ira
È vista per lo più nell'accezione comune di " iracondia ", cioè come uno dei vizii cui l'uomo naturalmente... è disposto - sì come certi per complessione collerica sono ad ira disposti (Cv III VIII 17), e che viene ‛ moderata ' dalla settima delle virtù, la Mansuetudine (IV XVII 5). È sentimento complesso, nel quale coesistono componenti dell'indignazione, o del dispetto, o del dolore o anche dell'odio che l'hanno generato, e che talvolta finiscono col prevalere.
Il tema dell'i. (greco ὀργή) ha trovato ampio spazio nella filosofica greca, da Democrito e Platone (nella partizione dell'anima proposta da quest'ultimo ha un posto riconosciuto l'irascibilità) ad Aristotele (Eth. Nic. IV e Rhet. Il), agli stoici ed epicurei, fino a Plutarco. Le posizioni sono diverse. Aristotele, continuando la tradizione platonica, ammise come naturale e anche utile il sentimento dell'i. e ne condannò gli eccessi (ma forse Teofrasto andò più in là, riconoscendo che l'i. è elemento indispensabile della virtù). Gli stoici, e con loro gli epicurei, ritennero l'i. causa di turbamento dell'animo, e quindi affermarono la necessità e indicarono i mezzi per reprimerla. Nella cultura latina, questo tema ha trovato larga eco: Cicerone nel libro IV delle Tusculane si pone da un punto di vista stoico e condanna l'i.; il De Ira di Seneca ha qualche analogia con la trattazione di Cicerone e parimenti rifiuta qualsiasi riconoscimento di positività all'i.: esso si apre con la descrizione dell'aspetto feroce e bestiale proprio dell'uomo irato e con un'analisi degli effetti che seguono all'ira. Più tardi si colloca il De Ira Dei di Lattanzio, nel quale vengono discusse le varie posizioni emerse dalla tradizione filosofica riguardo alla Provvidenza e all'i., considerate come attributi di Dio e rapportate alla natura divina.
Per uno studio delle occorrenze di i. in D. è necessario tener presente sia la tradizione aristotelica sia la rappresentazione della bestialità dell'i. propria di certa tradizione rifacentesi a Seneca (notevole la diffusione nel sec. XII dell'opera di Seneca: cfr. K.-D. Nothdurft, Studien zum Einfluss Senecas auf die Philosophie und Theologie des zwölften Jahrhunderts, Leida-Colonia 1963), sia, infine, il tema dell'i. di Dio, da rintracciare però più nella tradizione biblica che non in Lattanzio.
Per Aristotele la capacità di soggiacere all'i. è fatto naturale e positivo; non aver i. quando è necessario è proprio di persona non saggia, è segno d'insensibilità e d'incapacità di soffrire per l'offesa ricevuta (Eth. Nic. IV 5, 1126a 6 " videtur autem non sentire neque tristari "). S. Tommaso, interpretando Aristotele, ritiene che il giusto mezzo tra eccesso e difetto d'i. sia la mansuetudine, anche se il nome inclina a designare il difetto d'i., mentre " superabundantia vocatur iracundia [ὀργιλότης] ". Per quanto riguarda l'origine dell'i., Tommaso precisa con Aristotele: " Manifestum est... quod ira causatur ex tristitia. Tristitia autem est sensus nocumenti " (Si legga Boccaccio Dec. IV 3 4 " tra gli altri [vizi] che con più abbandonate redine ne' nostri pericoli ne trasporta, mi pare che l'ira sia quello; la quale niuna altra cosa è che un movimento subito e inconsiderato, da sentita tristitia sospinto, il quale, ogni ragion cacciata e gli occhi della mente avendo di tenebre offuscate, in ferventissimo furore accende l'anima nostra "; ma per il tema della ‛ tristizia ' accidia, cfr. B. Giamboni Il libro dei vizi e delle virtù, a c. di C. Segre, Torino 1968, 51-52). L'eccesso d'i. (iracundia) è disordinato, contro ragione: cfr. Petrarca Rime CCXXXII 12 ss. " Ira è breve furor, e chi nol frena / È furor lungo, che 'l suo possessore / spesso a vergogna, e talor mena a morte " (per cui cfr. Sen. Ira I I 2), e Cavalca Frutti della lingua (Roma 1763, 274): " Perocché come dice il Savio, l'ira impedisce l'animo che non possa vedere la verità. E però ancora dice Sant'Iacopo, che l'ira dell'uomo non adopera la giustizia "; cfr. anche Eccli. 27, 33 " Ira et furor, utraque execrabilia sunt ": l'i. così caratterizzata è quella che D. chiama ira mala.
