MARSILI, Ippolito
– Nacque a Bologna nel 1450 da Carlo e da Giuditta Gradi.
La famiglia Marsili, nobile e senatoria dal 1483, era originaria di Budrio o forse di Modena, ma a partire dal 1295 le vicende del casato si legarono al territorio e alla cittadinanza bolognesi. I membri della famiglia esercitarono l’arte dei macellai per poi dedicarsi con successo all’attività creditizia; si distinsero in molte cariche pubbliche e, in particolare, ricoprirono dal 1269 al 1380 il delicato ufficio di rettori del Ponte sul Reno, un punto nodale per i traffici cittadini e redditizio per i detentori della carica, che infatti acquisirono vasti possedimenti fondiari nel Persicetano. Nel secolo XVI la casata si suddivise in due rami, che risiedevano nel medesimo palazzo, situato lungo via D’Azeglio a Bologna: i Marsili Rossi Lombardi e i Marsili Duglioli.
Il M. studiò diritto a Bologna con Andrea Barbazza, Vincenzo Paleotti e Alberto Cattani. Recatosi prima a Padova e poi a Ferrara, fu allievo prediletto di Felino Sandeo, che tra il 1465 e il 1474 tenne la cattedra di diritto canonico a Ferrara e a Pisa. È lo stesso M. che, nella trattazione di alcune quaestiones, si riferisce a Sandeo appellandolo, tra l’altro, «mihi pater, dominus, et praeceptor singularissimus» (Tractatus de quaestionibus, Lugduni, P. Bonnyn e F. de Giuncta, 1529, p. 73 n. 47). Si addottorò in utroque iure a Bologna il 12 genn. 1480 con la tradizionale cerimonia di conferimento della laurea nella cattedrale di S. Pietro, durante la quale venne presentato al priore da Vincenzo Paleotti, da Antonio Bolognetti e dallo zio Girolamo Zanetini.
Già nel 1482 ottenne una cattedra di diritto civile, diventando lettore nello Studio, ed ebbe tra i suoi più celebri allievi Antonio Burgos e Paolo d’Oria. Svolse Lecturae di grande rilievo al Codice (1482-83, 1486-87, 1488-89, 1490-91, 1492-93) e al Digesto (1483-84, 1487-88; 1489-90, 1491-92), che, fissate nella mattinata dei giorni festivi, riscossero l’apprezzamento degli uditori.
Dopo un decennio di attività didattica, il M. sospese l’insegnamento fino al 1497 per assumere diversi incarichi pubblici nel Ducato di Milano, che non mancò di ricordare nelle opere. Fu nominato vicario generale e sindacatore nel 1481 (Singularia nova et vetera, n. 190, p. 33v, 34r e n. 194, p. 34v), capitano della Valle di Lugano nel 1484 per circa due anni (Commentaria omnium singularissima, p. 14) e governatore ad Albenga in territorio genovese nel 1491 (Practica criminalis Averolda nuncupata, p. 29). Adempì l’ufficio podestarile a Cittadella nel Padovano (Commentaria…, p. 23). Contemporaneamente svolse una intensa attività forense: fu, infatti, patrocinatore in numerose cause criminali e civili a Faenza, Como, Venezia e in molti altri luoghi dove ebbe occasione di risiedere.
Tornato a Bologna, riprese il magistero. Lesse il Digesto vecchio (1497-98, 1507-08), il Digesto nuovo (1499-1500, 1501-02, 1503-04, 1505-06) e l’Infortiato (1502-03, 1504-05), e il Codice (1506-07). Non ricevendo l’onorario di sua spettanza per gli anni 1498 e 1499, il M. fece istanza al Senato, che ne decretò il pagamento nel 1500 stabilendo anche un aumento di lire 100. Il 19 marzo 1509 il Senato lo dispensò dall’insegnamento per la durata della cura a cui si dovette sottoporre a causa del gozzo che gli rendeva assai gravoso e difficile il parlare.
