Iran
Ey Iran, Ey, Marze Por Gohar («Oh, Iran, nostra terra ingioiellata!»)
L’anno della rivolta e dell’agonia della Repubblica islamica
di Bijan Zarmandili
12 giugno
La proclamazione dei risultati delle elezioni, secondo i quali il presidente uscente Mahmoud Ahmadinejad avrebbe conquistato il 62,6% dei voti, innesca a Teheran e in altre città imponenti manifestazioni di protesta da parte dei sostenitori del candidato conservatore moderato Mir Hossein Mousavi, che chiedono l’annullamento delle consultazioni, denunciando brogli. I moti popolari sono duramente repressi dai Guardiani della rivoluzione.
Una data fondamentale
La trentennale storia della Repubblica islamica iraniana si è svolta con fasi alterne: il caos rivoluzionario caratterizzò la sua nascita nel 1979; nello stesso anno il colpo di mano degli studenti khomeinisti, che occuparono la sede dell’ambasciata statunitense a Teheran, aprì la prolungata e ostentata ostilità nei confronti degli Stati Uniti e provocò anche l’estromissione dell’ala moderata della rivoluzione dal vertice della Repubblica; ci furono poi gli otto anni di guerra con gli Iracheni, seguiti dalle fasi di pragmatismo e di riformismo con l’arrivo di Ali Akbar Hashemi Rafsanjani e di Muhammad Khatami alla presidenza del paese, una lunga esperienza interrotta con i primi quattro anni della presidenza di Mahmoud Ahmadinejad, caratterizzati dal radicalismo e dall’isolamento rispetto alla comunità internazionale.
Mai tuttavia il regime islamico iraniano ha subito una svolta radicale come nel 2009, quando le elezioni presidenziali del 12 giugno si sono trasformate in una resa dei conti violenta, estesa e profonda tra le diverse anime del sistema che con alti e bassi aveva comunque conservato la propria legalità e legittimità presso la maggioranza della popolazione. Il 12 giugno 2009 resta dunque una data fondamentale della recente storia iraniana, da cui inevitabilmente bisogna partire per prospettare ciò che potrà evolversi nelle fasi successive a quell’evento.
La campagna elettorale
La campagna elettorale per le presidenziali del 2009 dura più o meno un mese e mezzo, dall’inizio di maggio al 12 giugno. In quel breve lasso di tempo l’Iran vive alcuni fenomeni inediti nella storia delle sue competizioni elettorali. I candidati sono quattro: Ahmadinejad, che chiede la conferma per un secondo mandato; Mir Hossein Mousavi, che, dopo 20 anni di vita privata, torna alla politica e si candida insieme all’ala moderata dei riformisti con la benedizione e l’appoggio dell’eminenza grigia del regime, Hashemi Rafsanjani, e dell’ex presidente riformista Khatami; quindi Mehdi Karrubi, ex presidente del Majlis, il Parlamento, schierato con i riformisti; infine Mohssen Rezai, ex comandante del corpo dei Pasdaran, sul quale pongono le speranze di successo i conservatori, critici nei confronti della gestione di Ahmadinejad.
Dalle prime battute della campagna elettorale il paese intuisce che la vera battaglia è tra Ahmadinejad e Mousavi. I due, rompendo le precedenti consuetudini elettorali, si confrontano duramente nei dibattiti televisivi, durante i quali si discute e si polemizza su tutti i temi presenti nell’agenda politica – dalla politica economica a quella sociale, dalla questione nucleare alla politica estera – e si capisce che i due candidati, pur restando nel recinto delle regole e delle posizioni di fondo del regime, hanno due visioni diametralmente opposte su ciò che dovrà essere l’Iran dei prossimi quattro anni.
Il primo, Ahmadinejad, insiste nel suo populismo, difendendo gli interessi delle masse povere, anche se nel corso del suo governo non è stato in grado di mantenere le promesse fatte nella precedente campagna elettorale (l’inflazione è ufficialmente intorno al 25%, la disoccupazione, sempre secondo le statistiche ufficiali, è al 30%). Per quello che riguarda la politica estera e quella nucleare, Ahmadinejad lascia intendere che, se ci fossero un dialogo e una prospettiva di negoziato, come ha ipotizzato l’amministrazione di Barack Obama, soltanto lui sarebbe in grado di gestirli nell’interesse nazionale, senza cedimenti e senza vendere il paese a poco prezzo allo straniero, come farebbero i riformisti.
Il secondo, Mousavi, punta invece sui pericoli dell’isolamento in cui ha vissuto il paese durante il governo di Ahmadinejad e stabilisce un nesso tra una politica estera moderata, il dialogo sul nucleare e la possibilità di superare la grave crisi economica che affligge il paese: il dialogo, l’apertura verso l’esterno e la moderazione – dice Mousavi – porterebbero alla revoca delle sanzioni imposte, migliorerebbero le condizioni di vita delle masse popolari e, innanzitutto, rimuoverebbero i pericoli e le minacce di guerra generati dalle posizioni avventuristiche del governo di Ahmadinejad.
Ma le novità riguardano anche gli aspetti esteriori della campagna elettorale del candidato Mousavi: durante i suoi comizi lo segue ovunque la consorte, Zahra Rahnavard, che a sua volta interviene attivamente in difesa dei diritti delle donne, della cultura e dell’arte, trascinando grandi masse di giovani dietro agli slogan lanciati dal marito. La presenza della moglie del candidato Mousavi sulla scena politica, confrontata con la completa assenza delle consorti della totalità dei leader iraniani, irrita i conservatori, ma è accolta con grande entusiasmo dai giovani, dalle donne, dalla società civile e conferisce un segno di cambiamento e di modernità alla competizione elettorale. Poi, c’è il colore verde, l’altra novità nella campagna elettorale di Mousavi: migliaia e migliaia di giovani, vecchi, donne e uomini si vestono di verde, portano sul braccio un nastro verde, si dipingono il volto di verde e coprono gli edifici di bandiere verdi. Mousavi spiega che il verde è il colore della natura, della religione islamica e, insieme al bianco e rosso, è il colore della bandiera nazionale. È nato il movimento verde e l’Iran dei giovani, i due terzi della popolazione, che non hanno ancora superato i 30 anni, vi aderisce con particolare fervore, mentre la stampa vicina ad Ahmadinejad vede in quel movimento qualcosa simile a ciò che è nato nei paesi dell’Est dopo la caduta del comunismo, il movimento arancione, e accusa Mousavi di voler provocare anche in Iran una sorta di rivoluzione di velluto, magari con l’aiuto degli Americani.
Un voto usurpato
Il 12 giugno ci sono file interminabili alle urne sin dalle prime ore del mattino, ancora prima dell’apertura dei seggi. Il voto si prolunga fino alle
24 e dal Ministero dell’Interno fanno sapere che l’affluenza ha superato l’83%: un evento straordinario e senza precedenti. Un’ora dopo la chiusura delle urne, prima Mousavi e poi Ahmadinejad si dichiarano vincitori. All’alba del giorno dopo, il 13 giugno, le agenzie ufficiali iraniane comunicano la netta vittoria di Ahmadinejad, con il 63% dei consensi dell’elettorato. È l’inizio della fine della credibilità delle istituzioni della Repubblica islamica. Le mosse successive della Guida della rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei, contribuiscono a far salire la tensione fino a screditare la stessa legittimità del sistema e ad aprire una crisi drammatica nel regime.
La sera stessa del 13 giugno il supremo leader compare in televisione accanto ad Ahmadinejad per annunciare che la sua vittoria «è una festa per la nazione», ignorando che nel frattempo Mousavi ha contestato la regolarità del voto e ha denunciato i brogli che si sono verificati nel corso delle elezioni. Intanto, scendono nelle piazze diverse migliaia di persone per chiedere la verifica del voto e insieme a loro c’è anche il terzo candidato, Mehdi Karrubi, anche lui critico nei confronti dei responsabili del Ministero dell’Interno incaricati di contare le schede e i voti. Il giorno dopo l’ayatollah Khamenei riceve Mousavi e Karrubi e convoca il Consiglio dei Guardiani, uno dei massimi organi della Repubblica, dando disposizione di riconteggiare i voti. La sua decisione vuole apparire come un gesto di equidistanza, ma poco dopo si viene a sapere che la revisione riguarderà soltanto il 10% delle schede, una percentuale assolutamente insufficiente per la verifica approfondita chiesta dall’opposizione. Da quel momento cominciano a svolgersi manifestazioni oceaniche nelle strade della capitale e nei più importanti centri del paese, manifestazioni che vengono brutalmente represse dai miliziani del corpo paramilitare Basiji. La protesta tuttavia non si ferma e nei giorni successivi ancora milioni di giovani, donne e uomini di tutte le categorie sociali scendono in piazza e questa volta non chiedono più la revisione delle schede, ma il diritto di tornare alle urne. Ci sono ancora violenti scontri con i Basiji e il bilancio delle vittime è pesantissimo: ufficialmente una ventina di morti, ma i testimoni oculari e gli organi dell’opposizione parlano di centinaia e centinaia di vittime, di migliaia di arresti e di un numero imprecisato di scomparsi. Ed ecco la terza mossa dell’ayatollah Khamenei: si presenta alla preghiera di venerdì 19 giugno nell’Università di Teheran e ribadisce la vittoria elettorale di Ahmadinejad, minaccia di reprimere duramente ogni forma di protesta, attribuisce al nemico esterno la responsabilità dei disordini e annuncia la censura di tutti i mezzi di comunicazione, della stampa, innanzi tutto quella dei corrispondenti dei media stranieri, di Internet, dei cellulari e il controllo delle linee telefoniche.