Secondo la tradizione biblica, l'i. di Dio si accompagna sempre alla giustizia, in quanto si configura spesso come un castigo conseguente alla formulazione di un giusto giudizio da parte di Dio: Eccli. 5, 75 " misericordia enim et ira ab illo cito proximant, et in peccatores respicit ira illius "; Soph. 1, 15 " Dies irae dies illa, dies tribulationis et angustiae ", e 2, 2 " antequam veniat super vos ira furoris Domini "; Paul. Rom. 2, 5 " thesaurizas tibi ira in die irae et revelationis iusti iudicii Dei "; Apoc. 11, 18 " advenit ira tua et tempus mortuorum iudicari " e 15, 1 " in illis [plagis] consummata est ira Dei ". In questo senso si legge in Papias Vocabulista (sub v. ira): " Ira dei aut furor non perturbationem mentis sed vim qua iustissime iudicat universalem creaturam significat ", ma si aggiunge subito: " Est enim motus qui fit in anima quae legem dei novit, cum videt eam a peccatoribus praeteriri... ". Oltre che in Dio, dunque, anche nell'uomo non è sempre vizio: può essere giusta reazione, secondo l'insegnamento aristotelico, a un danno ricevuto, ma può essere ‛ zelo ' di chi ‛ vendica ' l'offesa fatta a Dio (in questo secondo caso, la dottrina aristotelica offre la giustificazione razionale alla tradizione biblica).
Se in qualche caso l'i. è assunta per pura esemplificazione - il Minotauro sé stesso morse, / sì come quei cui l'ira dentro fiacca, If XII 15 -, in altri si esprime con manifestazioni più o meno violente, portando per esempio Esaù e Giacobbe (i due gemelli / che ne la madre ebber l'ira commota, Pd XXXII 69) a ‛ collidere ', a venire alle mani ancor prima di nascere, secondo il racconto biblico (Gen. 25, 21; " si corucciorno insieme ", dice il Buti), o le genti accese in foco d'ira (" nam ira est accensio sanguinis circa cor ", Benvenuto) ad ancider il giovinetto s. Stefano (Pg XV 106), o, ancora, la regina Amata a esser nulla, a togliersi la vita, per non perder Lavina (XVII 36; e v. ancora XX 110, Pd IV 14).
Nell'ambito delle creature (uomini e demoni) è l'ira folle (If XII 49: per le varianti, cfr. Petrocchi, ad l.), " cioè paza e bestiale, la quale è cagione dell'uccisioni che fanno i rubatori " (Boccaccio) e che pertanto è deprecata, con la cieca cupidigia, appunto nel cerchio dei violenti: non per niente, del resto, di uno dei centauri che sorvegliano i dannati di questo cerchio si ricorda proprio l'essere stato pien d'ira (v. 72), e con l'i. finisce addirittura con l'identificarsi il custode stesso del cerchio, il Minotauro, l'ira bestial (v. 33) che le parole perentorie di Virgilio hanno testé ‛ spento ' (anche altrove si allude ai custodi dei cerchi infernali: cfr. VIII 24 per Flegiàs; XXXI 72 per Nembrot, il cui " grido feroce... non può essere che la espressione di uno dei soliti atteggiamenti iracondi, con cui sono stati accolti i due poeti dai guardiani infernali. Ce lo fa capire Virgilio, quando consiglia a Nembrot di sfogarsi col corno quand'ira o altra passion lo tocchi ", ecc. [A. Chiari, citato dal Mattalia]; XXIII 16 per i demoni della bolgia dei barattieri, di cui D. teme l'i. derivante dall'essere scherniti con danno e con beffa). Non diversa da questa è l'i. che ‛ turba ' un poco... nel sembiante Virgilio (XXIII 146), " per lo sdegno conceputo d'aver creduto a la falsità di Malacoda " (Vellutello) e per le parole sarcastiche del frate Catalano (vv. 142-144). Il feroce drudo che simboleggia Filippo il Bello è di sospetto pieno e d'ira crudo (Pg XXXII 157) " per aver la donna volto l'occhio a D. " (Scartazzini-Vandelli); ma v. anche Benvenuto: " idest, crudelis ira, quia volebat facere vindictam de Templariis ".