A partire dal XVI secolo, nell’ambito di un diffuso processo di rinnovamento dell’insegnamento giuridico nelle università, non basato più su una concezione del diritto che privilegiava la disciplina dei negozi privati, cominciarono a farsi largo aree disciplinari innovative, dotate di un’identità specifica, e a essere attivati cattedre e corsi di carattere specialistico quali le Lecturae di Ius criminale. Era molto avvertita, infatti, la necessità di offrire agli studenti adeguate nozioni teoriche e pratiche per affrontare il labirinto del processo penalistico caratterizzato non più solo da rigide regole, ma anche da complessi principî e dogmi sostanziali.
Il M., data la lunga esperienza come iudex maleficiorum, fu il primo cui venne affidato l’incarico di insegnare diritto criminale nello Studio felsineo. Tra il 1510 e il 1513 svolse le prime Lecturae alla Lex de raptu virginum (C. 48,8), alla Cornelia de sicariis (D. 48,8), alla Pompeia de paricidiis (D. 48,9) e, infine, alla Cornelia de falsis (C. 9,22). A questi testi egli dedicò rinomati Commentaria (Bologna, B. Ettore, 1517; Milano, G.G. Legnano e fratelli e G.A. Scinzenzeler, 1521; Venezia, F. Garrone, 1524-26) nonché imponenti Repetitiones come l’Aurea Repetitio rubrice de probationibus (Bologna, B. Ettore, 1518).
Dopo un breve intervallo, durante il quale i Rotuli annotano l’insegnamento del M. in diritto civile, a partire dal 1516 passò a insegnare diritto canonico con celebri lezioni sulle Decretali. Dal 1520 tornò al Ius civile, alternando fino al 1530 letture al Digesto vecchio e al Codice.
Gli ultimi anni della vita furono contrassegnati dall’infermità e dalla spossatezza. Panciroli ha tramandato un inedito ritratto dell’insigne giureconsulto, descritto come un uomo ormai anziano dalla lunga e folta barba a nascondere il difetto del gozzo e con un vistoso cappello per premunirsi dalle eventuali intemperie. Nel 1524, al fine di trattenere il più possibile presso lo Studium un maestro di così chiara fama, capace di attirare studenti e di dare lustro all’insegnamento accademico bolognese, l’ateneo – che aveva reiterato le conferme contrattuali a condizioni particolarmente vantaggiose – adottò un’apposita delibera per la quale il M. fu dispensato, a causa della malattia incalzante, dal leggere pubblicamente, «nisi pro eius libito voluntatis legere teneatur» (Fantuzzi, p. 282), conservando, malgrado ciò, lo stipendio.
Il M. morì a Bologna nel 1529. Fu tumulato nella chiesa di S. Domenico nel cui chiostro si trova ancora oggi il sepolcro.
Pur impegnato nella didattica, nei pubblici uffici e nel patrocinio, il M. si prodigò fino alla morte nella redazione di importanti trattati civili e criminali che suscitarono gli elogi e gli apprezzamenti non soltanto dei dotti del suo tempo, ma anche degli intellettuali e dei pratici legali dei secoli successivi. Egli fu, inoltre, uno dei rari esempi di giurista che diede alle stampe, nell’ambito delle sue Lecturae, i discorsi che teneva agli studenti. Ricchi di note di umanità e di colore, non lesinano invettive contro la giustizia e i giudici del tempo, esortazioni a non abusare delle condanne a morte con moniti diretti a ricorrere a pene leggere e al perdono tutte le volte che fosse possibile. Una pungente riflessione volta a condannare l’operato dei giudici del suo tempo è contenuta nella Repetitio de fideiussoribus (Bologna, B. Ettore, 1520; Venezia, F. Garrone, 1526; Lione, G. Giunti, 1538), detta Rangona perché dedicata a Guido Rangone. Delle Repetitiones marsiliane – dette Grimana, Grassea, Aragona, Avogadra, Gheriana, a seconda del nome del dedicatario – esiste una rara edizione collettanea in 9 tomi (Lione, M. Bonhome, 1543).