Il netto schieramento del leader supremo con il presidente contestato radicalizza il clima politico e si allarga il fronte dell’opposizione, a cui, in diverse forme e da posizioni differenti, aderiscono i riformisti, quelli dell’area moderata conservatrice, ma soprattutto un numero crescente di influenti ayatollah nelle scuole teologiche delle città sante di Qom e di Mash-had. La frattura con il vertice del regime sembra ormai insanabile. Al di là delle apparenze, chi sono i veri vincitori e chi i vinti all’indomani delle elezioni del 12 giugno? Una riflessione su tale interrogativo è strettamente legata alle prospettive che maturano nel frattempo nel paese. E bisogna di nuovo partire dalla figura della Guida della rivoluzione, l’ayatollah Khamenei, al quale la Costituzione attribuisce il Velayate-e-Faghih, cioè la gestione e il controllo della politica e il diritto di veto sulla totalità delle decisioni che gli organi dello Stato adottano: i tragici avvenimenti postelettorali dicono che Khamenei non è più una figura super partes, come vuole la stessa Costituzione, ma è completamente schierato con Ahmadinejad, il personaggio in questo momento più isolato e più contestato del paese. Khamenei,
non avendo il carisma del suo predecessore, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, il fondatore della Repubblica islamica, ha conquistato la sua legittimità nel corso degli anni mediando tra le diverse anime del regime. In questa occasione, invece, ha rifiutato di mediare, perdendo una notevole porzione del proprio potere, innanzi tutto presso i dignitari della teocrazia sciita, che sono e sono stati fin a questo momento i veri artefici del regime e la sua garanzia di sopravvivenza.
Ma, con argomenti diversi, la questione della perdita di credibilità riguarda anche Mahmoud Ahmadinejad, l’uomo di fiducia del potente corpo dei Pasdaran e l’espressione politica della casta emergente dei militari. La sua vittoria elettorale, imposta con violenza, non è soltanto contestata da milioni di iraniani nelle piazze, ma rischia di non essere più funzionale alle esigenze della casta militarista e al vertice dei Pasdaran. Se nel 2005 Ahmadinejad è arrivato al potere godendo di un consenso ampio della popolazione e degli ambienti delle Forze armate, nel 2009 è un presidente costretto a imporre la propria autorità con l’esercizio della repressione e con la violenza. E ciò, a lungo andare, lo trasforma in un personaggio non più strategicamente funzionale ai bisogni delle forze emergenti e ai poteri forti del regime, ma in una minaccia alla sopravvivenza dello stesso sistema. Khamenei e Ahmadinejad, i due uomini forti del sistema politico, risultano in realtà due personaggi dimezzati, due ostacoli per il regime stesso. Paradossalmente, però, la sopravvivenza della Repubblica islamica in questa fase è un rebus anche per l’opposizione al governo di Ahmadinejad. Il movimento nato intorno a Mousavi durante e dopo le elezioni del 12 giugno ha cominciato con la contestazione del risultato delle votazioni, successivamente ha chiesto il ritorno alle urne e infine ha proposto un referendum popolare per verificare la legittimità del governo di Ahmadinejad. Ma fino a questo momento ha gridato nelle piazze «Morte alla dittatura», ha definito un «colpo di Stato» la falsificazione del voto popolare e si è spinto a criticare l’ayatollah Khamenei e la sua autorità di leader supremo. Mai però ha messo in dubbio l’esistenza stessa del sistema islamico.
La protesta, malgrado la sua drammaticità e la sua ampiezza, è rimasta nel recinto degli ordinamenti sanciti dalla Costituzione della Repubblica. Anzi, una delle critiche più frequenti ad Ahmadinejad e a Khamenei da parte dell’opposizione è di aver violato la Costituzione nel corso delle elezioni.
Il merito di aver gestito il movimento di protesta all’interno del sistema della Repubblica islamica va a Mousavi, a Karrubi, a Khatami e a Rafsanjani, che passo dopo passo si sono adeguati alle richieste della piazza, gestendole con l’obiettivo di farle restare nella legalità del regime islamico. L’interrogativo più insidioso resta però fino a che punto la piazza obbedirà ai leader dell’opposizione. Fino a quando la piazza si limiterà a gridare «Morte alla dittatura» e non «Morte alla Repubblica islamica»?
Quello della sopravvivenza del regime è il tema dibattuto con insistenza anche da parte dei dignitari della Repubblica islamica, dei diversi organi dello Stato, di vari Consigli che hanno il compito di salvaguardare il sistema e proteggerlo dalle insidie. Ma tale questione è anche il motivo essenziale dello scontro tra Khamenei e Rafsanjani, gli unici due esponenti della vecchia guardia khomeinista che occupano funzioni di vertice: il primo come Guida della rivoluzione, il secondo come gestore del Consiglio degli Esperti, l’organo a cui è riservato il compito di eleggere la Guida, ma anche di rimuoverla.
Un rebus per Obama
La crisi iraniana ha anche un’appendice problematica fuori dai confini, in particolare negli Stati Uniti. L’amministrazione di Barack Obama è cominciata con un cambio di strategia nei confronti del dossier riguardante l’Iran, rispetto alla precedente di George W. Bush, basata esclusivamente sull’esercizio di una crescente pressione e sulla minaccia militare. L’Iran è stato il bersaglio preferito dei neoconservatori americani e per quattro anni Bush ha trovato nella persona di Ahmadinejad un avversario che corrispondeva esattamente alle esigenze della sua politica, trasformando la Repubblica islamica nel Nemico dell’Occidente: la corsa al nucleare, le provocatorie minacce contro l’esistenza dello Stato ebraico e una violenta campagna negazionista con la messa in dubbio della realtà storica dell’Olocausto, il sostegno dei nemici più agguerriti d’Israele, gli Hezbollah libanesi e l’organizzazione integralista palestinese Hamas, ma anche il rifiuto di qualsiasi forma di mediazione da parte dei paesi europei, i tradizionali interlocutori della Repubblica islamica, erano i principali argomenti di cui si alimentava la strategia della Casa Bianca per isolare l’Iran e tenerlo sotto pressione.
Barack Obama, sin dalla campagna elettorale, rovescia tale impostazione, proponendo il dialogo come lo strumento più efficace per rimuovere i reali o presunti pericoli che l’Iran rappresenterebbe per la stabilità mediorientale e mondiale. Poi, fin dalle primissime mosse da presidente, fa capire che la sua politica del dialogo con il mondo islamico non è soltanto un mezzo per correggere gli errori della passata amministrazione, per restaurare l’immagine degli Stati Uniti tra i paesi musulmani, ma è soprattutto una esigenza strutturale da cui si parte per costruire i rapporti internazionali del futuro, per ridare agli Stati Uniti il peso e il posto che competono loro nella leadership mondiale e per ristabilire gli equilibri in una delle aree più destabilizzanti del mondo, il Medio Oriente.
La mano tesa di Obama all’Islam non ha precedenti nella storia americana. Mai un presidente statunitense si è speso tanto per sottolineare che nell’Islam esiste il «riconoscimento della nostra comune umanità». Nei primi cinque mesi dal suo arrivo alla Casa Bianca, Obama rilascia un’intervista alla televisione Al Arabiya (26 gennaio); in occasione del Nowruz, il capodanno iraniano, manda un messaggio di auguri al popolo e ai dirigenti della Repubblica islamica (20 marzo); pronuncia un discorso al Parlamento turco ad Ankara (6 aprile) e tiene una conferenza all’Università Al Azhar del Cairo (4 giugno): ovunque un appassionato e forte appello ai musulmani perché uniscano le proprie forze a quelle degli Stati Uniti in un cammino comune verso il futuro. Parla della «nuova era», dice che «l’Islam è parte dell’America», ricorda che il suo stesso nome è accompagnato da Hussein e qualcuno gli rammenta che il suo cognome in farsi vuol dire Ou-ba-ma, «lui con noi». Qualche enfasi eccessiva, alcune forzature nei simboli e un po’ di retorica, ma nelle parole di Obama si può intuire che il presidente americano attribuisce un valore particolare dal punto di vista strategico al mondo islamico. Si capisce che tiene conto del fatto che quel mondo non è composto soltanto da integralisti e da fanatici religiosi, ma è anche un mercato enorme di oltre un miliardo e mezzo di persone, un gigantesco serbatoio di risorse umane e di tecnologie avanzate, di competenze scientifiche, di consapevolezza finanziaria ed economica e di millenaria cultura. Obama dice a chiare lettere che l’Islam non è solo terrorismo, arretratezza e oscurantismo, ma comprende anche la Malaysia, l’Indonesia (il paese più popoloso del mondo islamico), Singapore, paesi tutti che entrano a pieno titolo nell’elenco delle potenze emergenti in Asia. È anche la Turchia, membro della NATO e frontiera del mondo islamico con l’Europa, è Abu Dhabi, ormai uno dei centri nevralgici della finanza mondiale, è l’Egitto, il Marocco ed è lo stesso Iran, un’altra potenza politica emergente in grado di egemonizzare il Medio Oriente e la regione del Golfo Persico.
