, 1972).
d) La patogenesi dell'ipertensione: un'ipotesi di sintesi
Circa cinquant'anni di studi sull'ipertensione hanno prodotto dati e ipotesi che possono apparire contraddittori, ma non sembra impossibile ricavare da essi un quadro abbastanza coerente della patogenesi dell'ipertensione. Un primo sforzo di coordinazione, quello fatto da I. H. Page (v., 1949), portò alla formulazione della teoria del mosaico (v. sopra, cap. 3, È b) che, pur nella sua indeterminatezza, ebbe il merito di sottolineare il concetto che un'alterazione di ciascuno dei vari fattori che regolano la circolazione può essere considerata il primum movens dell'ipertensione, e la causa, a sua volta, di alterazioni degli altri meccanismi che partecipano alla regolazione cardiovascolare. Se oggi il mosaico di Page (v. fig. 25) ci sembra, più che un mosaico, l'immagine un po' confusa di un caleidoscopio (quello strumento che, scosso, può fornire un gran numero di figure diverse), ciò nondimeno è dovuto all'innegabile progresso delle nostre conoscenze sulla regolazione della circolazione, progresso che, in buona misura, è stato stimolato dall'ipotesi e dall'opera di Page (v. Zanchetti e altri, 1975). Se da un lato il mosaico di Page può essere oggi rappresentato in modo molto più complesso, ma anche molto più preciso, come ha potuto fare Guyton disegnando il suo circuito integrato per il controllo della pressione arteriosa, possiamo però semplificare il quadro delle nostre ipotesi, riconoscendo che solo due sono, in sostanza, i meccanismi capaci di dar origine a un'ipertensione: il meccanismo renale e il meccanismo nervoso adrenergico. Esistono ipertensioni secondarie che chiaramente sono dovute a una diminuita escrezione renale di liquidi: l'ipertensione da glomerulonefrite cronica (correggibile con la dialisi) e quella da mineralcorticoidi (correggibile bloccando l'azione sodioritentiva di questi ormoni). D'altra parte, il feocromocitoma (forma con ipertensione stabile) è la caricatura di un'ipertensione da iperattività adrenergica, in cui gli elevati valori pressori sono mantenuti malgrado la riduzione, spesso drammatica, del volume plasmatico.
Quale di questi modelli può essere applicato a interpretare l'ipertensione essenziale? Dobbiamo confessare che l'ipotesi di Guyton di un costante disturbo iniziale dell'escrezione renale non ci convince pienamente: ci lascia ancora incerti il meccanismo - mai chiaramente dimostrato - della lenta autoregolazione circolatoria generale, grazie al quale l'aumentato volume dovrebbe condurre a un'aumentata costrizione arteriolare; e inoltre non ci sembra si possa trascurare la dimostrazione che, anche nell'ipertensione da mineralcorticoidi, cioè in un'ipertensione da volume, i meccanismi adrenergici sarebbero indispensabili a sostenere l'ipertensione.
Noi preferiamo formulare e seguire un'ipotesi che pur senza dimenticare l'importanza del rene - come ha giustamente ammonito Guyton - mette in primo piano la responsabilità del sistema adrenergico. Se si ammette che negl'ipertesi essenziali, o in buona parte di essi, le condizioni genetiche e. ambientali siano tali da produrre inizialmente un'aumentata attività adrenergica, o un'aumentata reattività cardiovascolare agli stimoli adrenergici, si comprenderanno molte delle alterazioni osservate nell'ipertensione borderline, presa come esempio di ipertensione incipiente. Non occorrerà né supporre una ritenzione renale di liquidi per spiegare l'aumento iniziale della gettata cardiaca, né ipotizzare l'autoregolazione vascolare generale per spiegare l'aumentato tono vascolare: l'uno e l'altro possono ben essere la risposta agli stimoli adrenergici. Il ruolo del rene non sarà quello di produrre l'ipertensione trattenendo liquidi al di là del valore presente a pressione normale; ma quello di non impedirla con la perdita di una certa quantità di liquidi, come imporrebbe l'aumento della pressione di perfusione renale. È facile attribuire questa mancata azione compensatoria del rene all'attività adrenergica diretta al rene, vuoi per la vasocostrizione arteriolare, vuoi per la secrezione di renina, vuoi per un'azione diretta sui meccanismi tubulari di riassorbimento. Un'ipertensione da aumentato tono simpatico non si potrebbe però mantenere, perché l'ipertensione stessa inibirebbe il tono simpatico per mezzo dei riflessi barocettivi, se non intervenisse precocemente un riaggiustamento dei barocettori, quel resetting che è stato appunto osservato sia nell'ipertensione dell'uomo sia nelle ipertensioni sperimentali, e che va considerato un passaggio indispensabile nello sviluppo dell'ipertensione secondo la nostra ipotesi. Il fenomeno successivo sarebbe quello del graduale sviluppo dell'ipertrofia arteriolare così ben illustrato da Folkow: grazie a questa ipertrofia, la vasocostrizione, e quindi l'ipertensione, diverrebbero in tutto o in parte indipendenti dall'attività adrenergica. La comparsa infine di un danno vascolare sovrapposto alla semplice ipertrofia potrebbe aggiungere altri meccanismi, anche renali (sia secrezione di renina, sia ritenzione di liquidi), ai fattori iniziali.
