Ippolito Nievo: Opere - Introduzione
«Ieri alla fine ho terminato il mio romanzo; son proprio contento di riposarmi. Fu una confessione assai lunga.» Con queste ormai famose parole, del 17 agosto 1858, Ippolito Nievo annunciava d'aver compiuto Le Confessioni d'un Italiano, il grande romanzo che è il suo capolavoro e l'ultima sua opera di narratore. V'è in queste parole il senso di chi s'alza finalmente da tavolino dopo una lunga estenuante fatica che l'abbia tenuto prigioniero, legato con la mente e col cuore in un continuo sforzo, per una intensa giornata, durata ben otto mesi. Un periodo di tempo che è parso a tutti troppo breve per un romanzo di tanta mole, così ricco di personaggi, di casi e di avventure diversi, che abbraccia la storia veneta, lombarda, napoletana, ligure, italiana infine, dal 1775 al 1855, quasi un secolo, pressoché tutta la vita del protagonista, l'ottuagenario italiano Carlo Altoviti.
Eppure tanto furore di lavoro non fu eccezionale nel Nievo: eccezionale, se mai, il risultato. Direi quasi che non v'è scrittore italiano che abbia compiuto e abbozzato nel giro di trent'anni tanta dovizia di opere, pur non negandosi la vita, cioè gli affetti familiari, l'amore, lo studio, le amicizie, le passeggiate, il combattimento politico e guerresco. Chiusa in una rapida e intensa stagione, la vita del Nievo ha sempre attratto per la sua nitidezza: non una menda si può trovare in essa; nulla che dispiaccia nell’uomo, sorridente e discreto propugnatore di ideali per i quali era egli stesso il primo pronto al sacrificio, devoto ad una religione del lavoro ravvivata da una calda fiducia nell'umanità, amante appassionato e gentile. Veramente, di fronte all'uomo risentiamo lo stupore dell'Abba che lo vide sfolgorante d'ingegno, diverso dagli altri uomini in tutta la persona, guardare i monti della Conca d'Oro nell'impresa garibaldina, o la suggezione che già provò il Croce innanzi ai pensieri, alle parole e agli atti, di quel giovane.
Quella gran corsa ad una splendente maturità che con entusiasmo seguiamo nella sua vita, non la ritroviamo altresì corrispondente nella forma del suo operare letterario. Tutta l'opera del Nievo è protesa verso le Confessioni d'un Italiano. ma esse lasciano ben addietro i romanzi, i racconti, le liriche, le tragedie che a loro fanno corona; e nell'Angelo di Bontà, nel Conte Pecoraio, nelle Lucciole, negli Amori Garibaldini, nei Capuani, nello Spartaco ritroviamo, ancora più gravi, i difetti che fanno delle Confessioni un grande romanzo, ma un romanzo disuguale. Eppure senza quei tentativi, senza quelle opere mancate (per tanti versi interessanti e non prive di pagine vive e poetiche), senza quella diuturna fatica di scrittore che, iniziata imberbe giovinetto, lo addestrò all'arte dello scrivere, al cercare dentro di sé e nei ricordi altrui e nella natura e nella storia, i sentimenti, i fatti che meglio parlavano alla sua immaginazione fervida e seria, ironica e morale, senza quei tentativi non sarebbero nate da un giovane ventisettenne le Confessioni. Per questo, nella nostra edizione non abbiamo voluto dimenticare le opere minori; dimenticarle sarebbe stato indulgere ad un gusto romantico che fu già di uomini del passato, che vollero vedere nelle Confessioni d'un Italiano come un'improvvisa apertura, la rivelazione d'uno scrittore giovane d'anni e di esperienze, un esordio alla grande arte subito troncato, anziché una conclusione; ed esagerarono nel crederle scritte «di getto». Dimenticarle avrebbe anche significato credere o voler far credere ad uno «strappo» tra le opere minori e la grande ultima opera; invece nelle pagine che l'hanno preceduta il lettore troverà le prime fonti del mondo poetico delle Confessioni. e i primi toni d'un linguaggio e d'una morale fantasia che già sono singolarmente nieviani.
Angelo di Bontà,
Le Confessioni porteranno poi a maturazione lo stile ancora impacciato dell'Angelo di Bontà, scompariranno in esse le incertezze del linguaggio ora infarcito di richiami dialettali veneti e lombardi, ora legato ad accattati modi toscani, ora indulgente a modi eccessivamente discorsivi, di prosa parlata. Così quell'amore ancora municipale per Venezia, apparso già in una lettera del Nievo quasi ventenne a Matilde Ferrari, vive e alimenta la tragica visione veneziana dell'Angelo di Bontà, ed è già pronto a cedere di fronte al più grande amore nazionale per l'Italia; sembra che il Nievo scrittore, del 1850, del 1855, del 1858, l'anno delle Confessioni, abbia ripercorso le tappe del sentimento patriottico del suo Carlino Altoviti; in questo le Confessioni sono autobiografiche. Quando Ippolito nacque a Padova il 30 novembre 1831, non erano ancor quarant’anni che la millenaria Repubblica di Venezia era caduta sotto i colpi infertile dall'Impero asburgico e dal Bonaparte, uniti, dopo tanta guerra sul suo territorio, nella comune decisione di spegnerne la sovranità; ed egli vide la luce nell'anno dei moti di Romagna. Quando nacque alla vita politica e all'arte, vide la lotta di Venezia del '48-‘49, l'errore di restaurare il simulacro della vecchia Repubblica e l'antico grido di San Marco; più tardi le impiccagioni di Belfiore lo scossero fin nel profondo. Patriota formatosi nei dolori del primo Risorgimento, conservò gli slanci generosi del '48, le istanze progressive della Rivoluzione di quell'anno, la ferma convinzione che il Risorgimento dovesse essere concretamente risorgimento di popolo. Vissuto tra moderati, non lo fu mai: più mazziniano dei mazziniani, più democratico dei democratici. Scrittore senza crisi, senza complicazioni intellettuali, volle essere scrittore popolare e nazionale, e nei pensieri e nella lingua. Romanticamente pensava che i suoi romanzi e i suoi racconti campagnoli potessero essere letti a veglia nelle stalle.