L'i. è anche, ovviamente, sentimento dei dannati, sia essa la rabbia generica per la condizione cui sono soggetti, che si manifesta nei loro accenti (If III 26), o quella di Niccolò III sdegnato per le parole violente di D. (XIX 119), o quella dei due fratelli Alberti (il loro essere paragonati ai becchi conferisce un che di violentemente bestiale all'i. che li ‛ vince ' " perché non avevano potuto veder Dante ", Buti; cfr. If XXXII 51). E ancora, il termine serve a designare un'intera categoria di peccatori, color cui vinse l'ira (VII 116), puniti nel V cerchio, cui fanno riscontro i pacifici, che son sanz'ira mala esaltati nel Purgatorio (Pg XVII 69; cfr. Matt. 5, 9).
Riferito a Dio, con immagine cui l'origine scritturale acquisisce particolare solennità (cfr. per es. Ps. 77, 31 " ira Dei ascendit super eos "; Ioann. 3, 36; Apoc. 14, 10; ecc.), il termine indica lo " sdegno " di lui offeso dal peccato: ma è concetto che inevitabilmente si lega con quello di ‛ giustizia ', sicché, nell'attesa della sua manifestazione, l'i. diventa dolce: O Segnor mio, quando sarò io lieto / a veder la vendetta [la punizione] che... / fa dolce l'ira tua nel tuo secreto ? (Pg XX 96): " la quale ira, pensando che serrà vendetta, n'è ça dolce " commenta il Lana, cui fa eco il Vellutello: " per esser dolce cosa a' giusti veder punir gl'impij de le sceleraggini loro " (e cfr. Ps. 57, 11 " Laetabitur iustus cum viderit vindictam "; così intendono anche il Mattalia e il Porena).
Appunto richiamandosi al concetto di giustizia - " In Dio non è ira; ma iustizia " - il Buti nota che " l'aspettare che Dio fa, fa dolce la sua iustizia: imperò che in questo appare la sua misericordia ", proponendo un'interpretazione ampiamente seguita dai commentatori successivi: " in secreto sive in arcano consilio Dei fit dulcis ira ipsius Dei, idest placatur ", Serravalle; e così Cesari, Andreoli, Casini-Barbi, Scartazzini-Vandelli, Fallani, ecc.).
Ancora più esplicitamente, tanto da identificarsi con Dio stesso, la giustizia è richiamata nelle parole di Giustiniano: la viva giustizia che mi spira, / li concedette [al sacrosanto segno]... / gloria di far vendetta a la sua ira (Pd VI 90), cioè di placare, con la passione e la morte di Cristo (avvenuta appunto sotto la giurisdizione dell'Impero romano), la " collera " di Dio per il peccato di Adamo; cfr. anche If XXVI 57, dove il termine è di nuovo accostato a vendetta nel senso di " castigo ".
Tale collera - che si concreta in " punizione " nell'occorrenza di Fiore CLXX 6 L'uom che si piace, fa... / grand'orgoglio, e l'ira di Dio attenda - provoca uno stato di " inimicizia " fra Dio e l'uomo peccatore, talché quelli che Dio ha in ira (If XI 74) sono i peccatori che " offenderunt Deum " (Benvenuto), e quelli che muoion ne l'ira di Dio (III 122) " son quegli che... senza riconciliarsi a Dio de' peccati commessi, si muoiono: e diconsi morire nell'ira di Dio, in quanto la sua grazia racquistar non hanno voluto " (Boccaccio).
