IPOSTASI (gr. ὑπόστασις, da ὑπό "sotto" e ἵστημι "sto")
Dal punto di vista etimologico, questo termine coincide pienamente con substantia, che la tarda latinità coniò per esprimere il concetto della realtà esistente, e indipendente nella sua esistenza individuata. E infatti, se il termine substantia traduceva nell'uso quello greco di οὐσία - al quale propriamente corrispondeva invece quello molto meno usato di essentia - esso esprimeva poi esattamente l'aspetto onde quella "essenza" si presentava come "soggiacente" (ὑποχείμενον, o subiectum) e cioè come sostrato per sé sussistente e sorreggente gli attributi, i quali invece non avrebbero potuto esistere senza quel sostegno. Con lo stesso significato (ma con la particolare intonazione onde la realtà "sottostante" appariva, rispetto alle sue soprastrutture, più profonda, vera e insieme arcana), "ipostasi" entrò invece nell'uso più tardi, specialmente col neoplatonismo, che designò con esso le supreme nature dell'Uno, dell'intelletto e dell'anima, e con la teologia patristica, che se ne valse nell'elaborare la definizione del dogma trinitario. E fu precisamente nel corso delle controversie trinitarie e cristologiche che si palesò il bisogno di distinguere il termine d'ipostasi da quelli, considerati tra loro equivalenti, di sostanza ed essenza. Si definirono infatti le tre Persone divine come consustanziali, cioè della medesima essenza (ὁμοούσιος), distinguendo ciascuna di esse come ipostasi, e parlando di "unione ipostatica" della natura divina e umana in Gesù Cristo (v. arianesimo; gesù cristo, XVI, pp. 868 segg. e 872 segg.; trinità). Da questo uso derivò il carattere di maggior solennità oggettiva che contraddistingue ipostasi a paragone di sostanza; e, di conseguenza, la maggior forza che, di fronte al termine "sostanzializzare", assunse il termine "ipostatizzare" per designare il processo per cui, lecitamente o no, s'innalzano al grado dell'oggettiva esistenza enti concettuali o ideali, che vi possono essere elevati solo per astrazione.
In un senso derivato da quello teologico di "persona", il termine ipostasi è usato anche nella mitografia e nella scienza delle religioni per indicare la "personificazione" di concetti astratti pertinenti al mondo soprannormale e concepiti come altrettante personalità definite. Tuttavia conviene distinguere la semplice personificazione di fenomeni della vita e della natura (o anche, col progresso del pensiero e della cultura, di qualità o proprietà astratte) dalle ipostasi divine vere e proprie. Nel primo caso - di cui ci porgono esempî i Romani con le divinità degli Indigitamenta, lo zoroastrismo con i sei "santi immortali" (Amesha Spenta; v.) - è possibile scorgere il legame con elementi naturistici o animistici.
Ipostasi vere e proprie si possono ritenere le divinità astratte dei Romani, quali Virtus, Pietas, Pudicitia, ecc., e meglio ancora quelle di certe dottrine gnostiche (v. gnosticismo) o del manicheismo e in genere di tutte quelle concezioni religiose che, per spiegare il passaggio dall'unità della natura divina trascendente alla molteplicità che regna nel mondo contingente, ricorrono a un emanatismo del tipo, appunto, di quelli di cui la gnosi ci porge numerosi esempî. Ipostasi di questo genere sono state considerate da varî studiosi anche le personificazioni della Sapienza - che troviamo in libri dell'Antico Testamento (Proverbî, Ecclesiastico, Sapienza) - e della Parola, Presenza, Gloria, ecc., di Jahvè, nel giudaismo dell'epoca ellenistica. Ma altri studiosi hanno fatto osservare che in realtà la Sapienza personificata ed esaltata nella cosiddetta letteratura sapienziale non è altro, in sostanza, che la stessa Legge; e che gli altri supposti attributi di Dio ipostatizzati non sono se non metonimie, grazie alle quali si evitava di pronunciare il nome sacro di Dio: onde, dato il concetto di Dio personale, l'apparente ipostatizzazione. Comunque, poiché nel giudaismo il concetto di Jahvè è stato sempre quello di un Dio vivente e personale, la cui azione è immediata (in contrasto con la concezione metafisica e impersonale che ha di Dio la filosofia greca), non potrebbe mai trattarsi d'ipostasi o d'intermediarî tra Jahvè e il mondo, nel senso proprio di questi termini.