Il Varmo
Questo avvicinamento alle Confessioni potrebbe apparire un po' casuale, il Nievo ci potrebbe apparire uno scrittore alla ricerca di se stesso e in ciò passibile di smarrimenti, se considerassimo da un punto di vista puramente estetico il romanzo, Il Conte Pecoraio, che precede di poco le Confessioni. Lo venne scrivendo a Colloredo nell'inverno e primavera del '56, insieme alle novelle campagnole. Esso risente di una soggezione al modello manzoniano, soggezione non congeniale al temperamento dello scrittore Nievo: lo si è detto un manzoniano, ma a torto, ché le diversità son tante da incriminare d'un subito tale asserzione. Diverso il modo d'affrontare l'arte, diverse le concezioni filosofiche e religiose, diversi il sentire patriottico e il vivere gli anni eroici del Risorgimento. L'uno frettoloso, quanto l'altro lento e minuzioso; incapace di misura e di rapporti nella tecnica letteraria l'uno,' quanto attento e scrupoloso all'armonia e alla simmetria l'altro; l'uno ottimista e felice di vivere pur tra malumori e tristezze, quanto l'altro tormentato e dubbioso, e consolato soltanto da una fiducia trascendente l'umano. Né gli uomini né gli artisti si assomigliano. Nato nella dichiarata ammirazione per il Manzoni, Il Conte Pecoraio, come romanzo di un epigono, è fallito. Romanzo disarmonico, iniziato con un quadro idilliaco se pur dolente, esso via via si avviluppa in un racconto artificioso; ma la triste vicenda della giovane contadina, vittima delle lusinghe del conte di Torlano, ha senza dubbio accento umanamente più vero della vicenda di Morosina Valiner, l'angelo di bontà. Giova invece indicare nel Conte Pecoraio la fedeltà al mondo del Friuli agreste e pastorale, l'insistenza su motivi sempre più cari, sempre più radicantisi nell'animo dello scrittore: una preparazione all’opera maggiore. Quanto allo stile ed al linguaggio, anche qui il manzonismo, il toscanismo e l'idiotismo, mescolati, stridono. Lo scrittore non ha ancora avvertito che è inutile tentar di mettere sulle labbra dei personaggi accenti dialettali quando egli stesso è portato ad adoperare un linguaggio riflesso, lontano da quello proprio e naturale, soggetto ancora a un modello «in lingua», accademico.
Eppure nel '54 il giovane ventitreenne aveva già trattato questi problemi, e li aveva, sia pur confusamente, avviati ad una conclusione. Gli Studi sulla Poesia popolare e civile massimamente in Italia sono stati a lungo trascurati dai critici. Anche il Mantovani non vi si sofferma. In essi invece è già tanta parte della poetica del Nievo. In una prosa vibrata che dà nel retorico, in una rapida e, alla fine, piuttosto confusa rassegna della poesia da Omero ai suoi giorni, il giovane scrittore lamenta la scarsezza della poesia popolare e nazionale in Italia. Con Dante - egli dice - «fu ricostituita in Italia la grande poesia nazionale e popolare . . . Nelle servili pecoraggini e nel ristagno letterario del Quattrocento . . . manifesto era nella letteratura uno scostamento sempre maggiore dalle fonti primitive; e cominciava già qua e là a sedere nei troni di qualche Accademia la scimmieggiante dinastia dei Petrarcheschi... - A tale traviamento cooperò anche funestamente lo spirito cortigianesco per cui i poeti italiani, perduta l'indipendenza, perdettero l'antica lena e si allontanarono, maliziosamente forse, dai pericolosi esempi di quel Sommo, che avea rannodato lo spirito italiano alle tradizioni latine e ai costumi popolari». E difendeva il giovane Nievo la forza rubesta del dialetto, tanto che nel Parini e nell'Alfieri, nuovi patriarchi delle patrie lettere, credeva ritrovare «un certo dire parco e maschio che somiglia assai da vicino la rustica maniera di dire del dialetto»; che è impressione certamente ardita. E più veniva a dire: «La lingua italiana sta come un gran serbatoio in cui di secolo in secolo si vanno depositando gli elementi più puri di ben dieci vocabolari, vagliati dall'uso di sei o sette generazioni, e ripuliti dalla prudente pratica degli scrittori. Le frasi per avventura illogiche, o troppo rozze e avventate, o prolisse dei dialetti, se sono rifiutate come spurie dal seno della loro gran madre, durano prima per lunghi secoli nei volgari discorsi, poi vanno scomparendo al fondo, sovente per immegliarsi, talora per impeggiare, sempre però tendenti a passare dall'uso provinciale al generale sia per la crescente uniformità delle opinioni italiane, sia per natural attitudine d'ogni segno che vesta acconciamente il concetto.» Queste esigenze, e la «prudente pratica» del dialetto saranno parte essenziale dello stile del romanzo maggiore. Non dunque, come si volle credere per tanto tempo, sciatteria dovuta alla fretta, la presenza di forme dialettali nel Nievo scrittore, ma piuttosto programmatica velocità di espressione, che, senza freddezza e calcolo, s'affidava in lui, veneto-lombardo, al suo naturale linguaggio di italiano del Settentrione.
