ipocriti
. A immaginare che la pena degl'i. consista nel percorrere in tondo la sesta bolgia dell'ottavo cerchio indossando pesanti cappe di piombo lucenti d'oro all'esterno, D. fu probabilmente indotto da una falsa etimologia della parola ‛ ipocrita '.
Come si legge nelle Magnae derivationes di Uguccione da Pisa, infatti, " dicitur ypocrita ab yper, quod est super, et crisis, quod est aurum, quasi superauratus, quia in superficie et extrinsecus videtur esse bonus, cum interius sit malus; vel dicitur sic quasi ypocrita ab ypo, quod est sub, et crisis, quod est aurum, quasi habens aliquid sub auro ". Maggiore autorità delle etimologie medievali ebbero però per D. i testi sacri. Se infatti nel Vecchio Testamento hypocrita ha il significato generico di uomo ingiusto ed empio, nel Vangelo di Matteo la parola ritorna sempre riferita ai simulatori di pietà, che ostentano l'atto dell'elemosina (6, 2), pregano per essere visti dagli altri (6, 5), quando digiunano vogliono che il sacrificio traspaia dai loro volti (6, 16), e i. sono specificamente definiti i farisei (23, 14).
Nel Vangelo aveva trovato fondamento la ricorrente polemica anticlericale del Medioevo, che rinfacciava ai religiosi come loro vizio tipico l'ipocrisia, e D. con l'invenzione delle cappe di piombo dorate all'esterno venne a dare una figurazione poetica originale a un motivo consacrato da lunga tradizione. I peccatori che il poeta incontra nella sesta bolgia appartengono tutti alla casta sacerdotale, sia i due frati gaudenti Loderingo degli Andalò e Catalano de' Malavolti, sia Caifas, che, forte della sua autorità, fingendosi zelante dell'interesse collettivo, aveva designato Cristo alla condanna, perché conveniva che un uomo morisse per la salvezza del popolo intero. Da Catalano poi egli viene a sapere che a una pena simile a quella di Caifas sono sottoposti il sommo sacerdote Anna e quanti avevano partecipato al sinedrio da cui era uscito il consiglio di sacrificare Gesù. A significare il loro peccato e la loro condizione di religiosi grava su questi personaggi una pesante atmosfera conventuale che ha un suo svolgimento in tutto il canto.
L'esordio lento, tanto più singolare dopo le scene movimentate della bolgia dei barattieri, crea, in forza del ritmo, il senso di un'atmosfera oppressiva prima ancora che la sesta bolgia sia descritta, sicché, dopo la fuga di D. e Virgilio dinanzi al minaccioso ritorno dei Malebranche, il nuovo rallentarsi del ritmo all'apparire degli i. non ha nulla d'inatteso. È da questo punto tuttavia che tutte le note psicologiche e descrittive, a cominciare dalle cappe pesanti e dalla lenta processione dei dannati, si fondono in una rappresentazione di calcolatissima e misurata coerenza. I cappucci abbassati, che potrebbero significare un raccoglimento devoto, in realtà nascondono la parte del viso in cui - come si legge in Cv III VIII 8-9 - chi bene la mira sa conoscere la passione dell'animo. L'occhio bieco, col quale i due frati bolognesi guardano D. e la sua guida, è tale sì per il cappuccio che li ingombra, ma sta anche a significare l'abitudine di dissimulare il pensiero. Lo stesso confabulare di Catalano e Loderingo prima di rivolgersi a D. è segno di una prudenza che si è mutata quasi in abito professionale, come poi il modo nel quale Catalano allude alla distruzione delle case degli Uberti è tale da sonare ben chiaro a un fiorentino, ma per chi non abbia conoscenza precisa delle cose di Firenze, rimane prudentemente coperto da un linguaggio cifrato. La stessa replica di D. a Catalano, restando interrotta per l'improvvisa curiosità suscitata dalla vista di Caifas, sembra quasi che si spenga soffocata dalla greve atmosfera della bolgia, non casualmente definita collegio / de l'ipocriti tristi (XXIII 91-92), valendo per D. collegio quale sinonimo di convento. Ancora sulla fine del canto la caratterizzazione psicologica degl'i. trova conferma nelle parole con le quali il frate bolognese enuncia una verità banale sulla natura dei diavoli: non v'è dubbio infatti che il tono falsamente saputo e la canzonatura che esso comporta rispecchiano un'ambiguità fratesca.
Bibl. - E. Masi, I. e frati godenti nell'Inferno di D., in Nuovi studi e ritratti, Bologna 1898; I. Della Giovanna, Il canto XXIII dell'Inferno, Firenze 1911; G. Bertoni, Il canto degli i., in " Archivum Romanicum " XI (1927) 1-13 (poi in Cinque letture dantesche, Modena 1933, 39-66; e in Lett. dant. 429-445); E. Bonora, Gli i. di Malebolge, in Gli i. di Malebolge e altri saggi di letteratura italiana e francese, Milano-Napoli 1953, 3-29.