Iran
I primi esempi di cinema giunsero in I. all'inizio del Novecento, introdotti dai fotografi ufficiali della casa reale, che ebbero incarico dallo shāh di documentare l'attività dei sovrani e i riti religiosi per poi proiettare i brevi film ai dignitari di corte, in occasione delle cerimonie ufficiali. Se il primo film girato in I. (ma sviluppato e proiettato solo anni dopo in Russia) si deve a Mehdi Rusi Khan, un fotografo di origine russa che nel 1896 riprese l'incoronazione di Mozzafer al-Din Shah, il primo iraniano a utilizzare una macchina da presa fu Mirza Ebrahim Khan 'Akkas-Bashi, che, al seguito dello shāh Mozzaffer durante un viaggio in Europa, il 18 agosto 1900 girò alcune immagini al mercato dei fiori di Ostenda. Questo film, ritenuto perduto, è stato invece ritrovato nel palazzo Golestan di Teheran, e utilizzato da Mohsen Makhmalbaf nel suo Gozide-ye tasāvir-e dorān-e Qājār (1992, Immagini selezionate dell'era Qajar). Si deve invece all'antiquario Ebrahim Khan Sahhaf Bashi l'apertura nel 1902 della prima sala cinematografica pubblica, un'arena allestita nel cortile del suo negozio prevalentemente a uso dell'alta società di Teheran, cui solo nel 1905 fece seguito l'inaugurazione, per opera dello stesso antiquario, di un vero e proprio cinema, destinato alla proiezione di filmati acquistati in Occidente.
Furono questi gli albori dell'industria cinematografica iraniana che, grazie al notevole favore del pubblico, si sviluppò in una serie di sale cinematografiche sempre meglio attrezzate e che dalla capitale iniziarono lentamente a diffondersi anche nelle province. Un abbozzo d'industria che, del resto, dovette confrontarsi sia con l'opposizione della gerarchia religiosa islamica, sia con l'arretratezza sociale e culturale del Paese. In questo contesto, il primo iraniano a girare, sia pure a uso privato, film di finzione utilizzando familiari e amici fu Khan Bab Khan Mo'tazedi, un ingegnere formatosi a Parigi che aveva lavorato per la Gaumont ed era stato nominato fotografo ufficiale di Reza Khan, il nuovo shāh d'I. che nel 1921, con un colpo di stato, aveva abolito la democrazia parlamentare instauratasi nel Paese in seguito alla rivoluzione del 1909.
A parte i tentativi di Mo'tazedi, la produzione iraniana continuava a essere di carattere documentario, facendo sì che la maggior parte dei film proiettati nelle sale di Teheran fosse di importazione statunitense ed europea. Fu comunque grazie alla collaborazione di Mo'tazedi in qualità di fotografo che nel 1930 venne realizzato il primo film iraniano, muto e in bianco e nero, Ābi va Rābi (Abi e Rabi) di Avanes Ohanian, un armeno che, giunto a Teheran dopo avere studiato all'Accademia cinematografica moscovita, aveva fondato la prima scuola iraniana di cinema. Il film, di cui non si conserva la pellicola, era stato girato da Ohanian con i suoi studenti, ed era costituito da una serie di scenette incentrate su due personaggi comici, uno alto e magro, l'altro basso e grasso. Lo straordinario successo ottenuto spinse il regista a girare nel 1932 un secondo film, Hāji Āqā, aktor-e sinemā (Haji Aqa, attore di cinema), in cui, attraverso la storia di un padre severo e reazionario alle prese con la figlia che studia segretamente recitazione, si stigmatizza il disprezzo per il cinema nutrito negli ambienti religiosi iraniani. Questo film, però, non incontrò il favore del pubblico e Ohanian lasciò il Paese per trasferirsi in India. Non maggiore successo ebbe del resto il tentativo di promuovere una produzione iraniana effettuato da Ebrahim Moradi che, oltre a vedere fallire per difficoltà tecniche la realizzazione del suo primo film, ossia Enteqām-e barādar (1932, La vendetta del fratello), che stava girando sul Mar Caspio, dovette far fronte all'insuccesso di Bolhavas (1933, L'uomo sensuale), in cui, sullo sfondo della modernizzazione in atto nel Paese, vengono contrapposti i valori semplici della vita in un villaggio alla corruzione della città.
