CAPILUPI, Ippolito
Nacque a Mantova l'8 luglio del 1511, ottavo figlio di Benedetto e di Taddea de' Grotti, in una famiglia tra le più autorevoli della città, la cui antica dimestichezza con i signori di Mantova era stata recentemente confermata e rafforzata dall'opera prestata alla corte da Benedetto, diplomatico e segretario del marchese Francesco II Gonzaga.
Paggio, dapprima, della marchesa Isabella d'Este, il C. venne da questa prescelto quale compagno di studi del coetaneo Ercole Gonzaga, condividendone l'educazione umanistica e l'insegnamento di Pietro Pomponazzi. Rivoltosi il Gonzaga alla carriera ecclesiastica e creato cardinale poco più che ventenne, il C. ne seguì modestamente l'esempio, ottenendo un canonicato nella cattedrale di Mantova, l'arcipresbiterato di Rivalta ed altri benefici minori. Sempre al seguito del cardinale, il C. fu a Bologna nel 1530, per presenziare in rappresentanza della corte mantovana alla incoronazione imperiale di Carlo V. Quattro anni dopo partecipava in qualità di segretario del suo padrone al conclave seguito alla morte di Clemente VII, in cui fu eletto Paolo III Farnese.
A questo soggiorno romano risale una relazione del C. con una Francesca Stinchi, dalla quale ebbe due figli, Giulio - in seguito legittimato perché potesse accedere alla carriera ecclesiastica - e Ippolita, sposata poi ad un Ortensio Querco.Nel 1540, alla morte del duca di Mantova Federico II, assunta dal cardinale Ercole la reggenza del ducato in nome del nipote Francesco III, anche il C. partecipò, quale responsabile della corrispondenza politica del reggente, ai nuovi compiti di governo del suo protettore: un'esperienza, questa, nella quale il C. venne prendendo dimestichezza, durante un triennio, con i problemi dell'amministrazione del ducato e della drastica riforma di essa intrapresa dalla reggenza per ovviare alle gravi deficienze che l'improvvido governo di Federico II lasciava al successore.
Ma soprattutto il C. cominciò a riconoscere l'intrigo dei rapporti diplomatici che legavano Mantova alle maggiori potenze europee in quella pericolosa vigilia che si sarebbe conclusa col coinvolgere gravemente il ducato e la sua dipendenza dal Monferrato nella contesa tra la Francia e Carlo V. E al principio del 1544 il cardinale Ercole sanciva l'acquisita competenza diplomatica del suo protetto nominandolo agente mantovano presso il pontefice, affidandogli, cioè, una delle quattro sedi alle quali la reggenza, secondo le indicazioni di Ferrante Gonzaga, aveva deciso di limitare la presenza stabile di rappresentanti ducali (le altre erano Venezia, la corte francese e quella itinerante dell'imperatore).
A Roma il C. trovò il terreno più congeniale alle sue doti di prelato amante del fasto, estimatore per tradizione familiare, per educazione e per consuetudine cortigiana, delle arti e delle lettere (delle quali ultime egli stesso si professava assiduo cultore), non ignaro dei piaceri galanti, con un accentuato gusto dell'intrigo politico: qualità tutte di cui testimonia il suo abbondante carteggio - tra le fonti romane più importanti e più consultate del periodo - con il cardinale Ercole, con la marchesa Isabella, con la duchessa Margherita e con Ferrante Gonzaga, del quale ultimo fu l'accorto informatore anche per le questioni interessanti la politica imperiale, quando Ferrante ne divenne, dopo la nomina a governatore di Milano, uno dei principali protagonisti.
La vita artistica romana (il C. vantava cordiali relazioni, tra i tanti letterati ed artisti che affollavano la corte pontificia, anche con Paolo Giovio, con Annibal Caro, con Giovanni Della Casa e con Michelangelo Buonarroti), gli avvenimenti mondani della corte, i pettegolezzi curiali, le smanie nepotistiche di Paolo III e quelle più contenute di Giulio III sono largamente oggetto della corrispondenza capilupiana da Roma. Ma il carteggio del C. ha interesse soprattutto per le notizie ed i commenti sulla situazione politica romana ed internazionale, viste attraverso l'occhio sagace di un osservatore puntuale e smaliziato, introdotto presso gli ambienti curiali non meno che presso i circoli diplomatici, protagonista egli stesso in nome del duca di Mantova, e più spesso poi in quello di Ferrante Gonzaga, di sondaggi e trattative di notevole rilievo.