Intanto nel '56 era uscito su «Il Pungolo» Il Barone di Nicastro, racconto che ha per protagonista uno strano personaggio; sono evidenti qui le letture di scrittori francesi dal Lesage del Gil Blas al Voltaire del Candide. Nel '57, tornato da Milano a Mantova, città dei Nievo e dove essi abitavano, scrisse le tragedie Spartaco e I Capuani. «Fecondo come una coniglia» diceva di se stesso in questo periodo. Il Nievo compose le sue due opere drammatiche quasi di seguito; I Capuani nella primavera-estate del 1857, lo Spartaco - come si presume - nell'autunno dello stesso anno. Esse si presentano complete nelle loro linee generali, ma, secondo l’Errante che le pubblicò nel 1914 e 1919, non perfettamente rifinite, e i manoscritti attesterebbero l'intenzione del poeta di riprendere il lavoro. I critici, e per primo il Mantovani, parlando dello Spartaco, ricordano il tentativo manzoniano di comporre una tragedia sul guerriero trace, il dramma Les esclaves del Quinet, e lo Spartaco di Giulio Carcano (il traduttore ottocentesco dello Shakespeare), pubblicato a Milano nello stesso anno in cui il Nievo scriveva la sua tragedia. Ma sono richiami tutti di carattere informativo che poco possono servire ad inquadrare queste tragedie nel loro tempo; se non forse ad indicare come l'argomento fosse vivo negli scrittori della prima e della seconda metà del secolo. È indubbio che il Nievo sentì l'influsso della tragedia alfieriana, che non dimenticò l'insegnamento manzoniano; ben poco dovette al Carcano che scrisse opera melodrammatica e fiacca. I Capuani. che pur hanno scene efficaci e forti, sono opera confusa e mancante di un centro drammatico, di rapidità, di scioltezza. Meglio, a nostro avviso lo Spartaco, in cui la silenziosa figura dello schiavo trace domina maestosa sul tumulto degli odii, delle vendette, degli amori.
Nel gennaio del '58 furono pubblicate a Milano Le Lucciole, frutto di un triennale esercizio di poesia. Ma poeta lirico il Nievo non era, e i difetti che si riscontrano nelle Lucciole si ritroveranno negli Amori Garibaldini (1860); versi senza musica o con troppo facile musica, immagini forzate che solo di tanto in tanto l'irruenza della fantasia riscatta. S'è voluto vedere una soggezione del gusto poetico del Nievo al Prati, al Giusti e allo Heine. Indubbiamente i settenari del Nievo hanno echi dei settenari giustiani, e il suo umorismo e la sua satira hanno i toni del poeta di Monsummano: più difficile è trovare una discendenza dallo Heine (che pur egli tradusse); e il ricordo del Prati si troverebbe nelle liriche più commosse o melodrammatiche. Ai poeti già ricordati come ispiratori o affini al Nievo si potrebbe anche aggiungere il buon Fusinato. Ma in verità il Nievo non fu mai poeta di limpida voce, e le sue moltissime poesie si leggono oggi quasi soltanto per rispetto al romanziere. Estrema facilità del verseggiare, frettolosa stesura, levità da bozzetto, son le caratteristiche che balzano subito evidenti dalla pagina. E tali difetti sono forse più evidenti negli Amori Garibaldini che nelle Lucciole. Gli Amori Garibaldini hanno in compenso il pregio di una maggiore vivacità, di un più sincero sentire. Mentre nelle Lucciole (esclusi forse i Bozzetti veneziani del resto un po' scialbi) s'avverte spesso un intenzione letteraria ingenua e rozza, con un suo pesante linguaggio; negli Amori Garibaldini invece, proprio perché buttati giù in fretta tra una marcia e un combattimento, si scopre un animo candido ed entusiasta, capace di contegnosi dubbi e di ambasce e di sereni gaudi, «garibaldinamente» pronto a vivere. Spesso allora le sue poesie appaiono come anticipazioni o ricordi, cose che ritornano o che verranno riprese e più fermamente espresse nelle opere di lui non caduche.
Ed ecco il tempo più felice e più grande: gli anni delle Confessioni d'un Italiano. della campagna del '59 e della spedizione di Sicilia. Nel dicembre del '57 il Nievo scriveva le prime pagine delle Confessioni, e in otto mesi, trascorsi tra Milano, Colloredo e il Mantovano, l'opera era compiuta. Ormai da vent'anni le Confessioni.sono tornate al loro vecchio titolo, hanno abbandonato quello prudente, se non vile, di Confessioni d'un ottuagenario, esso piacque ed alcuni vi sono ancora affezionati. Ma l'unico vero titolo, non solo perché dato dall'autore, ma perché anche veramente rispondente allo spirito del romanzo, è Le Confessioni d’un Italiano. E, si badi, tale titolo mette l'accento anche su quelle parti che, artisticamente dubbie, si sorreggono però nella moralità e nella passione patriottica, anch'esse strumenti essenziali ali unita del romanzo. In effetti, giunti al ventitreesimo ed ultimo capitolo, s'avverte che il Nievo ha voluto, nella varietà della vicenda e nella lunghezza del racconto, narrarci la faticosa e avventurosa affermazione di italianità di un uomo nato in un lembo italiano quando ancor l'Italia non era. S'avverte che il Nievo ha voluto, dopo il ritorno di Carlino da Londra nella Venezia ancora austriaca, non ricominciare il romanzo, non aggiungervi l'appendice - o, se si vuole, un’ennesima appendice - ma ha voluto, dopo la fremente nascita dell’ Italiano tra le glorie e le sconfitte napoleoniche e i patiboli partenopei e la borghese burocrazia della Repubblica e del Regno italici, rappresentarci la naturale e morale conseguenza di quel fenomeno storico, cioè la famiglia italiana fondata su quel nuovo sangue. Famiglia ancor costretta a tributi di smarrimenti e di sangue per la patria nascente.
