Iran
Iràn. – Nei primi anni del 21° secolo si fronteggiavano ai vertici del potere politico e nel corpo della società civile iraniana la corrente riformista, il cui punto di riferimento era rappresentato dal presidente della repubblica in carica Muḥammad Khātamī, e lo schieramento conservatore all’interno del quale andava emergendo la personalità del nuovo sindaco di Teheran, eletto nel 2003, Maḥmūd Aḥmadīnejād, un civile che negli anni Ottanta, durante il conflitto con l’Iraq, si era arruolato volontario nei Guardiani della rivoluzione, i cosiddetti pāsdārān, diventandone uno dei comandanti. Le sorti di questo scontro, proprio mentre sembrava che la forza dirompente di una società civile vivace e dinamica potesse imprimere una svolta al Paese anche attraverso la voce dei giovani e delle donne, furono fortemente condizionate dal potere di controllo e di supervisione del Consiglio dei guardiani, un corpo non eletto di 12 membri (sei esponenti religiosi nominati dalla guida suprema e sei giuristi), posto a presidio della legge islamica e del potere degli āyatollāh. Questo potente istituto, infatti, impediva la libertà di manovra dell’esecutivo bloccando la realizzazione delle riforme promesse da Khātamī ed esercitava anche un potere di veto sulla scelta delle candidature nelle competizioni elettorali, come avvenne in occasione della consultazione politica del febbraio 2004, quando 2000 degli 8000 aspiranti candidati non vennero ammessi alla competizione. Il provvedimento colpiva in modo mirato lo schieramento riformista che, profondamente disorientato e indebolito dalle esclusioni, fu sconfitto dai conservatori, ai quali il successo delle urne assicurò la maggioranza dei seggi. Nelle elezioni presidenziali del giugno 2005 il candidato su cui convogliarono i voti dei riformisti al secondo turno, il potente conservatore moderato ‛A.H. Rafsanjānī, già presidente della Repubblica dal 1989 al 1997, non seppe convincere l’elettorato riformista, soprattutto i giovani e gli studenti tra i quali godeva di una forte impopolarità. Infatti, benché in leggero vantaggio al primo turno, fu sconfitto da Aḥmadīnejād, forte del sostegno e della capillare mobilitazione delle moschee, dei pāsdārān e dei basīğ, un corpo paramilitare di volontari nato all’inizio degli anni Ottanta che poteva contare su più di un milione di affiliati. Una sapiente miscela di retorica nazionalista, populismo e giustizialismo in nome dell’islam aveva premiato il neopresidente, la cui vittoria impose un brusco arresto alla vitalità e alla dialettica interna del Paese: principali vittime della repressione furono studenti, dissidenti e organizzazioni per i diritti umani, mentre il massiccio ricorso all’uso della censura mise in seria difficoltà gli organi di stampa riformisti. Non facile si presentava la missione politica di Aḥmadīnejād per la difficoltà a conciliare la promessa populista fatta in campagna elettorale di spazzare via le ‘mafie del petrolio’ per ridistribuire più equamente i profitti delle vendite, con la necessità di mantenere inalterato il potere economico dei suoi grandi elettori, gli āyatollāh. Sul fronte internazionale le scelte di Aḥmadīnejād sembravano tutte convergere nell’ambizioso obiettivo di fare dell’I. la maggiore potenza di una regione mediorientale sempre più estesa, che dal Marocco al Pakistan, dalla Turchia all’Oman, coinvolge le maggiori potenze mondiali in un intricato scacchiere di crisi (v. Medio Oriente/Grande Medio Oriente). La strategia aggressiva di Aḥmadīnejād faceva leva sul tradizionale nazionalismo ‘persiano’, nel tentativo di ricompattare attorno al regime una popolazione delusa da una stagione di riforme mai realizzate. Le pesanti invettive contro Israele, minacciato nella sua stessa esistenza, il sostegno in funzione antisraeliana al partito libanese sciita Hezbollah (Ḥizb Allāh) (v.), la grande enfasi posta sul programma nucleare, esponevano sicuramente il Paese alle reiterate condanne degli Stati Uniti che fin dal 2002 avevano inserito l’I., con Iraq e Corea del Nord, in un presunto ‘asse del male’ principale responsabile del terrorismo mondiale, ma permettevano altresì all’I. di guadagnare prestigio nella regione in una congiuntura di grave crisi che vedeva emarginati i paesi tradizionalmente più moderati. Nel 2008, a