Nel messaggio di auguri in occasione del capodanno iraniano, rivolgendosi, non solo al popolo, ma anche ai dirigenti iraniani, Obama stabilisce una assoluta novità nell’approccio della Casa Bianca: i veri destinatari di quel messaggio sono gli ayatollah iraniani, e ciò, implicitamente, fa capire che la nuova amministrazione americana non solo non mira a rovesciare il regime islamico, come in passato, ma punta al dialogo con quel regime, capovolgendo la politica praticata per 30 anni da quasi tutti i precedenti presidenti. Ahmadinejad risponde all’invito di Obama in modo sostanzialmente positivo, pur restando l’apertura verso gli Stati Uniti uno dei temi particolarmente problematici per la leadership del paese. L’Iran chiede fatti in seguito alle parole, ma aspetta l’appuntamento elettorale del 12 giugno per definire la sua posizione nei confronti di Obama.
Anche Washington si dispone a compiere atti concreti nella direzione di Teheran e spera di trovare alla conclusione delle presidenziali iraniane un interlocutore solido e affidabile per iniziare il negoziato. Ma quello che accade in Iran all’indomani delle presidenziali rende difficile qualsiasi iniziativa americana e l’unica decisione praticabile sembra quella di non decidere. Al G8 all’Aquila il club delle potenze mondiali tentenna infatti nel condannare in modo inequivocabile l’andamento delle elezioni iraniane, esprime sdegno per la repressione contro l’opposizione, ma non chiude la porta al dialogo. Per quanto riguarda il nucleare, poi, in mancanza di un negoziato serio da parte di Teheran, si prospettano nuove sanzioni pur con la consapevolezza che ulteriori limitazioni economiche contro un paese già fortemente e drammaticamente in difficoltà per le ridottissime entrate petrolifere saranno mal sopportate dal governo.
La cautela di Barack Obama nei confronti dell’Iran non si spiega tuttavia soltanto con la nuova strategia adottata dall’amministrazione americana. La questione iraniana fa parte di un disegno più ampio e comprende per lo meno altri tre fattori: l’uscita delle truppe americane dall’Iraq, l’offensiva della NATO in Afghanistan contro l’avanzata dei Talebani e la sicurezza dello Stato d’Israele. In questi tre campi il ruolo e il peso della Repubblica islamica non possono essere trascurati e l’America di Obama non può permettersi il ritiro dall’Iraq, la guerra contro gli studenti coranici in Afghanistan e l’imposizione a Israele della soluzione dei due Stati, uno israeliano e l’altro palestinese, senza un serio negoziato con Teheran. Nel 2009, il rebus dei rapporti Iran-USA raggiunge quindi il suo momento più ingarbugliato e più complesso. La politica iraniana della Casa Bianca è strettamente legata sia alla evoluzione della crisi interna della Repubblica islamica sia agli sviluppi della crisi nella regione mediorientale, compresa quella afghana. Ma ciò vale anche per la leadership iraniana, che non può più giustificare il suo radicalismo nella politica estera con l’assenza di un interlocutore in Occidente, con la presenza di un presidente guerrafondaio alla Casa Bianca, con la politica aggressiva di Washington nei propri confronti, con le minacce d’interventi militari provenienti dal Pentagono e con piani del Dipartimento di Stato e della CIA per rovesciare il regime in Iran. Più di una volta nel corso della crisi elettorale in Iran Ahmadinejad e Khamenei cercano di tirare in ballo Obama e attribuirgli gli stessi intenti di Bush nei confronti dell’Iran: «Obama è uguale a Bush», dicono, ma le loro accuse questa volta non trovano alcun riscontro nella realtà dei fatti; l’amministrazione di Obama si rifiuta rigorosamente di intervenire nel conflitto politico in atto nella Repubblica islamica, mostrando una rigida equidistanza tra conservatori e riformisti, e continua a sostenere che per gli Stati Uniti resta comunque valida l’opzione negoziale e diplomatica per risolvere il dossier nucleare e rimuovere l’insieme degli ostacoli che hanno impedito la normalizzazione delle relazioni fra i due paesi. Ma c’è da domandarsi se l’avvento di un presidente filoislamico, propenso al dialogo, in qualche modo abbia sollecitato le masse iraniane alla rivolta, se il movimento verde in Iran si sia riconosciuto nella strategia di Obama. Se Bush aveva sperato di rovesciare il regime iraniano con le minacce, Obama è a un passo dall’ottenere lo stesso risultato con l’offerta del dialogo? Probabilmente la risposta a tali interrogativi è negativa, anche se la prospettiva di un processo negoziale con gli Stati Uniti comunque accende un duro dibattito in seno alla classe dirigente della Repubblica islamica e il presidente americano, contrariamente ai suoi predecessori, gode di una certa simpatia presso l’opinione pubblica. Il piano per riconfermare Ahmadinejad alla presidenza e fargli vincere un secondo mandato era pronto molto tempo prima della candidatura di Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Sin dal 2008 si parlava in Iran della costituzione di un partito virtuale, il ‘Partito Padegani’, il partito dei militari incaricato di presidiare il terreno in vista delle elezioni del 12 giugno 2009. Al Padegani aderivano buona parte del corpo dei Pasdaran e dei Basiji, ma anche alcuni ayatollah ultraconservatori e ovviamente lo stesso Ahmadinejad. L’esistenza di quel partito, implicitamente presente a tutti i livelli della vita politica iraniana, era stata denunciata più volte da Khatami e da Karrubi. Il partito aveva da tempo mobilitato centinaia di migliaia di volontari Basiji per preparare il successo di Ahmadinejad e il comandante dei Pasdaran, il generale Mohammad Ali Jafari, aveva esplicitamente minacciato di far intervenire le sue truppe nel caso alla presidenza della Repubblica fosse nominato un riformista: «Nella Repubblica islamica di oggi esiste l’eventualità che chi arriva a governare non abbia l’autorità per svolgere quel ruolo», aveva detto il generali Jafari il 26 dicembre 2008 nella sede dell’ex ambasciata americana a Teheran, occupata 28 anni prima dagli studenti seguaci della linea dell’imam Khomeini. «In quel caso – aveva minacciato – ancora una volta saranno determinanti il ruolo dei giovani, la loro mobilitazione e la loro funzione chiarificatrice. Se sarà necessario organizzeremo un altro 13 aban», cioè un altro colpo clamoroso come quello del 4 novembre 1979, che fu risolutivo nel rovesciare il governo di Mahdi Bazargan, il primo costituito nella Repubblica islamica al ritorno dell’ayatollah Khomeni a Teheran.