Con le altre occorrenze si ritorna nell'ambito dell'umano, ma con valori più attenuati e differenti. Così è " forte risentimento ", accentuato dal tono di rimprovero, l'ira (If XXX 133) con cui Virgilio si rivolge a D. che ha visto del tutto fisso ad ascoltare il piato di maestro Adamo e Sinone, mentre è " odio " quello che spinge Azzo VIII a far uccidere Iacopo del Cassero: quel da Esti il fé far, che m'avea in ira / assai più là che dritto non volea (Pg V 77; per il sintagma, v. If XI 74, già citato); più attenuato in Rime CVI 129 dove, riferito alla gente che mira le donne, lo stesso sintagma vale piuttosto " avere in uggia ": così il Contini, che accosta questo passo all'altro di Rime CIV 15 or [le tre donne] sono a tutti in ira [" spiacciono "] ed in non cale.
Particolarmente interessante il passo di If IX 33 la città dolente, / u' non potemo intrare ormai sanz'ira. Il Boccaccio, poi ripreso dal Del Lungo, intende i. " di coloro li quali contrariare n'hanno voluto l'entrata ", cioè dei demoni, mentre altri attribuiscono il sentimento a Virgilio (" iratus ex repulsa ", Benvenuto; Vellutello) e a D., " adirati per lo chiudere della porta " (Anonimo; Landino; Tommaseo), e altri ancora intendono " senza contrasto " (Chimenz), " con le buone " (Casini-Barbi, Torraca, Grabher, ecc.); così anche Scartazzini-Vandelli, che opportunamente collegano questa ira al perch'io m'adiri di Virgilio (VIII 121), che significa " mi addolori ", " mi crucci ", e rimandano alle note del Barbi (in " Bull. " XVIII [1911] 6-7) che fra gli altri esempi, attinti da vari autori, di i. " nel senso di dolore, rammarico, e anche affanno, tormento ", annovera il dantesco La sua [di Amore] vertute, ch'ancide sanz'ira (Rime LIX 5; la sua interpretazione è seguita dal Pazzaglia). " Il Contini intende ‛ senza furore, violenza ': non è lo stesso, ma dall'idea della violenza si può passare a quella del tormento, e quindi venire alla nostra interpretazione " (Barbi-Maggini).
Anche in altri passi delle Rime il Contini attribuisce a i. il valore del " solito provenzalismo, ‛ cruccio ' ": così a proposito dell'uomo che non s'induce a ira per parole (LXXXIII 121; Barbi-Pernicone: " cioè eserciterà la virtù della mansuetudine ", con rinvio a Cv IV XVII 5, già citato) e di D. stesso (d'ira mi coco, XLII 3; ma Barbi-Maggini: " mi struggo... dal dolore, dal rammarico "; così Del Monte). Per un altro passo - Deh ragioniamo insieme un poco, Amore, / e tra'mi d'ira; LX 2 - il " dolore fondo " proposto dal Contini è sulla stessa linea semantica della " tristezza " di Barbi-Maggini e Del Monte; e v. anche la voce DEH RAGIONIAMO INSIEME UN POCO; AMORE.
Personificata, insieme con Malinconia che venne a me con Dolore e Ira per sua compagnia (LXXII 4), i., " per diffuso provenzalismo, valse in antico anche ‛ cordoglio ' " (Contini; cfr. Cino Avegna ched el m'aggia 20 " gioioso 'l cor fòr di corrotto e d'ira ! "); invece, superbia ed ïra che ‛ fuggono ' alla presenza di Beatrice (Vn XXI 2 7) sono " i vizi opposti alla dolcezza, all'umiltà, alla bontà soave " (Barbi-Pernicone; analogamente per XC 8).
Ancora " cruccio ", " tormento " in senso generico, in Fiore CLI 6 Ogni sollazzo m'è oggi lontano, / ma non ira e dolori e gran tormento, e XLVIII 5.
Si notino infine i sintagmi, già tutti visti nel corso della voce. Il più frequente è ‛ avere in i. ' (Rime CVI 129, If XI 74, Pg V 77); ‛ levar d'i. ' è analogo a ‛ trarre d'i. ' (Pd IV 14, Rime LX 2); una volta ricorre ‛ essere in i. ', un'altra ‛ indursi a i. ' (Rime CIV 15 e LXXXIII 121).
