Iran
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(App. IV, ii, p. 221; V, ii, p. 760; v. persia, XXVI, p. 806; App. I, p. 927; II, ii, p. 522; III, ii, p. 389)
Geografia umana ed economica
di Anna Bordoni
Al censimento del 1996 la popolazione dell'I. ammontava a circa 60 milioni di unità; nel 1998 una stima dell'ONU attribuiva al paese 65.758.000 abitanti. Il tasso di accrescimento annuo è ancor oggi molto elevato ed espone il paese alle drammatiche conseguenze del sovrappopolamento. Nel corso degli ultimi decenni i valori della natalità si sono progressivamente abbassati (46,1‰ nel periodo 1980-85, 41,4‰ nel 1985-90, 35,5‰ nel 1990-95), come pure i tassi di mortalità hanno mostrato una netta tendenza al declino (negli stessi intervalli di tempo, rispettivamente, 10,4, 8,1 e 6,7‰): l'I. non ha ancora superato la fase acuta della transizione demografica e, a meno di un improvviso quanto improbabile cambiamento di tendenza, nei prossimi anni la popolazione complessiva è destinata ad aumentare sensibilmente.
Gli Iranici continuano a costituire la maggioranza: Persiani in netta prevalenza, poi Beluci, Curdi e popolazioni seminomadi come i Luri; i Curdi (stanziati in un'ampia regione divisa tra I., dove ammontano a circa 5 milioni, Turchia, Iraq, Siria e Armenia) sono tuttora alla ricerca di un'autonomia nazionale. A essi si affiancano genti di ceppo turco (Azeri, Turkmeni) e gli Arabi, insediati lungo la costa del Golfo Arabico.
La distribuzione della popolazione è molto irregolare, condizionata dalla morfologia e dal clima, e passa dai pochissimi ab./km² delle province centro-orientali agli oltre 260 ab./km² della provincia della capitale. Il 39% della popolazione è considerato rurale e vive generalmente in villaggi, posti al centro delle oasi o comunque là dove la presenza di acque superficiali consente la pratica irrigua e, quindi, le coltivazioni. Sussistono alcune forme di nomadismo, e migrazioni stagionali vengono compiute ancora sui Monti Zagros. Teherān si avvicina ai 7 milioni di ab.; altre città con più di un milione di ab. sono Mašhad, Iṣfahān, Tabrīz e Šīrāz.
Per quanto riguarda la divisione amministrativa, nel corso del 1997 sono state istituite le nuove province di Qazwīn (per distacco da quella di Zanǧān) e di Gurgān (da quella del Māzandarān), i cui capoluoghi sono costituiti dalle città omonime.
Condizioni economiche
Nel corso degli ultimi decenni l'economia iraniana ha fortemente risentito delle vicende politiche e militari che hanno interessato il paese: dalla rivoluzione che ha trasformato l'I. in una repubblica islamica (1979) alla guerra con l'Iraq (1980-88) e alla guerra del Golfo (1990-91); di conseguenza lo straordinario processo di espansione, avviatosi intorno alla prima metà degli anni Sessanta e determinato soprattutto dagli elevatissimi proventi dell'estrazione del petrolio (di cui l'I. è stato a lungo il secondo produttore del Vicino e Medio Oriente, dopo l'Arabia Saudita), ha subito una brusca battuta d'arresto. Hanno poi pesato negativamente le forti fluttuazioni del prezzo del greggio sui mercati internazionali e le continue oscillazioni del volume produttivo, per cui la politica governativa degli anni più recenti ha puntato su una maggiore diversificazione delle attività al fine di spezzare la dipendenza dell'economia nazionale dagli idrocarburi.
Nel tentativo di far superare all'I. l'emergenza economica e in risposta all'embargo commerciale decretato dagli Stati Uniti nell'aprile 1995 (ma in seguito alquanto attenuato), il governo ha lanciato, con il Secondo piano quinquennale (1995-2000), un serio programma di austerità e di riforme, perseguendo il risanamento economico del paese anche attraverso drastici tagli delle importazioni. La credibilità finanziaria del paese è legata, fra l'altro, alla riduzione dell'ingente debito estero, che nel 1997 ammontava a 11.816 milioni di dollari. Il recupero economico e finanziario dell'I. è stato favorito dalla buona tenuta dei prezzi del petrolio, che hanno fatto salire a circa 19 miliardi di dollari la rendita petrolifera. Tuttavia rimangono irrisolti alcuni notevoli problemi, come l'inflazione ancora molto alta e il prosperare di un'economia sommersa, che priva lo Stato di un gettito fiscale non indifferente (v. oltre: Politica economica e finanziaria).