Durante il pontificato di Paolo III il ruolo del C. alla corte era naturalmente marginale, per i freddi rapporti intercorrenti tra Mantova ed i Farnese: non per questo, tuttavia, perdeva di importanza il suo carteggio, specchio fedele e penetrante delle difficoltà del pontificato sia negli ambigui rapporti con il re di Francia e con l'Impero, sia nei rapporti con i luterani, sia, infine, negli ambiziosi programmi di ingrandimenti familiari del pontefice.
Del maggiore interesse sono i dispacci del 1547, successivi alla congiura che su ispirazione di Ferrante Gonzaga e del cardinale Ercole aveva portato alla uccisione di Pierluigi Farnese e quindi all'annessione di Piacenza allo Stato di Milano. Il C. segue con attenzione le reazioni del vecchio pontefice, la scoperta ripresa della sua politica filofrancese, l'impotente risorgere delle pretese alla "liberazione d'Italia". Così pure segue le vicissitudini del concilio riunito a Bologna, le pressioni dell'imperatore, rappresentato a Roma da Diego de Mendoza e dal cardinale di Trento Cristoforo Madruzzo, per un ritorno del concilio alla sua sede originaria, in modo da consentire la partecipazione dei delegati luterani, secondo gli accordi della Dieta imperiale di Augusta.
Più soddisfacenti per i Gonzaga e per il loro agente romano i rapporti con Giulio III. Al conclave successivo alla morte di Paolo III il C. partecipò ancora come segretario di Ercole Gonzaga, orientato sin dal principio a favorire l'elezione del cardinale Ciocchi del Monte. Lo zelo spiegato dal C. al servizio di questo disegno non fu poi certamente estraneo alla benevolenza dimostratagli da Giulio III. Ancora una volta fu impegno principale del C. seguire l'evoluzione della politica pontificia nei riguardi dei Farnese. L'atteggiamento del pontefice contro il duca di Parma, che venendo meno alle ingiunzioni della Curia per una più cauta politica rompeva la fedeltà impostagli dal vassallaggio alla Chiesa, trovò nel C., sempre opportunamente istruito da Ferrante Gonzaga ed in costante intesa con l'ambasciatore imperiale Diego de Mendoza, un esortatore assiduo ed infine largamente ascoltato, riuscendo nel disegno, promosso e dall'imperatore e dal governatore di Milano, di legare l'azione del pontefice contro il feudatario ribelle alla politica imperiale.
Così da una parte la minaccia incombente di una iniziativa imperiale su Parma analoga a quella dell'annessione di Piacenza, dall'altra la convinzione del buon diritto della Chiesa e quella - accortamente coltivata dal C. e dal Mendoza - di un sostegno totale dell'imperatore ad una eventuale iniziativa militare contro il Farnese indussero il papa alla rottura, sebbene personalmente egli sperasse sino alla fine in un accomodamento e temesse l'ostilità della Francia. Nonostante gli impegni e gli effettivi buoni propositi degli Imperiali, tuttavia, mancarono sin dal principio al papa i soccorsi in uomini ed in denari tanto vantati dal C. e dal Mendoza, costretti come subito furono l'imperatore e Ferrante Gonzaga a fronteggiare la minaccia dei protestanti di Germania e quella dei Francesi dal Piemonte. E la strenua resistenza di Parma e della Mirandola all'assedio posto dai Pontifici dimostrò ben presto a Giulio III l'eccessivo ottimismo dei suoi consiglieri.
Sin dal 20 ag. 1551 il C. era pertanto costretto ad informare Ferrante Gonzaga dello stato di malcontento e di depressione del pontefice e lo consigliava di mandare "uno a far un po' di complimenti al Papa perché era necessario" (Chiesi, p. 225).