L’incognita della guerra
All’inizio del 2009, con l’arrivo di Obama alla presidenza degli Stati Uniti e la sua apertura verso l’Iran, sono cadute drasticamente le probabilità di un attacco militare americano contro la Repubblica islamica con l’obiettivo di costringerla a più miti consigli e all’abbandono del nucleare. L’amministrazione di George W. Bush conosceva e temeva le conseguenze di una guerra contro l’Iran, ma non aveva desistito dalle minacce e non aveva rinunciato a mettere a punto diversi piani d’attacco, aggiornandoli periodicamente in modo plateale e usandoli come pressione psicologica sulla leadership iraniana. Ancora più deciso sembrava Israele, che, con il consenso implicito di Bush, mostrava la stessa intenzione e cercava di convincere l’alleato americano dell’inevitabilità di tale soluzione, ingigantendo la pericolosità delle attività nei siti nucleari dell’Iran e l’avvicinarsi della data della fabbricazione della bomba atomica degli ayatollah. Obama rivede la strategia di Bush, ma in Israele nel frattempo si insedia un governo di destra presieduto dal leader del Likud, Benjamin Netanyahu, con l’ultraconservatore Avigdor Lieberman a capo della diplomazia. Lunedì 18 maggio Netanyahu incontra Obama alla Casa Bianca e nei colloqui tra i due emerge un dissenso sostanziale sulla tattica da adottare nei confronti dell’Iran. Ma il premier israeliano riesce comunque a ottenere una data certa per valutare le vere intenzioni di Teheran: il dicembre 2009. Dopo questo termine, se l’Iran rimarrà sulle sue posizioni e non congelerà i piani nucleari, l’America rivedrà la strategia basata sul dialogo negoziale e Israele si sentirà più libero di prendere decisioni autonome per rimuovere i pericoli provenienti dalla Repubblica islamica. Ma siamo a quasi un mese dalle elezioni presidenziali in Iran e nessuno, neppure Netanyahu, può prevedere la grave crisi politica che tali elezioni provocheranno. Intanto, il governo israeliano, neanche troppo discretamente, tifa per Ahmadinejad, sperando in una vittoria degli oltranzisti del regime, notoriamente ostili a qualsiasi dialogo con gli Stati Uniti. Netanyahu preferisce infatti la riconferma di un falco a Teheran e spera che le prospettive del dialogo USA-Iran siano bloccate. Presso il governo israeliano comincia così a prendere di nuovo quota l’opzione militare contro l’Iran. Le minacce di blitz militari per distruggere i siti nucleari iraniani sono poi rafforzate dalla constatazione di un indebolimento delle posizioni iraniane nella comunità internazionale a causa della brutalità della repressione in atto e dalla violenta litigiosità che caratterizza la vita politica del regime iraniano. La frattura profonda al vertice fa aumentare la sua vulnerabilità e conseguentemente lascia spazio al pensiero che sarebbe sufficiente un solo colpo per distruggerlo. Cresce insomma la stessa tentazione che nel 1980 aveva spinto Saddam Hussein a invadere l’Iran, con il convincimento che il caos rivoluzionario, la disgregazione delle Forze armate e l’isolamento del khomeinismo in seguito alla presa degli ostaggi nell’ambasciata statunitense di Teheran avrebbero facilitato il compito di mettere in poco tempo in ginocchio la Repubblica islamica. Quei calcoli di Saddam, di cui era stata convinta anche la quasi totalità dei paesi occidentali, risultarono completamente errati e la devastante guerra Iran-Iraq durò otto anni grazie soprattutto all’orgoglio nazionalistico degli Iraniani che si mobilitarono in massa per difendere il paese.
L’Iran del 2009 è tuttavia assai differente rispetto a quello del 1980. È dotato di un esercito ben organizzato e di armamenti temibili, in grado di destabilizzare e infiammare l’intera regione. Nessuna opzione militare potrebbe quindi prendere
in considerazione l’invasione di porzioni del territorio iraniano impiegando truppe di terra. I piani bellici contro l’Iran prevedono raid aerei in profondità contro bersagli strategici, come i siti militari e nucleari, le caserme dei Pasdaran, le installazioni petrolifere e i palazzi del governo, in modo di piegare la resistenza in breve tempo e costringere il regime alla capitolazione, magari con l’aiuto della sollevazione delle masse popolari in loco. Uno scenario vagamente simile a quello che fu in una prima fase disegnato per la caduta del regime di Saddam Hussein in Iraq. Ma si tratta di una prospettiva puramente teorica, se non di fantapolitica, di cui sono consapevoli gli stessi Americani che in più occasioni hanno fatto sapere a Israele di non contare sul sostegno degli Stati Uniti in caso di guerra contro l’Iran, anche se Washington dichiara che Israele «è un paese sovrano e può decidere come meglio assicurare la propria sicurezza». L’America di Obama è persuasa del carattere avventuristico di una eventuale guerra contro l’Iran, ma nello stesso tempo fornisce un ombrello protettivo ai paesi arabi del Golfo Persico e aiuta Israele a potenziare la sua difesa. All’origine delle preoccupazioni nell’amministrazione americana ci sono le pressioni costanti dei paesi arabi sunniti che temono una Repubblica islamica egemone nella regione del Golfo Persico e del Medio Oriente. Infatti non è solo Israele a vedere nell’Iran un insidioso nemico, ma anche l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Giordania e diversi altri paesi arabi del Golfo avvertono che la crescita del peso strategico dell’Iran nella regione costituisce una seria minaccia per i precari equilibri dell’area. Anche la prospettiva del dialogo tra gli Stati Uniti e l’Iran è vista con preoccupazione da questi paesi, timorosi che l’avvicinamento tra Washington e Teheran possa rovesciare le relazioni geopolitiche e geostrategiche fin qui rette sull’alleanza degli arabi filoamericani e sull’isolamento della Repubblica islamica. Da questo punto di vista, i quattro anni della presidenza di Ahmadinejad sono stati anni di grandi ansie nella maggior parte delle capitali arabe, in particolare in quelle in cui è al potere la maggioranza sunnita, come in Arabia Saudita. La presenza di una maggioranza sciita in Iraq, tradizionalmente vicina alla teocrazia sciita iraniana, ma anche gli stretti rapporti di amicizia e di soccorso reciproco tra l’Iran e gli Hezbollah libanesi, hanno fatto crescere il timore che la leadership iraniana stia maturando l’ambizione di una sorta d’Internazionale sciita da inserire nel mondo islamico da posizioni egemoniche. La guerra degli Hezbollah libanesi contro Israele nel luglio e agosto del 2006 ha convinto non solo Israele, ma anche l’Egitto, la Giordania e l’Arabia Saudita, che la Repubblica islamica è ormai in grado di raggiungere virtualmente i confini israeliani e arabi attraverso le milizie sciite libanesi. L’unico paese arabo da sempre alleato dell’Iran, sin dai tempi della guerra irachena contro l’Iran, è la Siria, ma anche l’asse Teheran-Damasco viene percepito come l’estensione dell’egemonia iraniana nel Medio Oriente.
Conclusioni
La complessità del caso iraniano deriva dalla sua posizione geopolitica, ma anche dalla capacità di questo paese di trasformarsi rapidamente in una potenza regionale, egemonizzando alcuni territori limitrofi, come l’Iraq e l’Afghanistan. Le incertezze sul futuro dell’Iran provengono tuttavia da fattori quasi esclusivamente interni, a cominciare dalla sua democrazia incompleta, dimostratasi nel corso del 2009 bloccata dai limiti posti dalla sua Costituzione – basata sull’autorità indiscussa del leader supremo, la Guida della rivoluzione – e soprattutto dai mutamenti della geografia politica interna. Negli ultimi anni questa si è infatti trasformata, con la comparsa sulla scena di una forza emergente e totalizzante, quella dei militari e dei Pasdaran, destinata a un confronto conflittuale con la casta tradizionalmente presente, la teocrazia sciita che per 30 anni ha egemonizzato e controllato la Repubblica islamica. Il 2009 è stato l’anno in cui l’insieme di tali contraddizioni è emerso in modo estremamente drammatico e dirompente, ponendo un interrogativo pesante sul futuro e sulla sopravvivenza del sistema nato con la rivoluzione khomeinista del 1979 e ora giunto probabilmente al suo epilogo.