Si trattava di produzioni ancora mute, che soffrivano il confronto con i film stranieri, già sonori, dei quali, nel frattempo, il pubblico iraniano aveva imparato ad apprezzare le qualità. I limiti strutturali dell'esigua industria cinematografica iraniana non consentivano sforzi ulteriori; infatti quando nel 1933 venne girato il primo film sonoro in lingua fārsi dal titolo Dokhtar-e Lor (La ragazza Lor) di Ardeshir Irani, fu in realtà prodotto a Bombay e scritto dal poeta iraniano emigrato in India, 'Abdol-Hosein Sepanta, che ne fu anche interprete. Il successo riscosso dal film ‒ un'avventura melodrammatica che contrappone un agente governativo a un bandito, entrambi interessati a una bella cameriera ‒ spinse Sepanta a realizzare sempre in India altri quattro film, ispirati alla letteratura epica: Ferdowsi (1934), biografia del poeta epico iraniano; Shirin va Farhād (1935, Shirin e Farhad), melodrammatica storia d'amore; Chashmhā-ye siāh (1935, Occhi neri), ancora una storia d'amore, ma a sfondo storico, e Leyli va Majnun (1936, Layla e Majnun), sull'unione di due giovani tragicamente contrastata dalle famiglie. Il successo riscosso in patria non fu sufficiente a Sepanta per convincere il governo a concedergli il suo appoggio quando, nel 1936, tornò in I. con il proposito di dare avvio a una moderna produzione cinematografica. La situazione non migliorò negli anni seguenti, che videro anzi gli schermi iraniani sempre più invasi da film stranieri, soprattutto statunitensi, a causa della duplice occupazione del Paese da parte delle truppe alleate anglo-russe.
Fu paradossalmente la pratica sempre più diffusa di doppiare in fārsi i film stranieri a dare, sul finire degli anni Quaranta, una nuova spinta alla produzione nazionale. Uno dei principali artefici fu Esma'il Kushan che, dopo aver ottenuto notevole successo importando in I. film stranieri doppiati in Turchia, nel 1948 fondò nel suo Paese una compagnia di produzione, con la quale realizzò il primo film sonoro girato in I., Tufān-e zendegi (1948, La tempesta della vita) diretto dal famoso attore teatrale Ali Daryabegi. Lo scarso successo del film, un dramma familiare incentrato sulla pratica di combinare i matrimoni, non scoraggiò Kushan, che cominciò così a produrre opere di chiara impronta popolare come la commedia musicale, Variete-ye bahāri (1949, Varietà di primavera), e soprattutto il melodramma, Sharmsār (1950, Vergogna), incontrando il favore del pubblico. Furono i prodromi di un cinema commerciale di produzione iraniana che, con opere di genere (prevalentemente drammi e melodrammi, ma anche commedie, polizieschi e film d'avventura) d'impianto popolare e non di rado ispirate ai grandi successi del cinema occidentale (di cui erano praticamente dei remake non autorizzati), consentì l'avviarsi negli anni Cinquanta e il consolidarsi nei Sessanta di una stagione particolarmente florida, durante la quale le società di produzione si moltiplicarono e il numero dei film prodotti giunse a decuplicarsi. Non mancarono tuttavia registi che tentarono di realizzare un cinema di raffinata qualità artistica e di più autentica pregnanza sociale e culturale. Farrokh Ghaffari, per es., dopo aver studiato cinema a Parigi, rientrò in patria dove realizzò Jonub-e shahr (1958, Il Sud della città), ritratto d'impianto realistico delle difficoltà affrontate da una donna per sopravvivere alla morte del marito; e Shab-e quzi (1964, La notte del gobbo), film a episodi d'ambientazione malavitosa, ispirato ad alcuni racconti delle Mille e una notte, per poi tornare a far parlare di sé solo nel 1976 con lo storico Zanburak (L'artigliere). Come Ghaffari, anche Ebrahim Golestan proveniva dal cinema documentario (Yek ātash, 1961, Un fuoco, e Tappehā-ye Marlik, 1963, Le colline di Marlik) e si fece notare per il realismo di Khesht va ayene (1964, Il mattone e lo specchio) e più tardi per Asrār-e ganj-e darre-ye jenni (1974, I segreti del tesoro della valle dei demoni): opere di grande rigore, che seppero imporsi anche nei festival internazionali, ma che in patria incontrarono l'indifferenza del pubblico e l'ostilità, quando non l'ostracismo, della censura.
