ipotesi
Dal lat. tardo hypothasis, gr. ὑπόϑεσις, da ὑποτίϑημι «porre sotto»; il termine lat. corrispondente è suppositio, da cui l’it. «supposizione». La filosofia antica considerava una forma inferiore di conoscenza quella enunciata in ipotesi. Concependo la ricerca scientifica come volta all’acquisizione di proposizioni certe e quindi irrivedibili, per i filosofi antichi un’i. non era che un asserto provvisoriamente assunto per dedurre, insieme ad altri asserti gnoseologicamente non problematici (gli assiomi), certe conseguenze. Platone, se da un lato riteneva evidenti le i. delle dimostrazioni matematiche, dall’altro affermava che nelle argomentazioni filosofiche si arriva a conclusioni certe sfruttando premesse, le i., da giustificare, e suggeriva di porre varie i. sullo stesso piano per poi, esaminate le loro conseguenze, scegliere la migliore. Per Aristotele un’i. è la premessa non necessaria e non assolutamente certa di una dimostrazione, opposta alle premesse necessarie, quali gli assiomi e le definizioni. Tale svilimento gnoseologico delle i. doveva perdurare nella filosofia scolastica, che tendeva a considerarle come asserti sulle cause dei fenomeni, un’idea fatta propria in seguito da Locke e da Leibniz, e – quando l’i. finiva per assumere un carat- tere altamente congetturale e sganciato da ogni esperienza possibile – avversata da Newton nel suo celebre motto hypotheses non fingo. Quest’ultimo, infatti, concepiva un’i. nel senso codificato da Galileo, ossia come un asserto la cui validità è in stretta dipendenza dai fenomeni osservabili. È questo il senso avallato dai filosofi della scienza del Novecento, i quali – ormai da tempo abbandonata la credenza che si possa arrivare a un sistema certo e necessario di teorie e abbracciata una prospettiva fondamentalmente fallibilista – hanno sostenuto la natura intrinsecamente ipotetica di ogni teoria, evidenziando per ciò stesso il ruolo fondamentale delle i. ai fini del progresso della conoscenza.