Felice invenzione, generoso proposito che avrebbe dovuto darci il romanzo nazionale. Di qui tante ricchezze e anche molte divagazioni artisticamente inutili, ed eccessi. Tuttavia le Confessioni.«sono un libro ben temperato, e le disuguaglianze di esso sono soltanto tecniche, non compromettono la sostanziale unità che è quella vera e sola, quella che vien dall'unità d'ispirazione». Possiamo far nostre anche altre parole di Riccardo Bacchelli: «io per me non conosco libro in cui la storia di una passione, di quella malattia del sangue e dell'anima che è tanto più cara e preziosa della salute, sia cosi naturale e così fatale nelle sue origini, germinate quasi colla vita nell’ infanzia, e coi primi sentimenti, col sorger primo della coscienza e della riflessione, e nei suoi annosi andamenti». E certamente la storia dell'amore per Pisana non sta a sé, non è isolabile dalla storia di Carlino italiano. I primi inconsci e nebulosi sentimenti dell'infanzia, i contrasti tra la passione e il dovere e la dignità nella giovinezza s'intrecciano e si svolgono sul cangiante sfondo del quadro: dal vecchio mondo di Fratta - ove tutto è cadente e solo verdeggia l'idillio tra i due bambini, questi pieni di vita, irrequieti, capaci di sensi generosi, di capricci e di fole, quello grave e ridicolo, e lento e sopravvissuto a se stesso e alla sua funzione - si passa al crollo senza solennità d'una Repubblica durata nei secoli, e la cui morte fa soffrire più di tutti proprio coloro che per primi la sentirono ineluttabile e la augurarono. Così la morale straordinaria in cui vive quell'amore dalla fuga di Carlino da Venezia al suo matrimonio nel Friuli con l'Aquilina, s'accompagna al periodo straordinario di rischi e d'avventure nel Partenopeo, nel Genovesato e nelle intendenze della vasta Repubblica Cisalpina e poi Italiana. Quell'amore diverrà dolente e corrugata e infine tutta spirituale passione nell'esilio londinese. Amore di natura foscoliana, in cui patria e donna si uniscono, ma senza idealizzazione, anzi consapevolmente espresso con le sue torbidezze e con una sensualità non meno intensa perché pudicamente rappresentata.
Molto si è detto intorno a Pisana, molto si è scritto intorno al mondo di Fratta, che, dice acutamente il Russo, ciascuno legge «come le memorie simboliche della propria adolescenza, anche se in ogni particolare la nostra sia stata diversa da quella». La poesia delle Confessioni è già tutta lì, in Pisana bambina, nel paesaggio e nelle voci del Friuli settecentesco; il resto del romanzo prolunga quel meriggio poetico. A tratti la luce artistica s'attenua, perde splendore, s'offusca; ma il vigore non viene mai meno. Le bassure, le fontane, i rivi, le lagune, le nebbioline d'una campagna grassa e alberata, i viottoli e le strade campestri; le fiere dei villani e le grottesche «mostre» delle cernide (quasi ritorni a toni che furono già del Folengo e del Ruzzante); il castello di Fratta con la sua scacchiera a mezza partita di fumaioli e la piccola folla di conti, di baroni, di cancellieri, di monsignori e cappellani e pievani, di cavallanti, di armigeri, di fattori, di cuoche e di sguattere, sono immagini e quadri a lungo vissuti nella mente dello scrittore e che si appalesano nelle pagine con una naturalezza che sa di necessità. Si e parlato di un tono caricaturale un po' troppo insistito nella rievocazione del mondo di Fratta, e, d'altra parte, di una pensosità nieviana straordinaria, veramente da vecchio per un giovane ventisettenne. La rievocazione del mondo di Fratta è invece chiaramente il frutto di un animo giovanile, dove non c'è lode di tempo passato in cui domina il sorriso superiore di una generazione di nipoti che si china sull’infanzia dei nonni; e l'ottuagenario è un espediente, un'immagine pratica per poter svolgere, partiti da una lontana società oligarchica, il filo di una storia che si vuole quanto più è possibile far giungere sino a tempi immediatamente contemporanei. Lasciamo stare la saggezza della vecchiaia, che nelle Confessioni non c'è; e quando c'è, è divagazione prolissa. La poesia del romanzo è tutta giovane; anche se certamente saggia, come era saggio l’uomo Nievo fin dall'adolescenza. Non si può esprimere una passione così fresca e conturbante come quella di Carlino e di Pisana, se non si è giovani con nel petto sangue ancora in rivolta, non si può rappresentare un personaggio sempre pronto a correre con la spada in mano là dove la passione patriottica lo esige, se la patria non parla ancora più al cuore che alla mente. E non la patria, ideale astratto e retorico, ma patria di popolo da sospingere a civiltà. Di scuola democratica l'avrebbe forse giudicato il De Sanctis, che certamente non lo conobbe; e ci piace pensare che avrebbe sentito Pisana come lontana sorella di quella Francesca che «non è il divino, ma l'umano e il terrestre, essere fragile, appassionato, capace di colpa e colpevole, e per ciò in tale situazione che tutte le sue facoltà sono messe in movimento, con profondi contrasti che generano irresistibili emozioni».