Ma la buona volontà del papa non poteva durare di fronte al corso sempre più sfavorevole della guerra, all'estenuarsi delle risorse finanziarie, al malcontento crescente in Curia e tra la popolazione romana, alla preoccupazione che il perdurare della guerra potesse nuocere allo svolgimento del concilio e addirittura al timore di uno scisma religioso provocato per rappresaglia dalla Francia; e infine si aggiungevano, come certificava ancora il C. al governatore di Milano, le esortazioni che il papa riceveva dal suo confessore per la stipulazione immediata della pace. Così, nonostante gli sforzi della diplomazia imperiale e gonzaghesca, Giulio III si indusse all'armistizio del 29 apr. 1552.
L'imprevista, ingloriosa soluzione della guerra di Parma creava rapporti estremamente ambigui tra il papa e l'imperatore, e lo stesso C. era costretto a prodigarsi presso il pontefice per calmarne i timori di eventuali rappresaglie degli Spagnoli, giunti al parossismo quando il partito filofrancese fece correre a Roma, nell'agosto del 1552, la voce di un progetto imperiale di mettere nuovamente a sacco la città.
Le ripercussioni romane della crisi senese trovano ancora una volta nel carteggio del C. i resoconti più informati ed intelligenti: traspare da esso l'incertezza dell'azione diplomatica degli Spagnoli presso il pontefice, per la mancanza a Roma di un rappresentante imperiale capace di uniformare i contraddittori atteggiamenti dei cardinali del partito imperiale; i timori del papa per una nuova guerra pericolosamente vicina ai confini dello Stato pontificio, minacciato anche dal passaggio, che non poté essere impedito nonostante le intenzioni di neutralità, dell'esercito inviato in Toscana dal viceré don Pedro de Toledo; l'azione mediatrice di Giulio III, che si concretò nell'invio dei due legati apostolici Girolamo Dandino e Girolamo Capodiferro rispettivamente alla corte imperiale ed a quella di Enrico II e gli ulteriori, vani tentativi perseguiti dal pontefice per arrivare alla pace.
Per quanto difficili fossero diventati i rapporti di Giulio III con il partito imperiale, il C. nulla aveva perduto della sua influenza sul pontefice. La stima di Giulio III per l'agente mantovano è confermata dalla decisione del papa di affidargli il compito di assistere, quale segretario e consigliere politico, il giovanissimo cardinale Innocenzo Del Monte, al quale la benevolenza eccessiva del pontefice - che non mancava di provocare in Curia turpi supposizioni - aveva improvvisamente affidato, incurante della sua inesperienza e radicale incapacità, la carica di segretario di Stato. Per ottenere il consenso dell'antico padrone Ercole Gonzaga al suo passaggio alla nuova carica, il C. si recò al principio del 1555 a Mantova, dove nel marzo lo raggiunse la notizia della morte del pontefice, con la quale naturalmente il progetto veniva a cadere.
Fatto ritorno a Roma insieme con il cardinale Ercole, il C. assistette nuovamente il Gonzaga nel conclave che portò alla elezione di Marcello Cervini e poi in quello resosi necessario subito dopo per la morte improvvisa di Marcello II. La presaga ostilità dei cardinali imperiali e del Gonzaga alla elezione del Carafa, al quale contrapposero tenacemente sino alla fine il cardinale Iacopo Puteo, doveva influire non soltanto sulle sorti future dei rapporti degli Spagnoli ed i loro fautori con il Pontificato, ma sullo stesso destino personale dell'agente mantovano a Roma.
Sin dal principio del regno di Paolo IV la posizione del C. a Roma si fece infatti difficile, compromessa com'era agli occhi del papa la posizione dei Gonzaga con il partito imperiale. Spinto dalla sua animosità contro gli Orsini ed i Colonna, apertamente incoraggiato dal partito francese che, con il cardinale Alessandro Farnese, era stato l'artefice primo della sua elezione, il vecchio papa napoletano scoprì subito la sua animosità contro gli Imperiali ed i loro fautori: sin dal 1º sett. 1555, infatti, il C. preannunziava come possibile in breve tempo l'arresto dell'ambasciatore di Carlo V, quale rappresaglia alle notizie dei preparativi militari compiuti dal viceré di Napoli in aperta ostilità allo Stato ecclesiastico. Questo atteggiamento del pontefice andò vieppiù aggravandosi per le manovre francofile del nipote, il cardinale Carlo Carafa, e per le voci insorte di un progetto di avvelenamento dello stesso papa e dei suoi più vicini collaboratori da parte degli Imperiali.