La situazione maturò solo sul finire degli anni Sessanta, quando un gruppo di giovani registi, in gran parte formatosi all'estero, si riconobbe nella corrente della Nouvelle vague aprendosi a nuove prospettive sia tematiche sia artistiche. Si formò un movimento che ‒ cogliendo anche il momento propizio offerto dall'atteggiamento più disponibile verso il cinema da parte del governo, a seguito del programma di riforme lanciato dallo shāh nel 1963 ‒ produsse una serie di opere in cui venivano affrontati temi di carattere umano e sociale con verità psicologica e pregnanza figurativa più marcate, anche se spesso costrette a indulgere a un marcato simbolismo per sfuggire alle maglie pur sempre strette della censura. Tra gli autori di rilievo spiccano i nomi di Dariyush Mehrju'i, Mas'ud Kimiya'i, Naser Taqva'i e soprattutto Amir Naderi e Bahram Beyza'i. Laureatosi in filosofia negli Stati Uniti, Mehrju'i esordì con l'eccellente poliziesco Almās-e 33 (1967, Diamante 33), ma si fece notare sia in patria sia all'estero vincendo il premio Fipresci alla Mostra del cinema di Venezia nel 1970 con Gāv (1969, La vacca), sceneggiato con la collaborazio-ne del noto scrittore iraniano Gholam Hosein Sa'edi. Dramma rurale dedicato alla dura vita di un contadino che vede morire una vacca, sua unica fonte di sostentamento, il film fu osteggiato dalla censura, cui non piacque l'immagine del Paese offerta alla platea internazionale. Ciò non impedì a Mehrju'i di realizzare nel 1972 Postchi (Il postino), nel quale, attraverso la storia di un impiegato statale, viene offerto uno spaccato critico delle contraddizioni insite nello sviluppo forzato cui il Paese era sottoposto dal neocolonialismo, e Dāyere-ye minā (1974, Il cerchio azzurro), dedicato al dramma sociale dell'assistenza sanitaria. Kimiya'i si impose con Qeysar (1969), considerato uno dei film più importanti del cinema iraniano, e Khāk (1973, Terra), dedicato al rapporto tra i contadini, i loro campi e i latifondisti, cui seguirono numerosi altri lavori che, forti di una poetica basata sulla rappresentazione dell'emarginazione urbana e sul confronto tra drammi individuali e movimenti di massa, collocarono il regista nel novero degli autori più rappresentativi del periodo, salvo poi trovarlo emarginato nel periodo postrivoluzionario. Taqva'i, già noto per l'attività di documentarista e soprattutto per alcuni cortometraggi, si impose con il lungometraggio d'esordio Ārāmesh dar hozur-e digarān (1972, Calma in presenza di altri), acuta riflessione sulla piaga della corruzione raccontata attraverso il personaggio di un generale dell'esercito, cui seguì un'intensa attività sia nel cinema sia in televisione. Ma furono Naderi e Beyza'i che rappresentarono le più alte possibilità espressive della nouvelle vague iraniana. Naderi concretizzò nelle sue opere un istinto cinematografico puro destinato a rappresentare il destino di lotta e resistenza nella solitudine degli uomini. La sua opera passò da una fase iniziale acutamente realistica caratterizzata da film come Khodā hāfez rafiq (1971, Arrivederci amico) e Tangnā (1973, Il vicolo cieco) a una seconda stagione simbolica e impressionista (Davande, 1985, Il corridore; Āb, bād, khāk, 1987, Acqua, vento, terra). Successivamente si è trasferito negli Stati Uniti dove ha continuato a realizzare opere di notevole valore. Beyza'i, scrittore, studioso, uomo di teatro, tra i principali nomi del cinema iraniano, dopo essersi fatto notare con il cortometraggio Safar (1972, Viaggio), si impose per la capacità di coniugare i temi propri della cultura persiana con uno sguardo cinematograficamente molto intenso e una schietta comunicatività. Tra le sue opere Ragbār (1972, Acquazzone), film d'esordio e affondo realistico sulla vita a Teheran vista attraverso gli occhi di un maestro; Gharibe va me (1975, Lo straniero e la nebbia), ambientato in un piccolo villaggio marino stretto nella morsa dell'intolleranza; Kalāgh (1976, Il corvo), storia di un giornalista che svolge un'inchiesta televisiva su una ragazza scomparsa; e Cherike-ye Tārā (1978, La ballata di Tara), fiaba avventurosa su un'antica spada ereditata da una donna. Beyza'i seppe tenere fede alla propria ispirazione anche dopo la rivoluzione del 1979, come testimonia ampiamente il più tardo Bashu, gharibe-ye kuchek (1988; Bashu, il piccolo straniero), ancora un intenso dramma incentrato sul tema dell'intolleranza vissuto sullo sfondo del conflitto con l'Iraq attraverso il rapporto che si viene a stabilire tra una madre di un villaggio del Nord e un orfano di guerra adottato suo malgrado.