I difetti veri del romanzo nascono da un eccesso di calore, da un impeto di natura morale che non è riuscito a calarsi appieno nella misura dell'arte. L'abbandono del mondo di Fratta era necessario all'unità morale del racconto, ma fu, in certo modo, esiziale all'arte. Eppure, ripensiamo ai capitoli sulla caduta della Repubblica veneta, al rinnovato amore di Carlino e di Pisana nella casa lasciata dal padre apparso e riscomparso verso lì Oriente, alla caserma della Milano cisalpina, alla rapidità balenante dell'assalto al convento velletrano, all'intendente Soffia e al cordiale ritratto di Bologna; ripensiamo al quadro dell'Italia durante il primato napoleonico, più efficace e più storico di dieci studi eruditi, alla lettera di Bruto Provedoni, alle vecchie contrade milanesi in cui da poco si sono spenti i passi dei vegliardi illuministi; ripensiamo infine al ritornante Friuli con le aperte distese, alla grama vita di una Venezia ancora una volta austriaca, alle chiacchiere e ai rancori affioranti in Piazza e in Piazzetta, a quella giovine Italia che nei figli diventa giovine Europa, a quell'America selvaggia, in verità non tutta brutta. Osservandovi invece i personaggi minori, quelli soprattutto che recano in sé un problema morale particolarmente sentito e forse sperimentato dal poeta stesso, si ha l'impressione che nello stendere la complicata trama del romanzo egli non sempre regga alla rifinitura di ciascun d’essi: lasciando da parte i più felicemente riusciti (quelli che non escono dal mondo di Fratta), il Nievo par quasi impaziente di fermarne d'un subito il carattere fisico e morale con un'impronta forte, spesso eccessiva, sì che poi la figura, costretta, debba contorcersi e contraddirsi nella procedente rappresentazione. E talvolta, proprio perché mancano di pazienti sfumature all'inizio, essi divengono personaggi di maniera; perciò Lucilio ricorda i pallidi eroi mazziniani del Ruffini, il non riuscito Fantasio; e come si contraddicono il dottorino di Fratta, il gran dottore di Venezia, il Lucilio soldato, il vecchio medico che ritorna per morire in patria, così si contraddicono Giulio, irriconoscibile tra Portogruaro e Milano, e poi abbandonato nel Napoletano; così Clara che da candida vergine religiosa scade a zitella bacchettona, golosa di caffè; così il padre che da impreveduto personaggio gozziano o goldoniano assurge a eroe sognatore, dantescamente forato nella gola. Vogliamo continuare? concludiamo piuttosto che nelle Confessioni mancano spesso i legamenti, che vi difetta l'unità tecnica, che vi si trovano discontinuità, che la fretta ha tarpato le ali al grande volo. E tuttavia quanta abbondanza, quanta ricchezza ancora di fantasia e di riflessione!
Romanzo più formativo non conosciamo nella letteratura italiana: ci perdonino i fedelissimi del Manzoni, ai quali, del resto, apparteniamo noi stessi. L'unanime giudizio dei lettori ha già detto che non v'è personaggio femminile più popolare di Pisana, che nell'età giovanile non v'è compagno più simpatico di Carlino, che nessun libro insegna meglio ai figli l'amore per gli anni più belli dell'Italia risorgimentale.
Rimarrebbe il pregiudizio dello stile, la creduta imperfezione della lingua: ne abbiamo già discorso. Quando citiamo Riccardo Bacchelli che nella prefazione alle più belle pagine di Ippolito Nievo dice di aver ristabilito, esaminando il manoscritto autografo delle Confessioni, alquanti modi regionali e saporiti che le edizioni correnti avevano mutato senza ragione, e che spesso di quei modi trovò nei dizionari (migliori amici degli scrittori di quanto non si creda) ottimi esempi classici, non ci trinceriamo dietro un giudizio autorevole, ma appoggiamo con esso una nostra ferma convinzione. Inoltre, di contro all'opinione sino ad ora da tutti accettata, affermiamo che il manoscritto autografo delle Confessioni non è la scrittura di getto del romanzo, ma la ricopiatura, secondo un metodo che fu proprio del Nievo: ce ne danno conferma le lettere ove egli parla della ricopiatura del Conte Pecoraio (al cugino Carlo Gobio del 22 dicembre 1856) e dei Capuani (sempre a Carlo Gobio del 25 luglio 1857). Ricopiava i suoi scritti, faceva rilegare i quinterni, e poi, naturalmente, come tutti, o cercava l'editore o li rimetteva nel cassetto, che si ripresentassero a un secondo esame. Purtroppo tra le lettere edite, e quelle inedite che abbiamo potuto leggere, non s'è trovato nulla che accenni a una ricopiatura delle Confessioni. Ma parla il buon senso: un romanzo tanto vasto, tanto pieno di personaggi seguiti dall'infanzia alla morte, di intrecci e di storia, non può essere stato scritto di getto senza un pentimento, in tre grossi quaderni press'a poco della stessa mole, il che attesta un calcolo preventivo, con le minute correzioni di quegli errori che sfuggono alla penna anche del più attento amanuense; calligrafia chiara e costante, righe fitte e uguali, nessun richiamo o rimando, ma solo qualche rara aggiunta in margine. Piuttosto, al solito, - lo documentano le lettere - fretta e noia nella ricopiatura, forse da includere nelle date dicembre 1857- agosto 1858, forse immediatamente successiva alla composizione, forse più tarda. Le dimenticanze, gli errori di memoria che rimangono nel romanzo sono da ascriversi a quella fretta: alcuni l'autore ne corresse, altri ne lasciò.