Bisogna certo riconoscere che quest'ipotesi potrebbe spiegare solo una parte, più o meno cospicua, dei casi d'ipertensione essenziale. Come tra i ratti con ipertensione genetica, ai ceppi giapponese e della Nuova Zelanda - nei quali l'ipertensione pare legata a meccanismi adrenergici - si contrappongono i ceppi di Dahl e di Bianchi - nei quali il disturbo iniziale sembra che sia renale -, così potrebbe darsi che, anche tra gli ipertesi essenziali, ci siano quelli in cui i fattori genetici predispongono all'iperreattività adrenergica, e quelli in cui i fattori genetici riducono la capacità di escrezione renale del sodio. Questa seconda categoria d'ipertesi essenziali potrebbe essere rappresentata dai pazienti con bassa renina: i bassi livelli di renina indicherebbero o un'espansione dei liquidi corporei o una riduzione del tono simpatico. Tuttavia, l'osservazione che i bassi valori di renina sono frequenti soprattutto tra gli ipertesi più anziani, o tra quelli con una ipertensione di più lunga data, fa piuttosto supporre che gli ipertesi a bassa renina, anziché essere una categoria di pazienti patogeneticamente diversa, rappresentino uno stadio più avanzato, anche se non maligno, nel corso dell'ipertensione essenziale.
6. Il problema dell'ipertensione: retrospettiva e prospettive
Se guardiamo indietro a quanto il nostro secolo ha appreso e ha fatto nel campo dell'ipertensione arteriosa, possiamo riconoscere due grandi linee d'indiscusso progresso. L'una è quella di una comprensione sempre più approfondita dei meccanismi che portano all'aumento dei valori pressori e allo sviluppo della malattia ipertensiva. L'altra, che è degli ultimi venti o venticinque anni e che nasce dal progresso delle conoscenze fisiopatologiche, è quella della sintesi e della diffusione di efficaci mezzi per ridurre la pressione arteriosa e prevenire e combattere il danno vascolare causato dall'ipertensione.
L'entità del progresso delle nostre conoscenze si può misurare considerando il significato del termine ‛ipertensione essenziale', al suo apparire agli albori del secolo e oggi. Abbiamo già sottolineato come, verso il 1911, la comparsa nella nosografia del termine ‛ipertensione essenziale' concludesse alcuni decenni di riflessioni e di discussioni che avevano portato alla felice intuizione che la pressione arteriosa alta non fosse sempre il segno di una malattia localizzata in qualche organo, per lo più il rene secondo le osservazioni di Bright, ma qualche cosa di primitivo, da cui dipendevano, secondariamente, le lesioni osservate negli organi. Concezione acutamente precorritrice del pensiero attuale, ma, nello stesso tempo, ritorno a una concezione più antica - prescientifica - della medicina. Il termine stesso ‛essenziale' si richiama alle teorie ontologiche della medicina; e la polemica sulle ‛febbri essenziali', che divampò in Francia in quegli anni del primo Ottocento che videro, secondo la bella definizione di Foucault (v., 1963), la ‟naissance de la clinique", è come un'epitome delle resistenze che queste antiche teorie opponevano all'avanzare dell'indirizzo organico. L'argomento di Pinel e dei suoi seguaci contro gli sforzi degli organicisti: la ‛sede' non è che l'inserimento spaziale della malattia, la sua ‛essenza' e un'altra, potrebbe ricordare gli argomenti di Mahomed, di Huchard e di Forlanini contro l'opera di Bright, se nel nostro secolo non fosse stato vigile lo sforzo di ridurre questo ‛altro' in termini evidenziabili con le scienze sperimentali. Se oggi ancora parliamo utilmente di ipertensione ‛essenziale', ciascuno di noi, pur nella discordia delle ipotesi e delle opinioni, usa questo aggettivo riferendosi a precisi circuiti nervosi, a noti trasmettitori sinaptici, a ben definite funzioni renali e reazioni vascolari, a meccanismi genetici dimostrati; e progetta studi sperimentali e clinici che possano rendere certi schemi sempre più precisi e sicuri. Ed è proprio per questo sforzo centenario di dar concretezza scientifica all'aggettivo ‛essenziale' che dalla ricerca sull'ipertensione sono anche scaturite scoperte, come quella del sistema renina-angiotensina-aldosterone, che hanno una rilevanza fisiologica generale che oltrepassa di molto la loro importanza per la comprensione dell'ipertensione.