Il C., che seguiva attentamente la crisi, non riuscì tuttavia ad avere notizia degli accordi segreti intercorsi tra Paolo IV ed il re di Francia Enrico II e si lasciò nettamente sorprendere dagli avvenimenti, che pure aveva saputo valutare nella loro gravità, non avvertendo che egli stesso, per i suoi rapporti con gli agenti spagnoli, poteva esservi personalmente coinvolto.
Furono in particolare i suoi contatti con il rappresentante spagnolo Garcilaso de la Vega ad attirare sul C. l'ira del pontefice.
Arrestato il 9 luglio 1556 il de la Vega, per essere stati sequestrati i suoi dispacci al viceré di Napoli duca d'Alba, esortanti all'intervento armato contro Roma, il giorno dopo, d'ordine del pontefice, lo stesso C. fu imprigionato in castel S. Angelo, "essendo stato scoperto... - come scriveva il 21 luglio seguente il duca di Ferrara Ercole d'Este ad Ercole Gonzaga che da Mantova gli aveva chiesto informazioni sull'arresto del proprio rappresentante (Intra, p. 25) - che esso era intervenuto alle consulte col detto Garcilasso", nelle quali si era discusso tra vari esponenti spagnoli in Roma un piano d'attacco dell'esercito del duca d'Alba contro lo Stato pontificio. Secondo la stessa fonte il C. "ha confessato esser vero, ma che desuase sempre questa impresa non doversi fare..., benché essendo ecclesiastico dubitasi che la scienza sola li sia contraria nonostante la desuasione predetta" (ibid., p. 26).
Il Gonzaga non mancò di assistere nell'occasione il suo protetto, inviando presso il pontefice il segretario Pier Francesco Arrivabene per chiederne la liberazione. Analoga richiesta fu formulata dal duca di Mantova e da Ercole II d'Este, senza successo tuttavia.
Pare comunque che lo stesso Paolo IV offrisse la libertà al C. in cambio della decifrazione di alcuni messaggi del de la Vega al duca d'Alba, ma il diplomatico mantovano si rifiutò e anzi, poiché nelle lettere dell'agente spagnolo risultavano gravemente compromessi nella congiura Camillo Colonna ed Ascanio Della Cornia, riuscì a mettere tempestivamente sull'avviso i due, che poterono così riparare fuori dei confini dello Stato ecclesiastico.
La liberazione del C. avvenne soltanto nel settembre del 1557, a seguito degli accordi intervenuti tra il papa e Carlo V, coi quali si ricomponeva il lungo dissidio. Nonostante i nuovi rapporti tra il papa e gli Spagnoli il C. preferì allora ritirarsi per qualche tempo in Napoli, presso la vedova di Ferrante Gonzaga. Durante la detenzione, il nipote Camillo Capilupi gli aveva ottenuto da Carlo V, quale risarcimento per il danno patito, una pensione di 400 scudi sui proventi dell'arcivescovato di Cuenca.
Morto Paolo IV nel 1559, il C. riprese il suo posto di conclavista di Ercole Gonzaga nel conclave che si concluse con la elevazione di Gian Angelo de' Medici, Pio IV. Con questo pontefice le fortune del C. ricevettero un nuovo impulso. Egli ebbe infatti una parte di primo piano nelle trattative per i matrimoni della nipote del papa, Camilla Borromeo, con il figlio di Ferrante Gonzaga, il marchese di Guastalla Cesare, e di Federico Borromeo, anch'egli nipote di Pio IV, con Virginia Della Rovere, figlia del duca d'Urbino, Guidubaldo, e di Isabella Gonzaga.
In premio della sua opera di mediatore, favorita naturalmente dai suoi ottimi rapporti con la famiglia Gonzaga, ottenne dal pontefice il vescovato di Fano, attribuitogli il 21 genn. 1560, e, nel maggio dell'anno successivo, il passaggio diretto al servizio della diplomazia pontificia con la nomina a nunzio presso la Repubblica di Venezia.