Nell'agosto stesso in cui finì le Confessioni. il Nievo pensava già di pubblicarle e cercava chi gliele stampasse. Nel novembre era a Milano. Il '59 lo trovò ormai nello stato d'animo inquieto e pieno di speranze che gli eventi politici giustificavano. In primavera, nel maggio, era a Torino, di là del confine, e subito arruolato nei Cacciatori a cavallo di quel generale Garibaldi che già aveva descritto difensore di Roma nelle Confessioni d'un Italiano. Il 26 maggio combatté a Varese, il 27 a San Fermo. Fu a Sondrio, combatté con il Bixio a Padenollo; combattevano ancora quando giunse l'annuncio dell'armistizio di Villafranca. Nel settembre tornava, in congedo, alla casa di Fossato non più austriaca. È di questo autunno 1859 un suo opuscolo politico, Venezia e la libertà d'Italia, che dimostra come il Nievo avesse partecipato alla campagna garibaldina non solo con l'animo del soldato, ma con l'occhio vigile del politico. Quello è il primo di un gruppo di scritti politici la cui maturità sembra giustificare la domanda e la risposta del Croce: « Che cosa avrebbe potuto fare ancora un ingegno come il Nievo, il quale, prima dei trent'anni, aveva già prodotto un libro, nonostante i suoi difetti, così importante come le Confessioni di un ottuagenario? Forse, dal freddo e risoluto e meditativo soldato delle guerre del Risorgimento, dall'abile capo d'intendenza della spedizione dei Mille, sarebbe uscito un uomo politico, un competente amministratore della cosa pubblica, un promotore delle armi e dell'agricoltura e dell'economia nazionale e dell'educazione del popolo italiano; e l'opera artistica, con la quale aveva riempito l'ozio costretto, aspettando il momento dell'azione, sarebbe diventata per lui secondaria o addirittura egli l'avrebbe abbandonata.» E dal 1929 furono pubblicate più pagine di quante allora, nel 1911, il Croce poté leggere. Sappiamo che avrebbe scritto II Pescatore d'Anime, il suo nuovo romanzo del dicembre 1859, di cui ci rimangono una trentina di cartelle, e il cui motivo ispiratore è da ricercarsi non solo nel mondo campagnolo del Friuli, ma soprattutto nei pensieri sulle classi contadine e sul clero povero quali sono esposti nell'abbozzo del saggio sulla Rivoluzione nazionale. L'attività letteraria non languiva dunque in lui anche in mezzo agli avvenimenti tanto grandi e incalzanti del '59 e del '60 e del '61; certamente lavorò nei periodi di ozio che i suoi doveri di soldato e di amministratore militare gli concedettero. Subì anch'egli, e felicemente, l'atmosfera carica di eventi, l'ansiosa e trepida incertezza delle sorti di tante provincie italiane in quegli anni, fu coinvolto nelle nuove polemiche che si destarono e che non finirono poi tanto presto. S'appassionò e scrisse, più di politica che di letteratura, si dimostrò uomo non solo di lettere, ma anche uomo di grandi virtù pratiche (e con la modestia dell'uomo sicuro, così scriveva alla Bice da Palermo, il 15 luglio 1860: «Hanno scoperto in me dei gran talenti amministrativi. Figurati! ... Ma il non rubare è una gran virtù ...»).
I suoi scritti di questo periodo nascono da un'intelligenza di politico, e il primo, Venezia e la libertà d'Italia, anche da una esperienza patita a lungo nell'animo e nel corpo, di lombardo – veneto: i secondi, cioè le relazioni amministrative, da incarichi ufficiali affidatigli da Giovanni Acerbi, il suo superiore nell'Intendenza dei Mille: il terzo, il Frammento sulla Rivoluzione nazionale, da una lunga consuetudine e da un profondo amore, che aveva sempre tradotto e che si accingeva ancora a tradurre, in termini letterari e poetici, verso il «popolo di campagna» e friulano e veneto e mantovano.
L'opuscolo Venezia e la libertà d'Italia fu pubblicato anonimo, a Milano, nel 1859. Scritto tra Villafranca e la cessione di Nizza, risente dell'ansia con cui il Nievo attendeva il responso definitivo della politica internazionale sul destino del Veneto. Ritorna qui l'eco di alcune lettere di lui adolescente e giovinetto alla madre e all'amico Attilio Magri, ritorna l'affetto - che assunse forma d'arte nell'Angelo di bontà, nel Conte Pecoraio e nelle Confessioni - del nonno Marin verso la città natia e verso la terraferma dominata un tempo dalla Serenissima. Lette le Confessioni. non ci sorprende il ritorno appassionato del Nievo a un argomento che gli stava a cuore, piuttosto ci sorprende l'atteggiamento retorico di alcune pagine, alcuni ingenui progetti o sogni lontani dalla realtà storica. Più che della maturità dell'autore, lo scritto è preziosa testimonianza della delusione d'un animo garibaldino dopo Villafranca.
Di più alto valore sono il Diario della spedizione dal 5 al 28 maggio, il Resoconto amministrativo della prima spedizione in Sicilia e la lettera al direttore della «Perseveranza»». Il primo fu pubblicato da Alessandro Luzio su «La Lettura» del maggio 1910 e ripubblicato dal Bacchelli con gli altri scritti politici nella sua nota antologia, con l'avvertenza che il Nievo lo dettò per uso di uno scrittore francese, il La Varenne, al quale avrebbe dovuto «servir di schema per una sua storia della prima spedizione». Il Resoconto fu steso nel luglio del 1860 per incarico dell'Acerbi; la lettera apparve nella «Perseveranza», il 31 gennaio 1861 ; furono riesumati entrambi da Alessandro Luzio, l'uno ne «La Lettura» del maggio 1910, l'altra nel «Risorgimento Italiano» dell'aprile 1910. Se nel Diario l'elemento narrativo prevale quasi sull'intenzione di dare un documento - quanti particolari appariscono come note di colore! - nel Resoconto invece la prosa più distesa e letteraria soggiace infine allo scopo informativo dello scritto. Certo è un singolare resoconto, così lontano dai modelli burocratici consueti anche nell'Ottocento. C'è il tentativo di dare lata interpretazione all'impresa dei Mille, di giustificarne anche economicamente il carattere eccezionale e leggendario, c'è l'intendimento orgoglioso di dimostrare, nonostante tutto, anche l'ordine amministrativo della campagna come cosa da porre tra gli elementi eroici di essa.
Il Frammento sulla Rivoluzione nazionale rimase inedito sino a quando Riccardo Bacchelli non lo pubblicò nella sua antologia del 1929. Così egli lo presentò: «È inedito. Lo dobbiamo alla generosa cortesia di Alessandro Luzio che molti anni fa lo fece copiare dall’autografo rimasto con le altre carte di Ippolito presso la famiglia ed ora scomparso con esse. Lo scritto era mutilo del principio e della fine; gettato giù di foga, qualche rara parola riuscì indecifrabile all'amanuense e anche al nipote del poeta, Ippolito Nievo, e al Luzio stesso che collazionarono la trascrizione. Il Mantovani (Il poeta soldato, pagg. 380-81) lo assegna al gennaio del '61, durante la licenza avuta dal Nievo dopo sette mesi di soggiorno in Palermo, e che egli trascorse tra Fossato, dove dimorava la madre, e Milano presso la Bice Melzi. Ma esso è piuttosto da attribuire ai mesi precedenti la campagna di Sicilia, mentre il Nievo abbozzava il suo ultimo romanzo, Il Pescatore d'Anime. Vi si è letto bensì un accenno a Quarto, ma la parola letta così sull'autografo dal trascrittore, da altri fu interpretata per Trento, lezione che abbiamo adottata. ». Anche a noi pare che lo scritto sia del periodo tra la campagna in Valtellina e quella di Sicilia; non fosse altro, apparirebbe strana la completa assenza di qualsiasi riferimento alla Sicilia, alle plebi contadine meridionali, che pur il Nievo conobbe e con le quali, come attestano il Diario e il Resoconto, per i suoi incarichi amministrativi fu anche in particolare contatto.