Malgrado i tentativi di diversificazione, la struttura economica dell'I. rimane fondata su petrolio e gas naturale, che costituiscono oltre l'80% delle esportazioni totali. Il settore agricolo (che assorbe il 23% della forza lavoro e contribuisce alla formazione del PIL per il 20,4%) sta aumentando le proprie produzioni (+4,7% annuo nel periodo 1985-95, secondo stime FAO), tuttavia la bilancia agricola si mantiene passiva e l'I. è costretto a importare derrate alimentari.
Soltanto una percentuale modesta (11,3%) della superficie territoriale è destinata all'arativo e alle colture arboree: di essa peraltro solo circa il 5% è utilizzato con regolarità, mentre la cronica carenza di acqua condiziona l'espansione delle aree coltivabili. Principali cereali sono il frumento, raccolto soprattutto nell'Azerbaiǧān, il riso, di cui le province caspiche forniscono il 90% del totale, e l'orzo. Fra le piante industriali continuano ad avere notevole diffusione il cotone, la barbabietola e la canna da zucchero, la soia e il tabacco. Nella provincia del Fārs si coltiva - sotto rigido controllo governativo - il papavero da oppio. Tra gli altri prodotti della terra, meritano di essere ricordati anche il tè, gli ortaggi e la frutta; l'I. è uno dei maggiori produttori di datteri e di pistacchi.
Le vicende politiche e militari sopra ricordate hanno avuto pesanti ripercussioni anche sull'apparato industriale, che nel corso degli anni Ottanta si è trovato in una situazione prossima alla paralisi e solo nel decennio successivo ha visto aprirsi nuove prospettive, grazie anche a una svolta liberista del governo. Tuttavia il settore secondario rimane ancora oggi condizionato nella sua espansione dalla scarsità di risorse tecnologiche e dalla inadeguatezza delle infrastrutture: esso contribuisce per il 36,4% alla formazione del PIL ed è quasi totalmente orientato alla lavorazione degli idrocarburi, con impianti di raffinazione e petrolchimici, mentre è di modesto rilievo economico l'industria tradizionale, connessa alla trasformazione di prodotti agricoli e al settore tessile.
Grazie alle limitazioni imposte dal governo alle importazioni, la bilancia commerciale ha registrato, negli ultimi anni, un surplus. Per le esportazioni, principali partner sono Germania (17% del totale), Giappone (12%), Belgio e Lussemburgo (7%), Francia (7%), Paesi Bassi (7%), Romania (6%), Italia, Spagna, Turchia e India.
Nel 1996 è stata completata una linea ferroviaria, lunga 300 km, che unisce Mašhad a Tedžen in Turkmenistan, consentendo a questo paese una via di accesso al mare alternativa rispetto al percorso afghano e alla rete di comunicazioni della Russia; al tempo stesso essa permette all'I. di entrare in più stabili relazioni con l'Asia centrale ex sovietica, attenuando così gli effetti del suo isolamento internazionale. Inoltre, l'I. si è candidato a ospitare il passaggio di un importante gasdotto a servizio dei giacimenti turkmeni.