Dalla conquista araba ad Ahmadinejad
L’islamizzazione della Persia
L’invasione araba, cominciata nel 632 subito dopo la morte di Maometto, spazzò via in pochi anni l’Impero sasanide, che aveva dominato per quattro secoli e aveva raggiunto gradi elevati di splendore culturale, aprendo la Persia agli influssi dell’India e della Cina da una parte e a quelli della filosofia e della scienza ellenistiche dall’altra. L’inatteso e violento urto degli Arabi non distrusse solo l’Impero; modificò tutta la società e la vita spirituale, segnando profondamente la cultura persiana. La religione zoroastriana, restaurata dai Sasanidi ed eretta a religione di Stato, monopolio della casta sacerdotale, fu tollerata dai nuovi conquistatori, ma decadde rapidamente di fronte all’intensiva opera di islamizzazione, riducendosi in un paio di secoli a essere praticata da una piccola minoranza. Non si può parlare di conversione violenta, ma della genuina forza attrattiva di una nuova fede, aiutata da motivi economici e sociali che si riassumevano nel desiderio delle popolazioni iraniche di acquistare la piena cittadinanza, almeno teorica, nel nuovo Stato, abbracciando la religione dei vincitori. L’Islam permeò profondamente il popolo persiano, ricevendone in cambio influssi e reazioni che si fecero sentire a partire dalle generazioni successive alla conquista, le quali, assimilando ed elaborando con l’apporto di elementi della propria tradizione il primitivo nucleo dell’Islam arabo, ne promossero gli sviluppi religiosi, giuridici e culturali, creando quegli aspetti della civiltà musulmana che le dovevano essere caratteristici per tutto il Medioevo, non diversamente da quanto si verificò in altri paesi di antica cultura islamizzatisi, come la Siria, l’Egitto, la Spagna. Sul piano politico-militare, la conquista araba può dirsi terminata già verso il 650, salvo che per alcune zone impervie del litorale caspico. La Persia fu per quasi due secoli una provincia dell’Impero dei califfi, marca di frontiera per l’ulteriore espansione verso est. Ma rivalità tribali arabe e fermenti nazionali e sociali iranici, al servizio di ambizioni dinastiche, fecero esplodere, verso la metà dell’8° secolo, dalla provincia di frontiera del Khorasan, la rivoluzione che abbatté il califfato degli Omayyadi (661-750) e vi sostituì quello degli Abbasidi (750-1258), arabi anch’essi (e imparentati anzi ancor più strettamente degli Omayyadi con il Profeta) ma appoggiati a forze militari e civili in buona parte iraniche. Pochi decenni dopo si cominciarono a formare nella Persia di nord-est (Khorasan e Transoxiana) quelle autonome dinastie periferiche con cui inizia lo sfaldamento del califfato islamico unitario. La più importante fu quella puramente iranica dei Samanidi (10° secolo), con capitale Buchara, che svolse una parte primaria per la resurrezione della coscienza nazionale e culturale persiana, sia pure entro il quadro ormai immutabile della civiltà musulmana. Ai Samanidi successero i Gasnavidi (10°-11° secolo), turchi di stirpe ma culturalmente iranizzati. E turchi furono i Selgiuchidi, il cui avvento, a metà dell’11° secolo, ricreò un grande Stato unitario nelle province orientali del califfato che si protrasse fino alla metà del 12° secolo. Il dominio selgiuchide caratterizzò un periodo di grande floridezza economica e di rigoglio culturale per la Persia islamizzata, grazie soprattutto all’opera dei primi sovrani della dinastia, i Grandi Selgiuchidi (Tughril Beg, Alp Arslan, Malikshah), interessati non solo alla conquista ma anche alla prosperità e alla pacifica organizzazione del paese, incentrata saggiamente su elementi arabo-persiani indigeni, secondo i precetti del Libro di governo, scritto dal grande visir Nizam al-Mulk per i sovrani turchi. Ciò nondimeno, il secolo selgiuchide consacrò lo stabilirsi dell’egemonia etnica turca sull’elemento arabo nelle regioni orientali del mondo musulmano e, in seno all’islamismo, segnò il consolidamento dell’ortodossia sunnita contro i moti sciiti che avevano trionfato in Egitto con i Fatimidi, estendendosi da lì anche nei territori dell’Iran. Qui una forma di sciismo estremista, caratterizzato da un complicato sistema gnostico in cui riaffioravano motivi religiosi e nazionalisti iranici, animò la setta clandestina degli Ismailiti (noti in Occidente come Assassini, dal termine arabo Hashishiyya, «dediti all’hashish»), la cui azione di terrorismo politico mise a dura prova la stabilità del potere dei Selgiuchidi. Lo Stato selgiuchide cadde sotto i colpi dei sultani di Transoxiana, ma anche questi furono travolti ben presto dalla turbinosa conquista dei Mongoli di Gengis khan. L’impatto delle orde mongole fu traumatico. A partire dall’invasione araba, i cambiamenti dinastici erano avvenuti per opera di tribù e dinastie, anche se di recente conversione, del tutto islamizzate e partecipi della cultura e della civiltà musulmane; i nuovi invasori pagani invece si comportarono nei primi anni come su terre di conquista e l’evento causò perdite incalcolabili di vite e di beni nelle province persiane. Poi anche i nomadi furono assimilati dalla civiltà islamica. Lo stesso nipote di Genghis khan, Hulagu, fondatore della dinastia degli Ilkhan (1256-1349) stabilitasi su Persia e Mesopotamia, pur rimasto pagano, guardò con favore alla civiltà e alla cultura islamiche. I successori di Hulagu si islamizzarono nella religione e si persianizzarono nella lingua e nella cultura; inoltre riedificarono e dotarono quelle istituzioni religioso-sociali caratteristiche della civiltà islamica, come moschee, cappelle, madrase e ospedali, che nella prima invasione erano andate largamente distrutte. Estinti gli Ilkhan alla metà del 14° secolo, dopo alcuni decenni in cui il paese fu di nuovo frazionato in dinastie minori, un’altra invasione mongola, quella di Timur, si abbatté sulla Persia; sanguinosa anch’essa nella immediata conquista, ma assai meno feroce nella distruzione e ancor più pronta ad assimilarsi alla civiltà dei territori occupati. Ai Timuridi (1369-1494) successe un nuovo periodo di anarchia, con frazionamento territoriale della Persia. Ma proprio mentre il paese ricadeva in uno di quei periodi di caos sanguinoso divenuti triste prerogativa della sua storia, sorgeva nell’Azerbaigian una potenza destinata a ricostituire, per la prima volta dopo secoli, tutto l’Iran in unità nazionale. Tale riunificazione fu avviata ai primi del 16° secolo sotto i Safavidi, il cui regno inaugurò la storia moderna della Persia.
Dai Safavidi ai Cagiari
Fondatore della dinastia safavide fu Ismail (1483-1524), discendente dello shaikh Safi ad-Din, eponimo della dinastia, che aveva acquistato nella sua città, Ardabil, e in buona parte dell’Azerbaigian grande autorità religiosa e morale, presto divenuta anche politica. In una serie di fortunate campagne verso oriente Ismail riuscì a conquistare un territorio coincidente all’incirca con quello su cui mille anni prima si era esteso l’Impero sasanide. Su tutto questo territorio Ismail e i suoi successori, che vantavano come titolo di legittimità la discendenza dagli imam sciiti arabi, introdussero per la prima volta come religione di Stato l’eresia musulmana dello sciismo, che aveva sempre avuto radici in Persia ma mai fino ad allora aveva goduto di una posizione ufficialmente dominante. La rivalità religiosa veniva così ad aggiungersi, giustificandola, alla rivalità politica con la potenza confinante di occidente, la Turchia ottomana sunnita. Il dominio safavide sulla Persia durò per più di due secoli (1502-1736), che rappresentarono per la nazione un periodo di floridezza politica, economica e culturale quale da tempo non aveva più raggiunto. Sotto il quarto successore di Ismail, Abbas I (1587-1629), che, sconfitti gli Ottomani, conquistò tutto il territorio fino a Baghdad, la potenza e lo splendore dei Safavidi giunsero all’apogeo. All’interno, Abbas provvide alla sicurezza pubblica, riorganizzò l’esercito, riformò profondamente la burocrazia e favorì il commercio e le comunicazioni con l’apertura di strade, ponti e altre opere pubbliche; fece di Isfahan, eletta a capitale, una grande e popolosa metropoli e durante il suo regno si ebbe una nuova, splendida fioritura artistica e monumentale. Sotto i suoi successori i confini dell’Impero si restrinsero per la perdita definitiva della Mesopotamia, conquistata nel 1638 dai Turchi di Murad IV. I conflitti per la successione costituirono il principale punto debole della monarchia safavide. Alla fragilità politica dei successori di Abbas fece da controcanto la crescita di potere dei dignitari religiosi, cui l’intento di fare dello sciismo la religione di Stato aveva attribuito un’influenza determinante.