Il Frammento è molto importante, anche se lo si considera nel quadro generale del pensiero politico e sociale del nostro Risorgimento. Innanzi tutto l'attenzione del Nievo si volge a un problema di politica interna e per la prima volta - benché tanta parte del suo pensiero politico sia ricostruibile attraverso le Confessioni di un Italiano - egli prende una sua chiara posizione tra moderati e Partito d'Azione. Senza ricercare nuovi programmi politici, egli disapprova con severità l'atteggiamento dei moderati verso le classi contadine, e il loro esclusivo preoccuparsi dell'ingrandimento e dell'unità territoriale italiana; vede giustamente l'attuarsi della rivoluzione nazionale solo nel contatto fiducioso delle grandi masse popolari con lo Stato. È chiaro che per lui «rivoluzione nazionale», in un paese in cui le poche popolazioni industriali erano ancora una eccezione, significava appunto la fusione delle plebi rurali nel grande partito liberale, o meglio, nella vasta corrente politica che era stata, dal '49 in poi, guida all'unità nazionale. Il Nievo rifugge altresì parzialmente dal paternalismo del Partito d Azione verso «il popolo di campagna», comprendendo l'insufficienza dell'impostazione data da quel partito alla questione agraria, e comprendendo che l'educazione delle masse contadine non poteva avere che un unico presupposto: una loro riabilitazione economica capace di legarle agli interessi della borghesia risorgimentale più progressiva, o per lo meno capace di attenuare l'antagonismo tra città e campagna, tra forze urbane e rurali. Ritorna qui in più ampia esposizione un concetto che ci aveva colpito nelle Confessioni. che non è concetto stretto nella contingenza di un momento, ma determinante di tutta la condotta politica di un uomo: nel XIII capitolo, quando Venezia tragicamente si trova «fra due storie», egli dice: «Dei beni perduti si sperava almeno di riacquistarne alcuno; la libertà è preziosa, ma pel popolo bracciante anche la sicurezza del lavoro, anche la pace e l'abbondanza non sono cose da buttarsi via. E’ un difetto grave negli uomini di pretendere le uguali opinioni da un grado diverso di coltura; come è errore massiccio e ramoso nei politici appoggiare sopra questa manchevole pretensione le loro trame, i loro ordinamenti!» Tuttavia, abbiamo detto parzialmente il Nievo rifugge dal paternalismo del Partito d'Azione, poiché, in fondo, dopo aver rivendicata una miglior condizione economica delle plebi contadine, la precedenza della soluzione economica su quella astrattamente educatrice («Mal si insegna l'abbici ad uno che ha fame; mal si presenta l'eguaglianza dei diritti a chi subisce continuamente gli improperi d'un fattore»), la necessità di riconoscere più ampi diritti politici ai ceti poveri («Possibile che nessuna legge elettorale si degni di scendere fino a lui?»), egli pare attribuire a queste plebi rurali una funzione sempre passiva, di ricezione; spetta ai padroni, ai ricchi ai letterati rimuovere le cause dell'antagonismo coi contadini, coi poveri con gli illetterati, cioè l'incuria, l'avarizia, il malo costume, il falso zelo. Non si avverte ancora la possibilità e la necessità che le plebi contadine acquistino la coscienza attiva dei propri diritti civili e sociali. Ma non c'è contraddizione nel pensiero politico del Nievo: perché là dove alla sua domanda: «Siete voi disposti e credete il tempo opportuno e maturo per una rivoluzione sociale che renda l'agiatezza cosa comune nel popolo campagnuolo da togliere la possibilità di ogni discordia, ogni motivo di quell'odio che lo rende avverso a voi, ai vostri costumi, alle vostre opinioni anche giuste, anche sante?» i gruppi politici dominanti gli rispondono: «No! il tempo né è maturo né opportuno», il Nievo allora apre con essi una nuova polemica vivace e serrata quanto la prima. Come nelle Confessioni aveva ben visto che nell'immoto mondo feudale della terraferma veneziana il prete era, al postutto l’unico rappresentante della povera gente, ora li consiglia risolutamente a non lottare contro le opinioni religiose di quel popolo di cui si rimanda l'emancipazione economica e l'immissione come forza intelligente nel vivo dello stato liberale. È chiaro che il Nievo non è convinto della necessità di rimandare: e non ha torto, che l'indefinito procrastinare non è diciamo la soluzione, ma l'inizio della soluzione d'una rinnovata distribuzione fondiaria, fu l'errore di quei liberali italiani che non capirono dover essere il liberalismo sinonimo di benessere e di prosperità, se non voleva dannarsi a una politica illiberale. Preso atto, dunque, amaramente del diniego delle classi dirigenti a un'equa partecipazione economica delle plebi contadine nell'ambito dello stato borghese, il Nievo non propone né una riforma religiosa a cui il popolo non era affatto disposto, né una politica anticlericale e che coinvolgesse tutto il clero dalle sfere più alte e dotate alle più basse e misere, bensì una politica d'appoggio da parte dello Stato liberale al clero povero, al clero campagnolo, solo organo di collegamento, nella situazione di miseria delle plebi rurali, tra esse e la classe dirigente. Non bisogna dimenticare che il Nievo era un lombardo - veneto e come tale ben sapeva quanta importanza era da dare alle forze clericali delle campagne, soprattutto dopo aver visto il pericolo di una politica austriaca in favore dei contadini poveri, quale si venne progettando dal '53 in avanti. Ed egli anche ben conosceva, per lunga consuetudine coi contadini, la miseranda condizione dei maestri comunali, altra piaga italiana che non fu più sanata: non ebbe illusioni su quel punto.