Anche l'altra linea di progresso, quella della terapia ipotensiva, ha dovuto aprirsi faticosamente un varco attraverso pregiudizi radicati in concezioni superate. Come la febbre, altra affezione lungamente definita ‛essenziale', era considerata nel XVIII secolo un segno non della malattia ma della resistenza alla malattia, ‟un'affezione della vita che si sforza di allontanare la morte" (v. Dagoumer, 1831), così l'ipertensione era considerata, sino a non molti anni fa una benefica alterazione che tendeva a riportare alla norma il flusso renale primitivamente ridotto. La moderna terapia dell'ipertensione dovette quindi aspettare la dimostrazione sperimentale che il danno vascolare, quello renale compreso, era invece la conseguenza dell'ipertensione.
Abbiamo già parlato ripetutamente dei grandi vantaggi conseguiti in poco più di vent'anni grazie alla somministrazione dei farmaci ipotensivi. Occorre qui ricordare soltanto che noi facciamo ricorso a mezzi terapeutici puramente sintomatici. Non è senza significato che i farmaci ipotensivi presenti nel nostro armamentario agiscano sui tre meccanismi fondamentali che causano o sostengono l'ipertensione: il sistema nervoso adrenergico, la funzione escretrice renale, la miocellula Vascolare. Noi tuttora usiamo i diversi farmaci nei diversi ipertesi sulla base di un approccio empirico: ottenere la desiderata riduzione della pressione arteriosa col minor numero di effetti secondari indesiderabili. Tentativi, anche recenti, di guidare la scelta del farmaco più opportuno in ogni singolo caso in base a criteri fisiopatologici sono per il momento falliti; ma non è imprevedibile che un ulteriore progredire delle nostre conoscenze fisiopatologiche renda presto questo indirizzo più vantaggioso.
L'ultima domanda è se una più approfondita comprensione delle cause, oltre che dei meccanismi, dell'ipertensione essenziale possa portare anche alla prevenzione dell'ipertensione stessa. Freis (v., 1976), che ha sposato la causa dell'origine dell'ipertensione essenziale da un disturbo dell'escrezione renale, ha di recente predicato di abbandonare l'uso del sale nei cibi, allettandoci con l'immagine del buon selvaggio che non usa sale ed è immune dall'ipertensione. Qualsiasi sia l'origine dell'ipertensione essenziale, sia essa nel concomitare di fattori genetici con le tensioni della vita sociale, sia essa invece in una limitazione genetica della funzione renale rivelata da una dieta inappropriata, i fattori ambientali responsabili sono troppo profondamente radicati nella civiltà delle popolazioni acculturate, tutte colpite dall'ipertensione, perché possiamo pensare di sbarazzarcene impunemente. Se l'uomo del 2000 rinnegherà quella maniera di vita, quella cultura con la quale sono cresciuti attraverso i secoli i suoi antenati, e che è anche la cultura del Novecento, lo farà per miti più seducenti della prevenzione dell'ipertensione. È forse più utile, anche se più umile, attendere nei prossimi anni a tradurre in una pratica più vasta ed efficace quanto già abbiamo appreso, ma abbiamo finora applicato su scala inadeguata: insegnare che la profilassi di molte malattie cardiovascolari passa soprattutto attraverso la lotta contro l'ipertensione; riconoscere precocemente gli ipertesi e abbassarne la pressione con farmaci sempre più appropriati e innocui. Proprio nel campo delle malattie cardiovascolari, grazie alla lotta contro l'ipertensione arteriosa, la medicina sociale e preventiva può essere, nei prossimi anni, anziché ideologia fumosa e vuoto nominalismo, opera concreta, scientificamente fondata.
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