Tra le sue opere date più volte alle stampe, ebbe particolare fortuna la Practica causarum criminalium, detta Averolda perché dedicata ad Altobello Averoldo da Brescia, vescovo di Pola e governatore della Romagna (Lione, G. Giunti, 1538; Venezia, F. Garrone, 1526; ibid., A. Boscaini, tip. T. Pettinati, 1529; ibid., B. Rubini, 1574). Con questo imponente lavoro, il M. non soltanto fornì gli strumenti per destreggiarsi negli ingranaggi del processo penale, ma offrì per la prima volta, in questa branca del diritto, indicazioni scientifiche e tecniche di carattere pratico che delineavano una nuova forma di professionalità. Diceva ai lettori: «Practicam ergo istam gratiose suscipite, curiose perlegite, et fructuose memoriae commendate, ut digni efficiamini res publicas diversorum Principum et locorum vestro patrocinio gubernare, ut inquit Imperator in proemio institutionum» (Practica criminalis, c. IIIv).
Notevoli appaiono le riflessioni del M. sul tema della tortura, istituto centrale e di larga applicazione nel panorama giudiziario cinquecentesco. La crudeltà di certi giudici nell’infliggere tale tormento non conosceva limite e frequentemente accadeva che essi travalicassero la giusta misura e i criteri imposti dalla legge. Non meno biasimevoli apparivano la leggerezza e la superficialità di alcuni magistrati che facevano della tortura un vero e proprio macabro spettacolo. Tuttavia, se per il M. la tortura non doveva essere considerato un arbitrario strumento in balìa del volere dei giudici, dall’altro essa appariva ai suoi occhi come un male necessario per giungere alla verità dei fatti.
Proprio a lui si deve, infatti, il disciplinamento della veglia coatta, una diffusa tecnica di tortura in base alla quale l’esaminato, seduto su una sedia e sorvegliato da aguzzini, veniva costretto a restare sveglio anche per quaranta ore di seguito. Questo strumento ad eruendam veritatem rappresentava, anche se non moralmente, un indubbio progresso tecnico rispetto agli altri strumenti di tortura perché non comportava gravi lesioni corporali. È lo stesso M. a dire: «et est tormentum non laedens corpus, tamen est maximae potentiae, et antequam de ipso fecissem experientiam videbatur mihi potius res ridiculosa quam tormentum. Quod tormentum tale est» (Grimana, n. 27).
Degne di considerazione sono le raccolte Singularia seu notabilia ex utroque iure (Bologna, B. Ettore, 1501; Pavia, B. Garaldi, 1508; Milano, G.G. Legnano e fratelli Scinzenzeler, 1519), Singularia nova et vetera cum additionibus eiusdem (Bologna, B. Ettore, 1514; Lione, G. Giunti, 1535), Singularia et c. iuris utriusq. forensi usu comprovata et observata, additionibus I.B. Castilione nunc primum illustrata (Venezia, Comin da Trino, 1555), come pure una imponente raccolta di Consilia et singularia (Lione, H. La Porte - L. Gabiano, 1537; Venezia, B. Rubini, 1573), genere molto diffuso al tempo per l’esercizio dell’attività forense. Nel consiglio I di quest’ultima raccolta, per esempio, il M. appare impegnato su ordine del re di Francia Luigi XII in una causa contro un ufficiale regio colpevole di lesa maestà mentre nel consiglio III, egli si trova a patrocinare contro il bolognese Cesare Nappi, accusato di omicidio. Il consiglio XVII, invece, è incentrato sulla difesa che il M. esercitò a favore del figlio Scipione indagato in un processo per omicidio.
Il M. compose anche Commentaria super titulo de questionibus (Bologna, B. Ettore, 1507; Venezia, Comin da Trino, 1564), Commentaria in varios titulos iuris civilis et eius Practica criminalis (Lione, M. Bonhome, 1543), nonché Repetitiones memorabili come quelle in diritto canonico. Infine nel Tractatus bannitorum (Bologna, Soc. tipografica bolognese, 1574) e nel Tractatus de fideiussoribus (Venezia, B. Rubini, 1570), il M. approfondì argomenti e tematiche di grande interesse per i pratici del tempo con una descrizione minuziosa delle fattispecie trattate, definizioni tipizzanti e precisione linguistica che caratterizzano questo tipico genere letterario cinquecentesco.
Prima ancora che un insigne giureconsulto, il M. appare un vero e proprio homo novus, in bilico tra passato e futuro, calato nel suo tempo e legato alla tradizione, ma già proiettato nella sperimentazione di nuove tecniche, espressione dei cambiamenti profondi che interessarono non soltanto il diritto, ma tutto il panorama culturale del Cinquecento.
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