Tra l'opuscolo su Venezia e la libertà d'Italia e questo «frammento» noi sentiamo che l'evoluzione del pensiero risorgimentale del Nievo era giunta a un punto risolutivo, in cui si abbandonavano le istanze più lontane e vaghe di impossibili confederazioni di popoli latini, e si fondava il proprio convincimento sulle concrete esigenze di una ricostruzione nazionale.
La sua insoddisfazione e la sua irrequietudine in quel tempo appaiono anche da questo stralcio di lettera: «Le darò in quattro tocchi la mia biografia passata, presente e quasi anche futura, fui letterato a Milano fino all'aprile, soldato con Garibaldi fino ad ora e d'ora in poi imbecille campagnolo fino a nuovo ordine ». Intanto s'adoprava a far passare al di qua del Mincio gente insofferente del governo austriaco. Trascorse un triste inverno a Milano cominciando il nuovo romanzo, Il Pescatore d'Anime. presto interrotto. «Adesso come si fa ad esser letterati? Bisogna sopportare pazientemente questo periodo di prova; e non sentendosi fatti per immischiarsi nei fatti presenti, aspettare i futuri », scriveva alla madre. I fatti futuri vennero presto. Il 5 maggio 1860 partiva da Quarto sul Lombardo verso la Sicilia. Fu nominato, con l'amico Acerbi mantovano, responsabile dell'intendenza militare della spedizione, compito delicato che Garibaldi gli affidò convinto della serietà e dell'intelligenza del giovane scrittore. Le sue lettere alla madre e alla Bice, dalla Sicilia, sono di una freschezza, di una vivacità mirabili. Aveva ritrovato il buon umore nel combattimento e nella vittoria; e aveva dimostrato un eccezionale coraggio.
Le lettere che di lui e della Bice Melzi d'Eryl, sposa del cugino Carlo Gobio, ci rimangono, non servono a veder chiaro nel loro affetto; gentile, affettuoso, spigliato nello scrivere alla cugina, pare che il Nievo non sia andato oltre un sentimento fatto di ammirazione e di simpatia congeniale, certamente espresso con qualche arditezza. E se invece fu vero e profondo amore, egli seppe nasconderlo da vero gentiluomo quale era. Le lettere alla Bice - come anche quelle alla madre - mostrano una sua rara capacità di comunicare con le donne, non per una inclinazione femminile del suo spirito, ma per una gentilezza nativa, per un gusto di conversazione arguta ed amabile, quasi svago dopo la solitudine del lavoro, cui fu sempre assiduo. Anche le lettere al padre, al fratello Carlo, al cugino Carlo, all'amico Fusinato, ci mostrano come quest'uomo che sapeva vivere solitario per mesi e mesi sui suoi quaderni di romanziere, in muto sodalizio con i suoi personaggi, aveva però bisogno di non perdere contatto con le persone e la vita vera, effondendosi con cordiale e affettuoso animo. E nell'epistolario ritroviamo l'origine e lo sviluppo di tanti motivi che vivono nell'opera maggiore: l'ironia, l'aggraziata caricatura, il senso del tempo e degli uomini nel tempo, l'attenzione arguta alle persone, quel burlarsi di se medesimo che è gusto tutto veneziano; e il raccontare sempre, la necessità cioè di stendere il fatto, l'impressione, la notizia, nel ritmo della narrazione.
Il 2 novembre del '60 fu nominato Intendente di prima classe col grado di colonnello. Nel dicembre ebbe una licenza che passò a Milano, festeggiò il capodanno del '61 con la madre a Fossato. Il 15 febbraio ebbe l'ordine di recarsi a Palermo per raccogliervi carte e documenti della contabilità e portarli a Torino. Pensò di restare poco a Palermo; desiderava tornare in alta Italia presso i suoi familiari e presso la Bice, forse. «Meno male che giovedì o alla più lunga domenica questa vitaccia sarà finita e rivedrò Napoli e Genova e Milano», scriveva il 23 febbraio. Il 4 marzo del 1861 l'Ercole, un vecchio piroscafo della Compagnia calabro - sicula, salpava da Palermo diretto a Napoli, ma per non giungervi mai, schiantato da una tempesta. Fra i passeggeri era Ippolito Nievo che chiudeva così la sua vita nel profondo del mar Tirreno. Da Caprera, nel settembre, Giuseppe Garibaldi scriveva alla famiglia: «Tra i miei compagni d'armi di Lombardia e dell'Italia meridionale, tra i più prodi, io lamento la perdita del colonnello Ippolito Nievo, risparmiato tante volte sui campi di battaglia dal piombo nemico, e morto naufrago nel Tirreno dopo la gloriosa campagna del '60. » Dodici anni più tardi, a Giosuè Carducci, che si proponeva scrivere del Nievo, il compagno d'armi Giuseppe Cesare Abba così (in una lettera rimasta ancora inedita e suggeritami da Pietro Pancrazi) scriveva: « Lo veggo sempre col pensiero, aggirarsi malinconico, cupo, sdegnoso anche nei giorni più lieti di vittoria, fra i giovani che gli furono compagni. Egli era uno di quei pochi, che al grido d'Italia si levarono ritti, e pronti a tutto patire; e forse s'avvedeva che i più non s'erano che destati a mezzo, per dare una voltata sull'altro fianco e riaddormentarsi. Gran perdita ha fatto la patria e la letteratura, quel giorno in cui perivano i naviganti dell' Ercole, ma quel mistero, quella morte, quel lido d'Ischia su cui fu trovato un cadavere che si credé essere stato Nievo, sono un fondo di quadro, che niun poeta poteva immaginare più grande, per collocarvisi e apparire glorioso alla posterità».