Il fiorire di autori e opere legate al movimento della nouvelle vague, che coincise con il periodo di maggior sviluppo dell'industria cinematografica nazionale (nel 1972 furono prodotti 90 film, erano attive circa 400 sale e gli spettatori superavano i 100 milioni), rappresentò tuttavia un fenomeno marginale nell'ambito della produzione iraniana, la quale rimaneva per il resto dominata da film di genere destinati a un pubblico popolare. Ma l'inflazione galoppante che gravava sul Paese non mancò di far sentire i suoi effetti negativi anche sull'industria cinematografica che, già a partire dal 1976, iniziò a mostrare seri segni di crisi, diminuendo drasticamente la produzione a favore di un nuovo incremento della distribuzione di film stranieri. Gli autori della nouvelle vague (già in gran parte organizzatisi in una cooperativa autonoma, dopo le dimissioni dal sindacato unico dei lavoratori dello spettacolo rassegnate da molti nel 1974 in segno di protesta contro la politica culturale del governo) cercarono di non venire meno al proprio impegno, come testimoniano opere quali Bāgh-e sangi (1976, Il giardino delle pietre) di Parviz Kimiavi, storia di un vecchio fanatico che crea un giardino di pietre da offrire a Dio, e Khāk-e sar be-mohr (1977, La terra sigillata) dell'esordiente Marva Nabili, dramma realista sulla vita di una giovane contadina in un villaggio di rigida fede musulmana. Fu in questo periodo, del resto, che emerse una personalità destinata ad avere un ruolo di rilievo nel cinema iraniano: Abbas Kiarostami. Lavorando inizialmente per l'Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e degli adolescenti, si fece subito notare per la tensione realistica che caratterizzava i suoi lavori realizzati con attori non professionisti. La sua opera seconda, Gozāresh (1977, Il rapporto), introdusse in I. per la prima volta la presa diretta del suono. Ma al suo cinema si deve soprattutto l'intuizione delle possibilità poetiche insite nella semplice raffigurazione dell'universo infantile, che caratterizza le sue opere degli anni Ottanta (Khāne-ye dust kojāst?, 1987, Dov'è la casa del mio amico?) e, in seguito, l'espressione di una limpida estetica dell'interiorità basata sulla rappresentazione della più intima verità della vita in film come Namā-ye nazdik (1990; Close up), Zir-e derakhtān-e zeytun (1994; Sotto gli ulivi) e Ta'm-e-gilāss (1997; Il sapore della ciliegia), tutti approdati con successo nei festival internazionali.