La fine dell’Impero safavide cominciò quando Isfahan, dopo un lungo assedio, nel 1722 cedette a invasori afghani. Mentre per la Persia si riapriva la dolorosa via dell’anarchia, della crisi furono pronti a trarre profitto gli Ottomani, rinnovando la minaccia da occidente. A impedire la dissoluzione del regno intervenne un avventuriero sunnita del Khorasan, Nadir Shah, che ricacciò gli Afghani, sostenendo le pretese legittimistiche della vecchia dinastia, per poi imporre il suo potere personale alla scomparsa dell’ultimo erede safavide. Negli anni che durò il suo regno (1736-47), Nadir Shah tentò il riavvicinamento tra Persiani e Ottomani, ma fallì sostanzialmente nell’intento di ricondurre il paese all’ortodossia sunnita, o di attenuare almeno l’estremismo sciita. La sua uccisione in una congiura di palazzo portò, dopo una fase di inevitabili disordini, all’effimero regno della dinastia Zand, il cui primo e maggiore rappresentante, Karim Khan, governò come reggente tra il 1750 e il 1779. Dalla guerra civile scatenatasi alla morte di Karim Khan, riuscì vittorioso Aqa Muhammad Khan, capo della tribù turcomanna dei Cagiari, che espandendosi dal suo centro in Astarabad finì con l’impadronirsi di tutto il paese. La conquista, condotta con energia impressionante, fu ufficialmente intrapresa da Muhammad Khan nel 1786, allorché a Teheran, dichiarata sua capitale, assunse il titolo di scià, e virtualmente compiuta nel 1794, con la cattura a tradimento e l’uccisione dell’ultimo sovrano zand. La dinastia cagiara, che si mantenne al potere fino al 1925, non fu pienamente riconosciuta dalle altre realtà tribali, che costituivano ancora il perno sociale del paese, e si caratterizzò pertanto come un regime di oppressione politica pronto a spegnere nel terrore ogni velleità di rivolta, mentre sul piano economico cedette al controllo europeo parti cospicue del territorio nazionale e lo sfruttamento delle più importanti risorse del paese. Agli inizi dell’età cagiara risale infatti la penetrazione russa e inglese nel territorio persiano: in seguito a successivi trattati, la Russia si annetté le province transcaucasiche e buona parte dell’Azerbaigian, mentre alla Gran Bretagna andarono importanti concessioni economiche (è del 1901 la prima concessione di petrolio). Il lungo regno di Nasir ad-Din Shah (1848-96) segnò un periodo di decadenza del paese, ma vide anche i primi accenni di risveglio nazionale grazie all’opera di un’élite di intellettuali, religiosi e laici, che tra la fine del 19° e i primi del 20° secolo cercò di ottenere una Costituzione e di mantenere intatte le risorse del paese. Il disagio economico, l’instabile situazione politica dinanzi all’avanzata russa in Asia centrale, il diffondersi per quanto lento delle idee occidentali attraverso i Persiani all’estero e i contemporanei eventi nel vicino oriente turco ed egiziano condussero verso una crisi che il sovrano non giunse a prevedere. Nasir ad-Din Shah fu assassinato da un fanatico panislamista il 1° maggio 1896. Sotto il regno del figlio la crisi finanziaria e politica divenne così acuta che le richieste di una soluzione costituzionale si fecero dal 1905 sempre più forti. La vittoria finale sulle resistenze assolutistiche degli scià cagiari fu frustrata dallo scoppio della Prima guerra mondiale, durante la quale la neutralità del paese fu violata senza alcun riguardo da entrambe le parti belligeranti. Il paese visse quattro anni nella più completa anarchia, tra operazioni di truppe regolari belligeranti e di irregolari locali da questi assoldati, in un quadro reso ancor più complicato dal brigantaggio tribale che prendeva le parti ora di questa ora di quella potenza europea. La conclusione della pace salvò la Persia da smembramenti e dal protettorato inglese, prospettatosi in un primo momento, così come la Rivoluzione russa la liberò dall’incubo dell’imperialismo zarista. Ma la svolta decisiva si ebbe solo nel febbraio 1921 con l’approdo sulla scena politica di un ufficiale nativo del Mazandaran, Reza Pahlavi, noto come Reza Khan, che marciò alla testa della sua brigata di cosacchi persiani su Teheran e riuscì a stabilirvi un governo nazionalista. Come ministro della Guerra prima e primo ministro poi, Reza Khan si impegnò soprattutto alla formazione di un esercito a lui fedele e al ristabilimento dell’ordine; la sua azione politica culminò nel 1925 con la deposizione dell’ultimo scià cagiaro e l’assunzione piena della sovranità. Il 25 aprile 1926 il nuovo scià assumeva la corona, che una modifica alla Costituzione dichiarava ereditaria nella sua famiglia.
Ascesa e caduta della dinastia Pahlavi
Gli inizi dell’era Pahlavi si svolsero nel segno di un duro ma illuminato assolutismo, inteso ad avviare un impegnativo processo di modernizzazione tecnica e culturale del paese. Sul piano internazionale, fu stipulata una serie di trattati di amicizia e di garanzia, al fine di rendere stabili le frontiere e creare un equilibrio fra i paesi del Medio Oriente; sul piano interno, il massimo sforzo fu rivolto al disarmo delle tribù e allo stabilimento della sicurezza interna, nonché alla riorganizzazione dello Stato sul modello di una moderata e graduale europeizzazione. Nel 1933 la concessione per lo sfruttamento del petrolio, accordata ai Britannici nel 1901, fu rinegoziata su nuove basi più favorevoli allo Stato persiano, che due anni più tardi prese ufficialmente il nome di Iran. Negli anni che precedettero la Seconda guerra mondiale Reza Khan, timoroso da un lato della crescente influenza britannica e, dall’altro, della minaccia sovietica, si avvicinò sempre più alla Germania nazista. Allo scoppio del conflitto l’Iran dichiarò la propria neutralità, ribadita ancora nel giugno 1941, nel momento in cui la Germania attaccava l’URSS. Di fronte al rifiuto di Teheran di espellere i numerosi cittadini tedeschi presenti nel paese, soprattutto in veste di tecnici, truppe anglo-sovietiche invasero l’Iran per garantire l’afflusso degli aiuti alleati all’Unione Sovietica. Il 19 settembre 1941 le truppe alleate entrarono a Teheran; due giorni prima Reza Khan aveva abdicato in favore del figlio Muhammad Reza. Ormai strettamente legato alla causa alleata, nel settembre 1942 l’Iran dichiarò guerra alla Germania e, l’anno successivo, ospitò a Teheran lo storico convegno dei Tre Grandi, che tracciò le linee della riconquista dell’Europa e si impegnò a restaurare in pieno, a guerra finita, la sovranità iraniana. Con l’abdicazione dello scià si attenuò l’autoritarismo che per quasi un ventennio aveva tenuto in pugno il paese. L’atteggiamento di riserbo costituzionale tenuto inizialmente dal nuovo sovrano Reza Pahlavi favorì, in un clima di ripresa delle attività democratiche, lo sviluppo della vita politica intorno al Parlamento e ai partiti, tra i quali emerse il progressista Tudeh, di ispirazione filocomunista. Nel febbraio 1949, in seguito a un attentato contro lo scià, il governo adottò misure restrittive della libertà di stampa, mentre pochi mesi dopo un’assemblea costituente introdusse emendamenti alla Costituzione del 1906, con l’attribuzione al capo dello Stato del diritto di veto e quello di scioglimento del Parlamento. Ma la svolta decisiva nella politica interna ed estera dell’Iran fu innescata dalla crisi petrolifera dei primi anni 1950. Ne fu protagonista Muhammad Mossadeq, più volte ministro negli anni dell’immediato primo dopoguerra e poi ritiratosi perché contrario alla nomina del vecchio scià Pahlavi. Fondatore nel 1949 del Fronte nazionale, Mossadeq riuscì a fare approvare dal Parlamento il suo progetto di nazionalizzazione delle concessioni petrolifere in Iran. Mentre si verificavano nel paese violente manifestazioni antibritanniche e antiamericane, con la partecipazione attiva di elementi del Tudeh, per far fronte alla contrazione della produzione e della vendita del petrolio e alla crisi politica determinata dalla decisa opposizione degli ambienti conservatori, timorosi di uno slittamento del regime verso il comunismo, Mossadeq cercò di assumere sempre maggiori poteri. Destituito dallo scià una prima volta nel luglio 1952, poco dopo, sull’onda delle manifestazioni popolari, tornò al governo ma i contrasti fra primo ministro e capo dello Stato si aggravarono e nel 1953 Mossadeq fu rovesciato da un colpo di Stato in favore dello scià, appoggiato dai servizi segreti statunitensi e britannici. La politica iraniana prese allora una decisa svolta filo-occidentale e gli aiuti militari americani, iniziati già dal 1947, si intensificarono. Grazie al cospicuo aiuto finanziario degli Stati Uniti, il paese fu posto nelle condizioni di superare le gravi difficoltà finanziarie, fino al momento in cui cominciò a ricevere i redditi derivanti dalle royalties petrolifere, in seguito alla stipulazione di un accordo internazionale di cui entrarono a far parte i sette maggiori cartelli petroliferi mondiali. Nel 1959 l’Iran aderì (insieme a Turchia, Pakistan e Gran Bretagna) al patto di Baghdad e il 5 marzo 1959 stipulò un accordo di mutua difesa con gli Stati Uniti. Con la caduta di Mossadeq e la soppressione del partito Tudeh (che continuò a muoversi clandestinamente) Reza Pahlavi cominciò ad assumere un ruolo sempre più attivo nell’amministrazione dello Stato. Nel 1961, sciolto il Parlamento, ebbe modo di impostare e di varare la grande riforma agraria attuata nei due anni successivi. Denominata ‘rivoluzione bianca’, la riforma mirava all’industrializzazione del paese e alla creazione di un capitale nazionale, in un progetto che vedeva coinvolti principalmente lo stesso scià e la sua famiglia. Grandi latifondi furono confiscati ai loro proprietari, offrendo in cambio partecipazioni nell’industria, confische che coinvolsero anche le grandi proprietà terriere appartenenti alle organizzazioni religiose dell’Islam sciita. Parallelamente prese avvio una campagna tesa a ridurre l’elevatissimo tasso di analfabetismo e a sottrarre l’educazione al controllo del clero. La ‘rivoluzione bianca’ cambiò profondamente le strutture del potere nazionale, intensificando in maniera significativa il controllo da parte dello scià sulla vita politica del paese, suscitando al contempo non poche resistenze. Dalle gravi tensioni innescate dal nuovo autoritarismo emerse la figura dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Succeduto nel 1962 nelle funzioni di capo della comunità sciita, da sempre politicamente ostile alla dinastia Pahlavi, Khomeini svolse un ruolo molto attivo nel movimento di opposizione popolare alle riforme dello scià, così che questi lo costrinse a esiliarsi, prima in Turchia, poi in Iraq e infine in Francia.