bibliografia
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Politica economica e finanziaria
di Giuseppe Smargiassi
L'evoluzione dell'economia iraniana s'intreccia profondamente con gli eventi politici che hanno segnato la recente storia del paese. La rivoluzione del 1979, l'isolamento internazionale, il prolungato conflitto con l'Iraq hanno non solo rallentato lo sviluppo dell'I., ma condizionato anche le scelte di politica economica del governo islamico. Il tentativo originario del vertice politico-religioso di instaurare un sistema economico modellato sulla legge del Corano - improntato sull'autosufficienza economica e sull'attenuazione dei vincoli di dipendenza dalle importazioni e dai capitali dei paesi occidentali - si è più volte scontrato con l'emergere di difficoltà di carattere finanziario e macroeconomico, ed è stato sottoposto a vari tentativi di riforma. Così, gli sviluppi della politica economica iraniana, pur orientandosi, alla fine degli anni Ottanta, verso una maggiore apertura al mercato e verso una ripresa delle relazioni economiche con l'estero, sono risultati contraddittori e incerti. Il progresso delle riforme, infatti, ha trovato un serio ostacolo nel dualismo dei poteri in materia di gestione dell'economia, con una contrapposizione tra la classe conservatrice dei religiosi, garante della supremazia della legge islamica, e il governo, tradizionalmente più attento all'evoluzione dell'economia.
Una prima fase dell'attuazione delle politiche economiche del regime postrivoluzionario si ebbe alla fine degli anni Settanta, con la nazionalizzazione di larghi settori dell'industria, delle compagnie di assicurazione e del sistema bancario, con l'introduzione di rigide regolamentazioni degli scambi internazionali e con il blocco dei finanziamenti dall'estero. La costruzione del nuovo ordine economico fu però arrestata dalla flessione degli introiti derivanti dalle esportazioni di petrolio, verificatasi in seguito allo scoppio della guerra con l'Iraq, che aveva portato, nel solo biennio 1981-82, a una contrazione del Prodotto nazionale lordo (PNL) in termini reali di circa il 20%.
A rendere particolarmente grave la situazione economica interna contribuivano l'enorme dilatazione del deficit pubblico (le spese per il conflitto assorbivano il 30% del bilancio statale) e il suo finanziamento attraverso misure fortemente inflazionistiche. Proprio la crescita del livello dei prezzi (che aveva raggiunto valori oscillanti tra il 20 e il 30%), associata a una situazione di diffusa scarsità di beni primari e strumentali, aveva spinto le autorità ad accentuare gli interventi nella sfera dell'economia. Per mitigare gli effetti dell'inflazione sugli standard di vita e alleviare la penuria di merci, fu introdotto un complesso sistema di razionamenti e sussidi riguardante un elevato numero di beni, mentre la scarsità di valuta estera fu tamponata con l'applicazione di rigidi controlli alle importazioni e l'istituzione di un meccanismo di tassi di cambio multipli (se ne contavano fino a dodici), escogitato per indirizzare le risorse verso i settori ritenuti prioritari. Fu infine introdotto un nuovo piano quinquennale (1983-88) il quale, però, dopo essere stato più volte rivisto in funzione delle esigenze dell'economia di guerra, di fatto non fu mai operativo.
Al termine del conflitto, nel 1988, il quadro economico dell'I. presentava numerosi punti critici. Gli ingenti costi per il finanziamento della guerra (valutati tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari l'anno), le spese per la ricostruzione degli impianti distrutti dai bombardamenti iracheni (pari, secondo stime ufficiali, a circa 40 miliardi di dollari), il prosciugamento delle riserve valutarie e la carenza di capitali interni, avevano provocato una caduta degli indici di produzione e una forte crescita del tasso di disoccupazione. A questa situazione si dovevano poi aggiungere le gravi distorsioni provocate dal sistema amministrativo di gestione dell'economia, rafforzato durante la guerra, accompagnate da una continua crescita dell'inflazione e del deficit pubblico.
Alla radice del dissesto economico del paese vi era tuttavia la situazione di insufficienza cronica del settore industriale. Le restrizioni alle importazioni, introdotte per controllare i flussi di valuta estera, avevano più volte impedito il rifornimento di materie prime e l'acquisto di macchinari, riducendo la capacità operativa delle imprese a circa il 30% del potenziale produttivo. Particolarmente grave era inoltre la condizione di inefficienza delle imprese pubbliche. Queste erano poste sotto la direzione delle fondazioni (o bunyād, gli organismi semigovernativi, creati dopo la rivoluzione per gestire il patrimonio requisito allo scià), veri e propri centri alternativi di potere economico, sganciati dal controllo del governo e legati al regime teocratico da rapporti di carattere familiare e clientelare. Non troppo dissimile era infine la situazione delle imprese private, quasi interamente controllate dalla borghesia commerciale della fazione del Bazar, propensa più allo sfruttamento delle rendite che alla realizzazione di investimenti produttivi.