Principale compito, del C. era di intervenire presso i vescoviveneti per ottenerne la partecipazione alla nuova sessione del concilio, per il quale, sin dal novembre del 1560, il pontefice aveva deciso il ritorno alla sede di Trento. Gli era anche affidato dal cardinale Carlo Borromeo il compito opposto, che peraltro non riuscì a soddisfare, di dissuadere dalla partecipazione al concilio il patriarca di Aquileia Daniele Barbaro, del quale si temevano in Curia gli atteggiamenti indipendenti e si sospettavano inclinazioni dottrinali eterodosse.
Il contributo del C. al concilio si limitò a tali questioni, ed a garantire dal territorio veneto gli approvvigionamenti necessari ai padri conciliari. Infatti, nonostante l'ingiunzione fattagli dal pontefice di mettersi in viaggio "quanto prima" alla volta di Trento per partecipare ai lavori conciliari, secondo quanto riferiva Carlo Borromeo al nunzio in Savoia Francesco Bachaud il 18 sett. 1562 (Nunziature di Savoia, I, p. 99), il C. si recò a Trento soltanto per trattare di persona con il suo antico padrone Ercole Gonzaga, allora cardinale legato al concilio, di questioni probabilmente di carattere privato.
In realtà, alle questioni religiose, e specialmente dommatiche e disciplinari, l'antico diplomatico mantovano non doveva essere troppo interessato, e non pare neppure che abbia riservato particolare fervore alla repressione dell'eresia nel territorio di giurisdizione della nunziatura, come pure il Borromeo non si stancava di raccomandargli, preoccupato dai troppi eretici che si manifestavano nello Stato veneto e dall'atteggiamento non propriamente intransigente in materia religiosa del governo della Repubblica. Il C., in verità, mandava puntualmente notizie in proposito alla Curia, da quella di una accolta di calvinisti scoperta a Padova, a quella di affiliati vicentini alla setta dei fratelli moravi, dai mormorii sull'ambasciatore francese a Venezia, sospettato di proteggere gli ugonotti, alle informazioni sulla fuga dell'agente di Cosimo I de' Medici presso la Repubblica, il Peri, rifugiatosi per motivi di religione a Ginevra; per incarico della Curia fece diffondere anche nelle diocesi di Como e di Bergamo le opere di polemisti avversi a Pier Paolo Vergerio. E tuttavia non si hanno notizie di sue particolari iniziative, e nemmeno di un suo particolare zelo: e questo fu, con ogni probabilità, un forte motivo dell'avversione che gli dimostrò poi il Borromeo, impedendogli l'ascesa al cardinalato e richiamandolo dalla nunziatura di Venezia. Certo è che alcuni anni dopo un suo successore nella nunziatura, G. A. Facchinetti, gli rimproverava di essersi impegnato "sempre assai freddamente" nella "causa del sacrilegio di Zara" (Nunziature di Venezia, VIII, p. 68).
Più volentieri il C. prestava la propria opera quando in essa potessero spiegarsi le sue risorse di esperto diplomatico. È questo il caso dei suoi rapporti con il cardinale di Lorena, il vescovo di Reims Charles de Guise. A quanto riferiva il nunzio al Borromeo, in un dispaccio del 13 apr. 1563, egli era stato incaricato di indurre ad un atteggiamento più favorevole alla Curia l'influente prelato francese dal cardinale legato al concilio Bernardo Navagero, secondo il quale "non si potrebbe fare maggior servigio a Sua Santità, che persuadere al Cardinale di Lorena che egli fosse soggetto facile di riuscir Papa, perché con questa speranza si renderebbe molto amico alle cose di Roma, et ai santi pensieri di Sua Santità" (ibid., p. 43).Il C. seguì l'indicazione e pare che il Guisa si mostrasse tutt'altro che sdegnoso all'ipotesi della suprema investitura ecclesiastica.
L'episodio è significativo di quanto il C. fosse tagliato piuttosto per gli intrighi che non per i suoi obblighi pastorali. E la sua abilità e la sua spregiudicatezza dovettero sembrare eccessive alla corte romana, avessero o meno fondamento le voci di un gravissimo complotto di cui egli sarebbe stato protagonista insieme con il suo antico protettore Ercole Gonzaga, quando questi ricopriva a Trento la prestigiosa dignità di legato pontificio.