distanza di tre anni dalla sua elezione alla presidenza, mentre il Paese si preparava alle elezioni legislative di marzo-aprile, appariva meno solida la posizione di Aḥmadīnejād, costretto a fronteggiare gli attacchi della Guida suprema, l’āyatollāh ‛Alī Khāmeneī, che nonostante il silenzio e la cautela mostrati sulla scena internazionale, incarnava il vero campione dell’intransigenza nel dialogo con l’occidente. La competizione elettorale, privata per il consueto intervento prescrittivo del Consiglio dei guardiani di molti candidati riformisti, vide comunque prevalere il fronte conservatore (69% dei seggi conquistati). L’anno successivo, in occasione delle elezioni presidenziali del 12 giugno 2009, due candidati riformatori, Mir Hussein Moussavi (Mīr Ḥusayn Mūsavī) e Mehdi Karrubi (Mahdī Karrūbī), sfidarono il presidente in carica, diventato il simbolo di un regime sempre più illiberale e oscurantista. Un forte malcontento serpeggiava tra i giovani, oppressi dalla pervasività dei divieti imposti dalla morale religiosa, scesi in piazza per appoggiare i candidati riformisti. L’annuncio della vittoria elettorale di Aḥmadīnejād con oltre il 62% dei voti fu immediatamente contestato dalle opposizioni, che il 15 giugno organizzarono in segno di protesta la più imponente manifestazione di piazza dai giorni della rivoluzione islamica del 1979 (v. ). In pochi giorni, dopo la conferma da parte della Guida suprema della validità del voto, il Paese precipitò nel caos, e mentre centinaia di migliaia di cittadini si riversavano nelle piazze chiedendo la fine della dittatura, le immagini della rivolta e della brutale repressione da parte delle forze di polizia facevano il giro del mondo. Decimata e ridotta al silenzio, l’onda verde è tornata nelle piazze nel 2011, ma la forza d’urto del movimento riformista appariva fortemente ridimensionata e ancora fuori gioco in occasione delle elezioni parlamentari del marzo 2012, che rappresentarono comunque uno smacco per Aḥmadīnejād: furono i candidati vicini alla guida suprema, infatti, ad aggiudicarsi la maggioranza dei seggi sbaragliando la concorrenza dei sostenitori più fedeli al presidente, sconfitti anche nei seggi tradizionalmente di suo appannaggio. Gli esiti di questo scontro tutto interno al blocco conservatore evidenziavano ancora una volta la peculiarità e complessità della situazione iraniana, con un regime caratterizzato da una pluralità e giustapposizione di poteri politico-istituzionali, che agiscono ora in forma coesa ora in aperta contrapposizione. Tra il 2011 e il 2012 l’I. tornava al centro dell’attenzione della comunità internazionale per la rinnovata minaccia costituita dalla costruzione, ormai prossima secondo i tecnici del Pentagono, della bomba atomica. L’aspirazione egemonica dell’I. nella regione, che era stata colpita dopo l’11 settembre, le guerre in Afghanistan e in Iraq e la primavera araba da una generale insicurezza e un rimescolamento di fronti, traeva forza dalla possibilità di brandire il suo arsenale atomico come arma per affermare la sua supremazia, costringendo lo Stato d’Israele a difendersi per sopravvivere. Un atteggiamento minaccioso giustificato anche dalla posizione di punta iraniana nella produzione di idrocarburi (tra i primi paesi su scala mondiale), ma che doveva fare i conti con la grave crisi interna al regime siriano, alleato geostrategico decisivo dell’I. anche per garantire un suo sbocco sul Mar Mediterraneo. In questo contesto accordi energetici, scambi commerciali e protezione di Mosca costituivano una sponda importante per l’I., così come la dipendenza di Pechino dal greggio in arrivo da Teheran e il crescente volume commerciale degli scambi con i paesi dell’America Latina, ma lo scontro aperto con gli Stati Uniti rischiava di travolgere questa pur fitta rete di relazioni. La linea delle sanzioni perseguita dall’amministrazione statunitense tra il 2011 e il 2012, che investiva oltre al mercato petrolifero e petrolchimico anche il settore bancario e finanziario iraniano, poteva servire ad allontanare l’ipotesi di una guerra ma anche a preparare il terreno in vista di un nuovo conflitto, senza tralasciare la possibilità che potesse essere invece Israele a scatenare una guerra preventiva per mortificare le ambizioni di potenza iraniane.