Proprio la fragilità e l'instabilità delle condizioni economiche interne sono state all'origine del nuovo indirizzo di politica economica promosso dal presidente Rafsanǧānī dopo la sua elezione nell'estate del 1989. Il nuovo corso è stato preceduto da importanti innovazioni istituzionali - che conferivano maggiori poteri al presidente nella gestione dell'economia - attuate dopo che, nel 1989, lo stesso āyatollāh Khomeini aveva ammesso la possibilità di deroga alla legge coranica nelle situazioni in cui fossero in gioco interessi vitali del paese. Al termine di una fase di negoziati e compromessi, il Parlamento approvava nel 1990 il Primo piano quinquennale della Repubblica Islamica dell'I. (1990-95), il documento nel quale era delineato il programma di riforme strutturali consistenti in un pacchetto di misure che andavano dalla privatizzazione delle imprese pubbliche, all'apertura del paese agli investimenti esteri, allo smantellamento dei controlli e delle licenze alle importazioni, fino alla revisione del sistema dei sussidi e alla liberalizzazione del mercato valutario. Gli obiettivi prioritari delle riforme erano la riduzione dell'inflazione e della disoccupazione, il consolidamento dei sistemi infrastrutturali del paese (trasporti, energia), il sostegno dell'azione governativa alle iniziative produttive del settore privato, nonché il potenziamento del settore scolastico.
Pur non mancando l'opposizione dei settori più conservatori del Parlamento, dei tecnocrati delle fondazioni e del Bazar (che vedeva minacciate le proprie posizioni dal processo di deregolamentazione economica), tra il 1990 e il 1993 l'attuazione del piano ha proceduto con rapidità, con l'apertura di nuove linee di credito da parte di istituti finanziari esteri, la liberalizzazione dei controlli per particolari categorie di importazioni (macchinari, materie prime e semilavorati) e l'approvazione, nelle sue linee generali, di un'importante legge finalizzata a incentivare la partecipazione di investitori esteri al capitale sociale delle imprese in fase di privatizzazione.
La riforma più importante di questo periodo è stata comunque la liberalizzazione del sistema di controlli valutari, il quale risultava non solo incompatibile con l'apertura ai capitali esteri, ma anche di ostacolo al processo di modernizzazione dell'industria e alla crescita degli investimenti privati. Su questa linea, il governo decideva, nel 1991, di allentare i vincoli sulle transazioni di valuta estera e di ridurre a due i tassi di cambio, stabilendo un tasso ufficiale per le importazioni di materiali e pezzi di ricambio per le industrie (fissato a un rapporto di 1540 riyāl per dollaro) e un tasso di mercato, applicato agli investimenti privati e alle importazioni di prodotti finiti (con valore iniziale di circa 1600 riyāl per dollaro). Nel 1993 veniva invece annunciata la libera convertibilità del riyāl al tasso di mercato, e si concedeva ad alcune categorie di importatori (prime tra tutte le fondazioni) un accesso 'preferenziale' al mercato dei cambi attraverso l'abolizione di vincoli quantitativi alla richiesta di valuta estera.
Traendo beneficio da una nuova impennata del prezzo del greggio sui mercati internazionali (verificatasi in seguito all'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq), tra il 1990 e il 1993 l'economia iraniana ha fatto registrare una crescita elevata, con una variazione del PIL in termini reali del 7,5% in media annua. Il forte incremento degli introiti derivanti dall'esportazione di petrolio ha portato le banche commerciali (sotto la pressante richiesta delle fondazioni e degli altri soggetti che godevano del libero accesso al mercato valutario) a contrarre un volume crescente di debiti a breve termine per finanziare un'espansione delle importazioni senza precedenti. Anche le esportazioni non legate al petrolio avevano fatto registrare nello stesso periodo un discreto miglioramento, ma questo si è rilevato insufficiente a compensare gli effetti della nuova diminuzione del prezzo del greggio verificatasi tra il 1992 e il 1993. La brusca contrazione di riserve valutarie ha portato a un accumulo di ritardi nel pagamento del debito estero giunto alla fine del 1993 a oltre 23 miliardi di dollari. Persa la fiducia dei mercati finanziari internazionali, l'I. si è trovato ben presto di fronte a un'interruzione dei finanziamenti dall'estero rapidamente riflessasi sul lato reale dell'economia. La necessità di contenere le importazioni si è infatti accompagnata a una diminuzione degli investimenti interni, provocando la chiusura di numerose imprese e stabilimenti, con una conseguente caduta del tasso di crescita del PNL (sceso sotto l'1% nel 1994) e un forte aumento della disoccupazione. A partire dalla fine del 1993 la gestione della crisi finanziaria ha condizionato fortemente la conduzione delle politiche economiche compromettendo gli sviluppi del processo di riforma.