Tali voci provenivano dallo stesso concilio, nel clima di confusione e di passionalità determinato dalle nette contrapposizioni del dibattito sulla residenza dei vescovi, e si accompagnavano a quelle altrettanto incredibili che riguardavano l'altro cardinale legato Gerolamo Seripando. Esse si innestavano sulla notizia, del giugno 1562, di una grave malattia del pontefice regnante e sulla previsione quindi di una prossima sede vacante. Il complotto, di cui il nunzio a Venezia sarebbe stato l'animatore, aveva per fine di procedere all'elezione conciliare del nuovo pontefice (secondo il modello dell'elezione di Martino V al concilio di Basilea) nella persona del cardinale Gonzaga, il quale avrebbe potuto contare sull'appoggio di numerosi padri conciliari e su quello determinante della Spagna e dell'Impero, nonché sull'ostilità serpeggiante a Roma contro la famiglia Borromeo.
Che Pio IV abbia prestato fede, sia pure per breve tempo, alla allarmante eventualità, sembra confermato, oltre che da alcune confidenze di un corrispondente del C., il cameriere pontificio Gianfrancesco Pasqualino, anche dalla sollecitudine con cui il papa inviò a Trento, affiancandoli ai vecchi, tre nuovi cardinali legati di provata obbedienza. Comunque l'episodio si chiudeva di lì a poco con la morte del cardinale Gonzaga. Quanto al C., sentì il bisogno di chiedere udienza al pontefice per giustificare se stesso ed il suo vecchio padrone dalla gravissima accusa: ma Pio IV evitò garbatamente di riaprire la discussione sullo sgradevole episodio, che comunque non dovette giovare molto al vescovo di Fano, né presso il pontefice, né presso Carlo Borromeo. Certo è, come si è ricordato, che quest'ultimo si oppose sempre all'elevazione del C. al cardinalato, respingendo le richieste che in proposito gli vennero rivolte da Ercole Gonzaga, dal duca di Mantova Guglielmo Gonzaga tramite Bernardo Tasso, dal doge di Venezia Gerolamo Priuli e dai duchi di Urbino Guidubaldo Della Rovere ed Isabella Gonzaga. E, al principio del 1564, lo richiamava dalla nunziatura, destinandolo, in omaggio all'obbligo della residenza, al suo vescovato di Fano.
Fu questo, per il C., un vero e proprio esilio. Lontano dagli eleganti salotti mantovani, romani e veneziani dove aveva trascorso la vita, dalla frequentazione di artisti e letterati (a Venezia aveva avuto amico il Tiziano, che gli aveva fatto omaggio di un ritratto di Giulia Gonzaga), esonerato da ogni impegno politico e diplomatico dove potessero esercitarsi le sue doti di astuto macchinatore e di acuto osservatore, troppo scarso interesse dovevano avere per lui le beghe tra le famiglie nobili della cittadina nelle quali era costretto dalla sua dignità ad intervenire come paciere e poco conforto doveva riservargli la costruzione e l'arredamento della nuova cattedrale. A parte qualche sporadico intervento disciplinare di cui fece soprattutto le spese il collegio dei canonici, non si può dire che la sua attività a Fano fosse un modello di episcopato conforme alle indicazioni tridentine. Furono piuttosto la poesia e la filologia il suo vero rifugio durante il triennio trascorso nella diocesi adriatica.
Alla poesia latina e volgare il C. si era sempre dedicato, non indegnamente, secondo il parere dei contemporanei. Una sua ode al protettore Ercole Gonzaga risale al periodo della sua prigionia a castel S. Angelo; da Venezia aveva inviato varie liriche latine e volgari ad amici, a principi, a prelati del concilio di Trento; a Fano moltiplicò questa attività, i cui frutti furono soltanto parzialmente pubblicati. Ma lo impegnarono soprattutto le traduzioni dal greco e dal latino (tre orazioni di Isocrate, una di Cicerone) e varie ricerche d'ordine filologico: un Index in T. Lucretium, un Dictionarium Terentianum, un Index in Tibullum, le Observationes Catulli e cinque volumi di Observationes ex C. Caesaris Commentaris, opere queste che non risultano pubblicate.