Per If XXIV 69 (ad ira come variante di ad ire), cfr. Petrocchi, ad locum.
I. e iracondi in Dante. - Occorre preliminarmente osservare che D. distingue l'ira mala (Pg XVII 69) dal dritto zelo (VIII 83), buon zelo (Pg XXIX 23, Pd XXII 9). È una distinzione già chiaramente espressa da s. Tommaso, per il quale " est laudabilis irae appetitus, et vocatur ira per zelum " nel caso che " aliquis appetat quod secundum ordinem rationis fiat vindicta " (Sum. theol. II II 158 2), mentre " erit appetitus irae vitiosus " se " aliquis appetat quod fiat vindicta qualitercumque contra ordinem rationis " (ibid., e ancora Sent. III 15 2 2 2c).
Il peccato dell'ira mala è diversamente punito e catalogato, secondo una diversa prospettiva morale. Nella prima cantica D. pone gl'iracondi nel quinto cerchio, cioè nella palude Stigia. Vicino a essi, ma non come essi alla superficie, bensì completamente immersi nel pantano, si trovano i colpevoli di un altro peccato: coloro che nella vita terrena furono tristi... / portando dentro accidïoso fummo (If VII 118-126).
Se costoro sono sic et simpliciter gli accidiosi, il rapporto fra le due categorie di peccatori può essere illustrato dai seguenti versi di Brunetto Latini: " In ira nasce e posa / accidia nighittosa: / ché, chi non puote in fretta / fornir la sua vendetta, / né difender cui vole, / l'odio fa come suole, / che sempre monta e cresce / né di mente non li esce; ed è 'n tanto tormento, / che non ha pensamento / di neun ben che sia; / ma tanto si disvia, / che non sa migliorare / né già ben cominciare; / ma croio e nighittoso / è ver Dio glorïoso " (Tesoretto 2683-2698). Ma tra i commentatori c'è stato chi non ha visto un rapporto chiaramente logico, come quello che intercorre altrove tra le categorie dei dannati che scontano la loro pena in modo identico o simile e in uno stesso luogo. Per primo il Daniello ha sostenuto che " accidioso fummo non vuol dir altro che ‛ lenta ira ' "; quindi i peccatori fitti nel limo sarebbero coloro che, covando l'i. dentro di sé, hanno più gravemente peccato. Si verificherebbe pertanto una situazione analoga a quella del primo girone del settimo cerchio, dove chi ha più gravemente peccato è in maggior misura immerso nel sangue bollente del Flegetonte. Mentre, " se... ha posto in questo suo inferno gli accidiosi ", D. " gli pone ove sono gli sciaurati che mai non fur vivi ".
L'interpretazione del Daniello è stata largamente accolta e meglio spiegata col ricorso alla triplice distinzione aristotelica tra gl'iracondi (Eth. Nic. IV 5, 1126a 13 ss.), ripresa da s. Tommaso (ad l., lect. XIII): " Ponit [Aristotele] triplicem speciem superabundantiae in ira. Circa quarum primam dicit quod illi qui dicuntur iracundi, id est prompti ad iram, velociter irascuntur, et etiam personis quibus non oportet et in quibus rebus non oportet et vehementius quam oportet; non tamen multo tempore durat eorum ira, sed velociter ab ea requiescunt... Ad hanc autem speciem irae maxime videntur disponi cholerici propter subtilitatem vel velocitatem cholerae... Secundam speciem ponit ibi ‛ amari autem '. Et dicit quod amari secundum iram dicuntur quorum ira difficile dissolvitur, et diu irascuntur quia retinent iram in corde. Tunc autem eorum ira quiescit, quando retribuunt vindictam pro iniuria illata... Sed si hoc non fiat, scilicet quod non puniant, graviter affliguntur interius, quia non manifestant iram suam... Ad hanc autem speciem superabundantiae maxime videntur dispositi esse melancholici, in quibus impressiones susceptae diu propter humoris grossitiem perseverant. Tertiam speciem ponit ibi ‛ difficiles autem '. Et dicit quod illos dicimus difficiles sive graves qui irascuntur in quibus non oportet et magis quam oportet et pluri tempore quam oportet; et non commutantur ab ira sine hoc quod crucient, vel puniant eos quibus irascuntur. Non enim est in eis diuturnitas irae ex sola retentione, ut possit tempore digeri, sed ex proposito firmato ad puniendum ". Una partizione parallela è in G. Damasceno De Fide orthodoxa, traduz. di Burgundio da Pisa, ediz. E.M. Buytaert, St. Bonaventure, N.Y.-Lovanìo-Paderborn 1955, cap. 30, pp. 122-123.