Per fronteggiare la crisi, le autorità hanno seguito due strade. La prima è consistita nel cercare accordi di carattere bilaterale per la rinegoziazione del debito con i principali paesi creditori (primi tra tutti la Germania, il Giappone e l'Italia). L'esito positivo dei negoziati ha permesso di riconvertire i debiti a breve termine in obbligazioni a medio termine per un valore di circa 14 miliardi di dollari e di ottenere uno slittamento del pagamento delle nuove rate al 1996. La seconda strada ha comportato invece maggiori problemi, in quanto era finalizzata a trovare un difficile compromesso tra la necessità di tamponare gli effetti della crisi sulle condizioni di vita della popolazione e l'esigenza di procedere al risanamento economico attraverso più rigide misure di carattere fiscale e monetario.
La riproposizione di un braccio di ferro tra il governo, promotore con il Secondo piano quinquennale (1995-2000) di un austero programma di politica economica, e l'opposizione dei gruppi conservatori all'interno del Parlamento si è tradotta in un'azione di intervento del governo dai caratteri incerti e contraddittori. Il programma di rimozione dei sussidi sui beni di prima necessità (petrolio, gas, elettricità, e vari generi alimentari), che rappresentava il perno della manovra di risanamento finanziario, è stato più volte ritoccato dal Parlamento al punto da renderlo assai poco incisivo. Anche le misure prese per ridurre l'inflazione, consistenti nell'applicazione di rigidi controlli sulla crescita dei prezzi di centinaia di prodotti combinata a una manovra monetaria restrittiva attuata dalla Banca centrale, hanno prodotto effetti di scarso rilievo. Infatti, l'incapacità del governo di controllare la continua pressione fiscale e monetaria si è tradotta in una crescita del livello dei prezzi, in una scarsità di valuta estera e in un progressivo allargamento del divario tra cambio ufficiale e cambio libero sul mercato valutario.
Le difficoltà sorte sul mercato valutario hanno rappresentato una delle conseguenze più gravi della crisi sul processo delle riforme economiche. Per frenare la forte caduta del riyāl, iniziata nella seconda metà del 1993, le autorità erano state costrette, già a partire dal novembre dello stesso anno, a introdurre nuove restrizioni valutarie, annullando parte delle misure di liberalizzazione adottate pochi mesi prima. La crescita dell'inflazione aveva tuttavia provocato una caduta del riyāl sul mercato libero anche negli anni successivi, spingendo il governo e la Banca centrale ad accompagnare i provvedimenti correttivi con misure più drastiche, anche di carattere repressivo. Infatti, dopo avere introdotto nel 1995 norme che obbligavano gli esportatori a depositare presso la Banca centrale le proprie disponibilità in valuta estera, per ottenerle non prima di sei mesi e solo per effettuare importazioni, il governo procedeva alla soppressione del mercato nero che si era creato fuori dal circuito delle banche commerciali e all'arresto degli operatori non autorizzati. Nel maggio del 1995, dopo un'ulteriore flessione del tasso di cambio di mercato, sceso fino a 6300 riyāl per dollaro, le autorità monetarie stabilivano un nuovo rapporto di 3000 riyāl per dollaro e fissavano il cambio ufficiale a 1750 riyāl per dollaro. La prospettiva di unificazione dei due tassi, che doveva rappresentare la fase culminante del processo di riforma valutaria, veniva così rimandata alla fine del secolo.