L'infiammarsi della rivolta popolare contro il regime dello shāh e la rivoluzione del 1979, che portò l'I. a divenire una Repubblica islamica guidata dall'āyatollāh Khomeyni, ebbero ripercussioni anche sul cinema, che vide cambiare le prospettive produttive e le libertà artistiche in ragione della repressione esercitata dagli organi di censura imposti dal nuovo regime. In questo clima, se alcuni registi della nouvelle vague preferirono espatriare (F. Ghaffari, E. Golestan, P. Kimiavi, successivamente anche A. Naderi), altri trovarono il modo di adattarsi alle mutate condizioni, dando vita ‒ soprattutto a partire dai tardi anni Ottanta, quando la struttura produttiva si fu nuovamente consolidata ‒ a una nuova stagione del cinema iraniano, prolifica di opere e autori sempre in grado di imporsi all'attenzione della critica internazionale.Superata infatti una prima fase, segnata dal rifiuto del mondo occidentale, in cui s'imposero autori e opere aderenti ai dettami postrivoluzionari (mentre la censura sbloccava e immetteva sul mercato film realizzati prima del 1979), il cinema iraniano trovò una formula produttiva ed espressiva che seppe rigenerare tanto la propria struttura industriale quanto i propri autori. Ristabilito negli anni Novanta un certo equilibrio nei rapporti internazionali, grazie alla politica moderatamen-te riformatrice del nuovo presidente Ali Rafsanjani, eletto nel 1989, e alla scomparsa di Khomeyni, l'I. ha saputo fare del suo cinema un ponte verso il mondo occidentale. Tra gli anni Ottanta e Novanta si è imposto a livello internazionale un gruppo di autori che ha ottenuto premi in tutti i principali festival, tanto da costituire un autentico caso culturale per un Occidente sempre più affascinato da una serie di opere sospese tra realismo metaforico e lirismo metafisico. Tra questi autori si è rivelato particolarmente rappresentativo Mohsen Makhmalbaf, figura prestigiosa all'estero quanto amata dal pubblico in patria. Espressione piena della cultura postrivoluzionaria, questo regista ha saputo modulare il suo cinema su soluzioni sempre più rigorose, andando dal fragore metaforico dei suoi primi successi ‒ Dastforush (1986; L'ambulante) e Baysikelran (1988; Il ciclista) ‒ alla rarefazione estetica dei suoi ultimi, più ambiziosi lavori: Gabbe (1995), Nun va goldun (1995; Pane e fiore), Sokout (1998; Il silenzio), Safar-e Qandahār (2001; Viaggio a Kandahar). Makhmalbaf ha fondato, negli anni Novanta, una scuola di cinema che è anche società di produzione, volta a garantire indipendenza agli autori che vi lavorano. In questo contesto ha esordito la figlia del regista, Samira Makhmalbaf, la quale, dopo Sib (1998; La mela), cronaca del recupero alla vita di due bambine tenute segregate dal padre indigente, ha mostrato di possedere ottime doti con l'intenso Takht-e siāh (2000; Lavagne), parabola altamente figurativa in cui un gruppo di insegnanti vaga di villaggio in villaggio in cerca di allievi cui insegnare a scrivere.In una cinematografia come quella iraniana, in cui certamente le donne non hanno avuto spazio, la presenza della giovane S. Makhmalbaf rappresenta un segno di continuità rispetto a quella ben più consolidata di un'altra regista, Rakhshan Bani-Etemad: attiva nella televisione come assistente dal 1973, sin dal suo esordio con Khāraj az mahdude (1987, Fuori confine), storia di un impiegato che non riesce a consegnare alla polizia il ladro che ha catturato in casa sua, questa autrice ha mostrato di saper coniugare umorismo e dramma lasciando emergere nei toni assurdi delle vicende che racconta un'intelligente analisi dei rapporti di potere. Sempre attenta a cogliere le dinamiche umane in atto negli sfondi suburbani, la Bani-Etemad ha realizzato il suo capolavoro con Nargess (1992, Narciso), ardito melodramma che racconta un triangolo d'amore tra un ladro, una donna fatale e una giovane onesta. Ha quindi confermato l'alto livello della sua ispirazione con Zir-e pust-e shahr (2001, Sotto la pelle della città), intreccio tra sogni di fuga all'estero e bisogno di rassegnazione nel cuore di una famiglia di Teheran.Tra i registi che si sono affermati negli anni Novanta di particolare rilievo Jafar Panahi che, oltre a una serie di cortometraggi, ha realizzato tre film accolti con interesse dalla critica internazionale e premiati nei festival: Bādkonak-e sefid (1995; Il palloncino bianco), Ayne (1997, Lo specchio), Dāyere (2000; Il cerchio), vincitore del Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia, e Babak Payami, che, tornato a Teheran dopo gli studi in Canada, ha esordito con successo nel 1998 con Yek ruz bishtar (2000, Un giorno in più) ‒ storia di un amore segreto raccontata attraversando le strade cittadine ‒ e ha ottenuto riconoscimenti a Venezia con il successivo Rāy-e makhfi (2001; Il voto è segreto), ambientato in una zona sperduta dell'I. nel giorno delle elezioni, seguendo il tragitto di un'addetta alla raccolta delle schede elettorali.
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