La politica dello scià ebbe l’appoggio degli Stati Uniti e di paesi dell’Europa occidentale e orientale. Dopo le elezioni del 1967 anche le tensioni interne sembrarono placarsi. Quale segno della stabilità del paese e dei successi della ‘rivoluzione bianca’, il 26 ottobre 1967 lo scià cingeva con una fastosa cerimonia la corona imperiale. Sul piano internazionale, le intense relazioni con gli USA, fornitori di gran parte dell’armamento dell’Iran, e con l’Europa occidentale si affiancarono al mantenimento della collaborazione con l’URSS e al ristabilimento dei rapporti con la Cina (1971), mentre nei confronti degli Stati arabi le uniche tensioni erano quelle con l’Iraq sulla sovranità di una parte dello Shatt al-Arab. Nella politica culturale, lo scià ricalcò le linee ormai tradizionali della dinastia Pahlavi, basate sulla rivalutazione dell’antico passato preislamico; nel 1971 fastosissime cerimonie, cui parteciparono capi di Stato e rappresentanti di governi di tutto il mondo, inclusi quelli socialisti, celebrarono il 25° centenario della fondazione dell’impero di Ciro il Grande. La relativamente scarsa importanza attribuita al passato culturale islamico mirava anche a spezzare le resistenze di un certo integralismo musulmano conservatore, paradossalmente alleato all’opposizione di sinistra. Nel 1976 fu perfino abolita la datazione a partire dall’ègira, facendo risalire l’inizio delle date allo stabilimento dell’impero di Ciro. Per altri versi, i cambiamenti avvenuti nella società iraniana furono del tutto insoddisfacenti: in campo industriale non si riuscì a sviluppare alcun settore di esportazione; in campo agricolo, dove già la produzione non era sufficiente al fabbisogno interno, si verificò una stagnazione; somme ingentissime erano assorbite dalle spese militari. Inoltre la sperequazione sociale tendeva ad aumentare, escludendo dai profitti non solo gli strati popolari e la classe operaia, costretta a condizioni di vita miserevoli, ma anche i ceti medi, professionisti e commercianti, già privati dell’accesso a qualsiasi forma di potere decisionale. A tutto ciò faceva riscontro una durissima repressione nella vita culturale e politica del paese, esercitata dalla SAVAK, la polizia segreta. Nel marzo 1975 lo scià abbandonò la finzione del sistema bipartitico per organizzare il partito unico. A partire dal 1977 si verificò una forte crescita del movimento di opposizione al regime che trovò congiunti elementi dell’ortodossia islamica, guidati dal capo religioso in esilio, l’ayatollah Khomeini, e i partiti di sinistra. Lo scià tentò di arginare l’insurrezione chiamando al governo un esponente storico dell’opposizione, Shapur Bakhtiar, già membro del Fronte nazionale di Mossadeq e sottosegretario nel governo da lui diretto, ma dinanzi all’inarrestabile progredire della rivoluzione Reza Pahlavi fu costretto a partire per l’esilio il 16 gennaio 1979; il 1° febbraio Khomeini ritornò in patria.
La Repubblica islamica
Al suo rientro da Parigi, l’ayatollah nominò un governo provvisorio presieduto da Mahdi Bazargan, ma il potere reale venne assunto da un Consiglio rivoluzionario islamico designato dallo stesso Khomeini. Il 1° aprile, a seguito di un referendum popolare, fu proclamata la Repubblica islamica dell’Iran e in dicembre un secondo referendum approvò una nuova Costituzione che prevedeva, tra l’altro, la figura di una guida religiosa, destinata a verificare la congruità tra l’azione legislativa, l’operato del governo e la legge canonica, carica che fu affidata a vita a Khomeini. Che fosse un religioso a prendere le redini del paese non costituiva elemento di sorpresa per la realtà dell’Iran, dove gli uomini di religione formano a partire dal 19° secolo una sorta di clero, si occupano di politica e si fanno interpreti, magari demagogici, delle esigenze popolari nei confronti del potere centrale, pur rimanendo attenti custodi di privilegi economici e sociali consolidati nel tempo. La formulazione dell’identità nazionale in base all’adesione della stragrande maggioranza delle popolazioni iraniane allo sciismo, forma minoritaria ed ereticale di Islam, fece sì che le frustrazioni di varia natura, comprese quelle di ordine culturale dovute alla politica dello scià, si traducessero in una spinta eversiva in nome dell’Islam, inteso come sistema totalizzante, religioso, ideologico e politico insieme. L’entrata in vigore della Costituzione fu, tuttavia, ritardata dall’esplosione di conflitti etnici. Le minoranze che avevano appoggiato la rivoluzione rivendicavano il riconoscimento del loro ruolo e chiedevano autonomia e compartecipazione al potere ma, sia pure in modi e tempi diversi, la risposta fu negativa e si risolse nella ripresa della repressione, che fu diretta soprattutto contro i Curdi. Il timore del propagarsi della rivoluzione islamica crebbe notevolmente, sia a livello regionale fra i paesi arabi del Golfo sia a livello internazionale, specie dopo che nel novembre 1979 un gruppo di 50 funzionari dell’ambasciata statunitense a Teheran fu preso in ostaggio e dopo che fallì miseramente il tentativo di liberarli con un’azione di forza (il rilascio avvenne solo nel 1981, in cambio della sospensione delle misure di congelamento dei depositi iraniani negli USA). La risposta occidentale fu puntuale: furono decretate sanzioni economiche da parte di Stati Uniti, Giappone e CEE e si permise all’Iraq di denunciare il trattato sulla definizione dei confini sullo Shatt al-Arab, motivo di un contenzioso plurisecolare tra i due paesi. Ciò fornì all’Iraq il pretesto per attaccare l’Iran (settembre 1980), dando inizio a una guerra lunga e cruenta che dissanguò economicamente i due paesi. La guerra esasperò i conflitti interni al regime. Il presidente della Repubblica, Abul-Hasan Bani Sadr, eletto nel gennaio 1980, fu sostanzialmente esautorato e con lui perse credito l’ala riformista, mentre gli integralisti si rafforzarono con le elezioni del 1980, vinte dal Partito repubblicano islamico. La fisionomia integralista del regime si stava irreversibilmente istituzionalizzando e la reazione più vistosa fu una sorta di guerriglia urbana che vide in prima fila l’Organizzazione dei Mujaeddin. Dopo la destituzione di Bani Sadr (giugno 1981) e con la successione (ottobre 1981) del leader religioso Ali Khamenei - il primo ad assumere direttamente la carica di capo dello Stato - la situazione sembrò stabilizzarsi, attraverso una durissima repressione contro ogni forma di contestazione, etnica, politica o altro. Nel 1983 fu sciolto, sotto l’accusa di spionaggio a favore dell’URSS, il partito Tudeh, fino ad allora alleato del regime: dirigenti e militanti furono arrestati e condannati a morte, dopo penose ‘autocritiche’ teletrasmesse. Khamenei fu riconfermato nel 1985 alla presidenza della Repubblica. Nell’agosto 1988 i successi bellici dell’Iraq indussero l’Iran ad accettare la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che imponeva il cessate il fuoco e avviava, pur tra grandi difficoltà, i negoziati di pace.