Malgrado la ridotta incisività dell'iniziativa governativa in campo economico, nel 1996 l'economia dell'I. ha fatto registrare una nuova crescita del PIL (+4,8%), sostenuta anche questa volta dalle favorevoli condizioni del mercato petrolifero (nel 1996 i redditi derivanti dalle esportazioni di greggio sono aumentati del 20%). In tal modo l'I. è stato in grado di rispettare puntualmente il pagamento delle nuove rate del debito estero, ripristinando gran parte della capacità di credito persa in seguito alla crisi del 1993; né la nuova ripresa dell'economia è stata minacciata dalle sanzioni decise nel 1995 dal Congresso degli Stati Uniti (v. oltre: Storia). A un sensibile miglioramento dei conti pubblici si sono infatti associati un consistente attivo delle partite correnti e un forte afflusso di capitali. Tuttavia a partire dal 1997 il tasso di incremento del PIL ha mostrato un rallentamento, proseguito anche nella prima metà del 1998, dovuto a una nuova inversione delle quotazioni del petrolio (v. tab.).
Nel complesso la situazione economica del paese resta caratterizzata da un clima di incertezza, in larga parte legato allo stock di debito estero (ancora più di 13 miliardi di dollari alla fine del 1998) e all'esito del completamento delle riforme (che pure il nuovo presidente H̠atamī ha dichiarato di volere proseguire), soprattutto per ciò che riguarda la privatizzazione del settore industriale, arenatasi in seguito a una legge che di fatto ha concentrato nelle mani di ristretti gruppi privilegiati il controllo delle aziende più redditizie, e la rimozione del sistema dei sussidi che, ancora nella seconda metà degli anni Novanta, assorbiva la quasi totalità delle entrate derivanti dall'esportazione di petrolio.
bibliografia
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J. Amuzegar, Adjusting to sanction, in Foreign affairs, may/june 1997, pp. 31-41.
Storia
di Silvia Moretti
La Repubblica Islamica dell'I., proclamata il 1° aprile 1979, ha superato in vent'anni di esistenza numerosi momenti di crisi: il primo, che avviò un lunghissimo periodo di tensione con gli Stati Uniti, fu determinato dall'occupazione dell'ambasciata americana a Teherān: molti dei funzionari presi in ostaggio restarono prigionieri degli studenti rivoluzionari dal novembre 1979 al gennaio 1981. In seguito, la lunga e devastante guerra con l'Iraq (1980-88) richiese enormi sacrifici al paese, in termini sia economici sia di vite umane. Contemporaneamente vennero alla luce i conflitti locali che da molti anni alimentano la tensione nella regione del Golfo (dispute territoriali con gli Emirati Arabi Uniti, attriti alle frontiere con i ṭālibān afghani), e la vita interna e le relazioni estere del paese furono anche fortemente condizionate dall'accusa lanciata all'I. dagli Stati Uniti di essere il mandante e il principale organizzatore del terrorismo islamico nel mondo. Ciò nonostante, pur in un contesto politico rigido e ostile al cambiamento e in una situazione economica a tratti molto difficile, sul finire degli anni Novanta la società iraniana ha mostrato un'insolita capacità di trasformazione, inimmaginabile appena un decennio prima, quando il regime dichiarava apertamente la sua volontà di chiudersi a qualsiasi contatto con l'esterno scagliando violenti anatemi contro l'Occidente.