Ma il ritorno alle sue vecchie attività costituiva ancora il miraggio costante del C.: sperò per qualche tempo di poter avere nuovamente, a fianco del cardinale Gian Francesco Gonzaga di Guastalla, il ruolo che aveva esercitato con lo zio Ercole, ma la morte precoce del giovane prelato impedì la realizzazione del progetto. Non maggiore fortuna ebbe con il cardinale Federico Gonzaga: alla morte di Pio IV ottenne di essere designato suo conclavista, ma il nuovo protettore venne subito a mancargli perché morì nel corso stesso del conclave. Il C. dovette quindi far ritorno a Fano: ma qui ormai neppure la letteratura poteva consolarlo e finalmente, il 31 gennaio del 1567, fece formale rinunzia al vescovato ed alle relative prebende e in forma del tutto privata ritornò a Roma.
Alla corte di Pio V, presso il quale prestava servizio il nipote Camillo Capilupi, l'anziano prelato mantovano poté rendere ancora qualche marginale servizio: ma sostanzialmente non riuscì a superare l'ostracismo che gli aveva dichiarato il Borromeo. Servì, modestamente peraltro, da tramite tra la Curia e la corte mantovana quando dalla prima si richiedeva la partecipazione del duca Guglielmo alla lega di Lepanto, nel 1571. A questa medesima circostanza risale un suo Discorso diretto al Duca d'Urbino circa il modo di conservare la lega fatta tra N. S. Pio V,il Re Cattolico,i Veneziani contro il Turco, del quale dà notizia il Mazzatinti.
Il duca Guglielmo Gonzaga incaricò a più riprese il C. dell'acquisto in Roma di varie antichità romane; e il C. sempre in nome del signore di Mantova, commissionò al Palestrina due mottetti da eseguirsi nella chiesa mantovana di S. Barbara in occasione della festa della santa.
L'ultimo incarico del C. fu quello di agente in Roma del re di Svezia Giovanni III; a questo ufficio, ottenuto nel 1577, egli associò il nipote Camillo. Compito del C., in realtà assai modesto, fu quello di sbrigare gli interessi economici che la casa reale di Svezia aveva nel Regno di Napoli. Il carteggio del C. con questo sovrano è comunque di qualche interesse per i rapporti tra il regno baltico e l'Italia ed è ricco di notizie relative alla missione in Svezia del famoso diplomatico e letterato gesuita Antonio Possevino.
A Roma il C. riprese con nuova lena le sue attività letterarie. Collaborò nel 1572 alla redazione dell'opuscolo - che tuttavia nella maggior parte è da attribuire al nipote Camillo - Lo stratogema di Carlo IX re di Francia contro gli Ugonotti rebelli di Dio et suoi (Roma 1572) e per la stessa occasione inviò al re francese alcuni carmi. Si accinse quindi ad una raccolta dei suoi versi latini antichi e nuovi, ai quali aggiunse quelli dei fratelli Lelio e Camillo, pubblicando il volume a Roma e ad Anversa nel 1574, col titolo Capiluporum carmina. La raccolta fu nuovamente pubblicata a Mantova nel 1585 ed a Roma nel 1590 (quest'ultima edizione, dedicata al duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga, a cura del figlio Giulio, il quale vi aggiunse alcuni suoi versi). Un dialogo del C., De somniis et insomniis..., fu pubblicato postumo a Mantova nel 1588.
Durante il primo suo soggiorno a Roma, in qualità di rappresentante del duca di Mantova, il C. aveva acquistato un antico palazzo in Campo Marzio, rinnovato ed abbellito anche con i suggerimenti di Michelangelo Buonarroti: negli ultimi suoi anni vi raccolse varie pregevoli opere d'arte, tra le quali i ritratti tizianeschi di Giulia Gonzaga e del doge di Venezia Gerolamo Priuli. Notevole anche la raccolta di incunaboli e di edizioni pregevoli, tra le quali numerose le aldine: dopo la sua morte questa raccolta fu trasportata nel palazzo della famiglia in Mantova, andando ad arricchire quella già di per sé cospicua incominciata dal padre del Capilupi.
Durante il soggiorno veneziano del C. il letterato T. E. Vittore Abstemio gli dedicò, nel 1562, il poemetto Phellina.
Il C. morì a Roma il 20 apr. 1580.
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