Il dopo Khomeini
Ormai lontano dai giochi di potere, il 4 giugno 1989 morì Khomeini; pochi mesi prima, in qualità di giurisperito, aveva fatto in tempo a giudicare blasfemo il romanzo Versetti satanici dello scrittore Salman Rushdie e, di conseguenza, a emettere la condanna a morte nei confronti dell’autore, incitando i fedeli musulmani a eseguirla. La fine degli anni 1980 segnò simbolicamente il cambio della guardia ai vertici politico-religiosi del paese con la scomparsa dei grandi protagonisti della rivoluzione. A succedere all’ayatollah Khomeini come guida del paese fu nominato Ali Khamenei, e al suo posto alla presidenza della Repubblica subentrò Hashemi Rafsanjani, riformatore moderato già presidente del Parlamento, artefice di un governo di coalizione tra conservatori e riformisti. Il regime si divise in un’ala relativamente aperta, rappresentata da Rafsanjani, il quale, però, si poneva in fatto di morale e di interpretazione della legge canonica sulla linea di rigore che era stata di Khomeini, e un’ala più dura che si presentava da un lato come più aderente ai principi ispiratori della rivoluzione, dall’altro come continuatrice della politica repressiva adottata nei primi anni 1980. Per la prima volta, dopo la rivoluzione, vi furono manifestazioni contro il regime nelle principali città del paese (luglio-settembre 1991) e nel gennaio-marzo 1992 si registrarono addirittura alcuni scioperi, per es. nel settore petrolifero. Nell’aprile-maggio 1992 si tennero elezioni politiche, che, boicottate da tutta l’opposizione, videro una netta vittoria dell’ala legata a Rafsanjani. Il programma di modernizzazione del presidente, caratterizzato da un certo pragmatismo, da una maggiore apertura nei confronti della comunità internazionale e dalle prospettive di privatizzazione in campo economico, fu all’origine di numerosi e gravi incidenti scoppiati in alcune città roccaforti dei radicali. La risposta del governo fu estremamente dura e furono eseguite alcune condanne a morte. Il fallito attentato alla vita del presidente nel febbraio 1994, nel corso di un comizio nella capitale, confermò il clima di sfiducia nell’operato del governo. Il peggioramento della situazione economica, con la crescita del debito estero e della disoccupazione, fu particolarmente sentito dalle fasce più povere della popolazione urbana, il cui tenore di vita si ridusse drasticamente. Il timore di perdere il sostegno della base tradizionale del regime indusse il governo a rivedere parzialmente la politica di liberalizzazione economica. Ciò nonostante nell’estate del 1994 in numerose città si verificarono proteste e disordini e una vera e propria rivolta contro il carovita scoppiò in un sobborgo di Teheran nell’aprile 1995. Alla fine dello stesso mese il presidente americano Bill Clinton annunciò un blocco totale del commercio e degli investimenti dei confronti dell’Iran, accusato di fomentare il terrorismo internazionale, nonché di perseguire un programma per dotarsi di armamenti nucleari con l’aiuto di Russia e Cina.
Gli otto anni di mandato presidenziale di Rafsanjani delusero le aspettative di quanti speravano nella sua mediazione per avviare una forma di normalizzazione del regime che, abbandonate finalmente certe manifestazioni di fanatismo religioso, permettesse all’Iran di rompere l’isolamento internazionale. Al contrario, il paese uscito dall’era Rafsanjani era complessivamente più povero, meno libero – soprattutto rispetto alle esigenze maturate dalle nuove generazioni – e vittima di un isolamento apparentemente senza via d’uscita. Era evidente la contraddizione tra il crescente impoverimento del paese, dove la disoccupazione aumentava e il settore industriale rischiava la paralisi, e l’effettiva modernizzazione avviata nella regione (alfabetizzazione, allacciamento di luce elettrica e acqua corrente nei villaggi, innalzamento delle aspettative di vita, partecipazione femminile alla vita sociale e alta percentuale di studentesse nei gradi di istruzione superiori). In particolare, la partecipazione delle donne alla vita politica e sociale crebbe significativamente rispetto ai tempi della dinastia Pahlavi, lasciando intravvedere, tra donne laiche contrarie al regime e donne che condividevano l’ideologia islamica impegnandosi nelle istituzioni dello Stato, un fronte unico di lotta per il riconoscimento dell’uguaglianza dei sessi e contro una rigida interpretazione dei testi coranici. Anche le giovanissime generazioni – in Iran si vota a 16 anni – determinarono un’incrinatura gravida di conseguenze nel fronte antiamericano e antioccidentale: sul piano politico, l’insofferenza dei giovani verso la politica culturale dei religiosi più oscurantisti si tradusse in una crescita del peso politico dei riformisti. Nelle elezioni legislative del marzo-aprile 1996 i conservatori subirono un calo considerevole di consensi a vantaggio dei riformisti filogovernativi tacitamente appoggiati dal presidente Rafsanjani. Ma la svolta significativa nella vita del paese fu determinata dai risultati delle elezioni presidenziali del 23 maggio 1997. A sorpresa Sayyad Muhammad Khatami, già ministro della Cultura tra il 1981 e il 1992, ebbe ragione del candidato più forte, il presidente del Parlamento e leader dell’ala conservatrice Natiq Nuri.
Prove di riformismo
Accusato di essere un liberale e osteggiato dai leader religiosi per avere osato sfidare il regime nel 1992 quando aveva rassegnato le dimissioni perché in disaccordo con il governo conservatore, Khatami non aveva più ricoperto alcun incarico di rilievo fino al giorno della sua investitura a candidato unico dell’alleanza riformista. Il suo successo, con oltre il 69% dei consensi, confermò la vitalità di una parte della società iraniana - in particolare donne e giovani - che dopo anni di silenzio usciva allo scoperto appoggiando il candidato riformista dalle colonne di alcuni organi di stampa. Dopo le elezioni, un primo segnale delle grandi trasformazioni in atto fu la dichiarazione di stima al popolo americano resa da Khatami nel dicembre 1997 e ribadita un mese dopo in un’intervista televisiva. Nell’estate del 1998 il freno imposto alla propaganda antiamericana spinse gli Stati Uniti, dopo decenni di cronica conflittualità reciproca, a usare toni più concilianti verso l’Iran. Segno evidente del nuovo clima fu la presa di distanze dalla condanna a morte pronunciata a suo tempo da Khomeini nei confronti di Salman Rushdie. Nonostante il significativo riconoscimento internazionale, il ruolo di Khatami e il peso politico delle sue scelte risentirono dell’evidente dualismo di poteri che dominava la vita politica iraniana, in cui il presidente della Repubblica, democraticamente eletto, può essere, in linea di principio, allontanato dalla sua carica dalla massima guida spirituale, scelta e sostenuta dai religiosi componenti il Consiglio dei Guardiani. Nel luglio 1999 manifestazioni di protesta degli studenti contro la chiusura del quotidiano Salam, molto vicino al presidente, sfociarono, dopo il violento assalto al campus universitario di Teheran da parte delle forze di polizia e degli estremisti islamici, in una vera e propria rivolta studentesca, fermamente repressa dal regime. L’anno dopo, lo schieramento riformista registrò un nuovo successo elettorale, conquistando la maggioranza in Parlamento. Ma nel mese di aprile alcune leggi fortemente restrittive della libertà di stampa, emanate dal vecchio Parlamento poche settimane prima dello scadere del mandato, colpirono duramente la stampa libera del paese, punta di diamante dello schieramento di Khatami: con l’appoggio incondizionato del potere giudiziario, oltre 20 giornali vennero chiusi e direttori e giornalisti arrestati. Alla fine dell’anno si aprì un nuovo braccio di ferro tra le forze riformiste e quelle più oscurantiste del paese quando, prima l’ayatollah Khamenei, poi il Consiglio dei Guardiani, respinsero le revisioni della legge sulla stampa proposta dal nuovo Parlamento. Nei primi mesi del 2001, in un clima di crescente tensione politica, l’Iran si preparò alle presidenziali del 9 giugno, che fecero registrare il nuovo successo di Khatami. La vittoria dei riformisti, tuttavia, non pregiudicò la posizione dei conservatori nelle alte sfere del potere giudiziario e di controllo, come fu evidente dagli arresti e dalle accuse lanciate contro alcuni parlamentari tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002. Lo scontro si riaprì alla vigilia delle elezioni parlamentari del 2004, quando il Consiglio dei Guardiani procedette alla revisione della lista dei candidati, escludendo, tra gli altri, numerosi riformisti. Consapevole della minaccia implicita in un intervento del genere, Khatami si rivolse alla guida suprema Khamenei nel tentativo di assicurare lo svolgimento corretto della consultazione. Quando il Consiglio dei Guardiani varò la lista definitiva, 125 parlamentari riformisti in segno di protesta annunciarono il boicottaggio delle elezioni e le proprie dimissioni. Con l’intenzione di evitare l’inasprimento del conflitto, Khatami respinse quelle del ministro dell’Interno del suo gabinetto, intenzionato a far slittare la competizione elettorale, e confermò la data prevista per il voto, provocando una frattura profonda tra l’ala radicale e quella moderata dello schieramento riformista, che uscì sconfitto. Le presidenziali del 2005 si svolsero in un clima di delusione generale nei confronti della politica e produssero un risultato non previsto. In assenza di Khatami, non candidabile in base alla legge costituzionale che non consente più di due mandati consecutivi, il favorito dai pronostici, l’ex presidente Rafsanjani, uscì sconfitto al ballottaggio, superato da una figura per lo più sconosciuta nella politica iraniana prima di essere eletto nel 2003 sindaco di Teheran. Il 6 agosto 2005, dopo aver ricevuto l’approvazione della guida suprema Khamenei, Mahmoud Ahmadinejad assumeva ufficialmente la più alta carica dello Stato, diventando il sesto presidente della Repubblica iraniana. Da allora Ahmadinejad ha allarmato a più riprese la comunità occidentale per le sue invettive contro Israele e per la difesa del programma nucleare iraniano, mentre in politica interna si è fatto banditore di un ritorno al rigore rivoluzionario.