Alla tesi restrittiva del Daniello, che considera presenti nello Stige solo gl'iracondi, si contrappone quella estensiva formulata per la prima volta da Pietro, secondo la quale accanto agl'iracondi in superficie starebbero i superbi (Filippo Argenti sarebbe un superbo e non un iracondo), mentre fitti nel limo starebbero sia gli accidiosi che gl'invidiosi, anche se questi ultimi non sono specificatamente menzionati. In tal modo fuori della città di Dite verrebbero a essere puniti tutti e sette i peccati capitali.
Dalla scena desolata emerge un solo personaggio: Filippo Argenti, circondato da una folla anonima di accaniti nemici, egli stesso accanito nemico di sé. Ma la sua figura non ha il rilievo dei personaggi danteschi di maggiore spicco; non è minimamente paragonabile a un Farinata, verso il quale il poeta, pur nel duro scontro verbale, dimostra quel certo rispetto, quella certa reverenza che meritano tutti coloro ch'a ben far puoser li 'ngegni (If VI 81). Filippo Argenti sembra posto lì per far risaltare, contro l'ira mala, il giusto sdegno di D., che diventa egli stesso, come non mai nel corso della prima cantica, il protagonista dell'episodio.
Gl'iracondi scontano il loro peccato avvolti dal denso fumo della terza cornice del Purgatorio.
Alla schiera degl'iracondi, che s'inquadra insieme con quella dei superbi e degl'invidiosi nella più generale categoria di chi ama il male del prossimo, appartiene chi per ingiuria par ch'aonti, / sì che si fa de la vendetta ghiotto (Pg XVII 121-122): l'iracundia di cui in XVI 24 è specificata qui dall'indicazione di quei caratteri che sono propri dell'uomo iracondo: prontezza all'i. provocata dall'ingiuria ricevuta, e bramosia della vendetta, nel conseguimento della quale essa si placa.
Un'ulteriore caratterizzazione è in Cv III X 7 l'amico... non paziente ma iracundo a l'ammonizione, dove il termine iracundo designa l'uomo che ha naturale disposizione all'eccesso dell'i. (‛ iracondia ') per la particolare complessione e il conseguente temperamento che contraddistingue ciascuno. Si tratta quindi di un caso di vizio innato, o connaturato (v.). Cfr. il testo citato di s. Tommaso, che riconduce a disposizioni temperamentali le tre specie di superabundantia irae, o ‛ iracondia ', di cui parla Aristotele, e Papias Vocabulista: " Ira praesens est et ex causa nascitur, iracundia vero vitium naturale et perpetuum ", e " Iracundus dictus quod accenso sanguine in furorem compellitur. Ur nam flamma dicitur, et ira in flamma est. Iratus, irae actus, pro tempore concitatus ". Gl'iracondi sono dunque coloro che hanno peccato lasciandosi trascinare all'eccesso d'i. dalla loro natura.
Nel clima morale del Purgatorio manca totalmente ogni esempio di giusto sdegno. Anche qui un solo personaggio si leva dalla schiera dei peccatori, ma non per determinare un contrasto col poeta. Anzi, il penitente che rivolge a D. la sua parola si rivela un saggio, un maestro.
Si rileva subito un rapporto di netto contrasto fra i due episodi. Difficilmente il mondo infernale e quello della redenzione appaiono staccati in modo così totale e netto.
La sola analogia che è possibile cogliere riguarda l'unicità in ambo i casi dell'interlocutore del poeta, e dà l'impressione di un'analogia deliberatamente voluta per far meglio risaltare la fondamentale opposizione delle due prospettive morali, dei due climi poetici e umani.
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