La fine degli anni Ottanta segnò simbolicamente il cambio della guardia ai vertici politico-religiosi del paese, con la scomparsa dei grandi protagonisti della rivoluzione: l'āyatollāh Khomeini (H̠omeynī), morto nel giugno 1989, fu sostituito dal presidente H̠āmene'ī e capo dello Stato divenne il presidente del Parlamento, il riformatore moderato ‚Alī Akbar Rafsanǧānī, artefice di un governo di coalizione tra conservatori e riformisti, che si poneva l'obiettivo di una politica di distensione nei confronti delle grandi potenze occidentali. Ma le elezioni presidenziali del giugno 1993 rivelarono una palese insoddisfazione per la politica perseguita dal governo presieduto da Rafsanǧānī e, pur confermandolo una seconda volta nella carica di capo dello Stato, fecero registrare un sensibile calo di consensi in suo favore rispetto alle presidenziali del 1989. Già nel corso del 1992, infatti, l'avvio di una politica di liberalizzazione economica, i cui costi sociali avevano provocato una crescita del malcontento popolare, produsse l'esplosione di numerose rivolte in alcune città di provincia, duramente represse dalle forze di sicurezza. Il fallito attentato alla vita del presidente nel febbraio 1994, nel corso di un comizio tenuto nella capitale, confermò il clima di sfiducia nell'operato del governo. Il peggioramento fatto registrare dalla situazione economica (crescita del debito estero e della disoccupazione, deprezzamento del riyāl) fu particolarmente sentito dalle fasce più povere della popolazione urbana, il cui tenore di vita si ridusse drasticamente. Il timore di perdere il sostegno della base tradizionale del regime indusse il governo, nella primavera del 1994, a rivedere parzialmente la politica di liberalizzazione economica (in particolare per quanto riguardava la riduzione dei sussidi per i generi di prima necessità). Ciò nonostante nell'estate del 1994 in numerose città si verificarono proteste e disordini e una vera e propria rivolta contro il carovita scoppiò in un sobborgo di Teherān nell'aprile 1995. Alla fine dello stesso mese il presidente americano Clinton annunciò un blocco totale del commercio e degli investimenti nei confronti dell'I., accusato di fomentare il terrorismo internazionale, nonché di perseguire un programma per dotarsi di armamenti nucleari con l'aiuto di Russia e Cina. Seppure disatteso dal Giappone e da alcuni paesi europei, che mantennero la loro posizione di 'dialogo critico' con Teherān, l'embargo accentuò l'isolamento del paese e gli impedì di accedere ai finanziamenti a lungo termine presso gli istituti internazionali di credito.
In politica estera, dopo la dissoluzione dell'URSS nel 1991, l'I. poté estendere ulteriormente la propria influenza in alcune delle repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale, soprattutto in Azerbaigian (sostenuto da Teherān nel conflitto che lo vedeva opposto all'Armenia) e in Tagikistan (dove l'I. svolse un ruolo di mediazione nella guerra civile scoppiata nel 1992). Difficili rimasero i rapporti con i paesi vicini: con l'Iraq, indicato nel dicembre 1991 da un rapporto dell'ONU quale responsabile dello scoppio del conflitto del 1980-88, si aprì un contenzioso per le riparazioni, che si aggiunse alle tensioni determinate dal trattamento riservato dalle autorità di Baghdād alle popolazioni sciite presenti nelle regioni meridionali irachene e dall'appoggio iraniano ai curdi stanziati nell'Iraq settentrionale. La questione curda condizionò anche le relazioni con la Turchia, che migliorarono solo nel 1996 dopo la formazione a Istanbul di un governo a guida islamica. Una nuova crisi diplomatica tra i due Stati scoppiò nel corso del 1997, ma si chiuse prima della fine dell'anno.
Gli otto anni di mandato presidenziale di Rafsanǧānī delusero le aspettative di quanti speravano nella sua mediazione per avviare una forma di normalizzazione del regime che, abbandonate finalmente certe manifestazioni di fanatismo religioso, permettesse all'I. di rompere l'isolamento internazionale. Al contrario, il paese uscito dall'era Rafsanǧānī era complessivamente più povero, meno libero - soprattutto rispetto alle esigenze maturate tra le nuove generazioni - e vittima di un isolamento apparentemente senza via d'uscita. Era evidente la contraddizione tra l'effettiva modernizzazione avviata nella regione (alfabetizzazione, allacciamento di luce elettrica e acqua corrente nei villaggi, innalzamento delle aspettative di vita, partecipazione femminile alla vita sociale e alta percentuale di studentesse nei gradi di istruzione superiore) e il crescente impoverimento del paese, dove aumentava la disoccupazione e rischiava la paralisi il settore industriale.
In particolare, la partecipazione delle donne alla vita politica e sociale crebbe significativamente rispetto ai tempi della dinastia Pahlavī lasciando intravedere, tra donne laiche contrarie al regime e donne che condividono l'ideologia islamica impegnandosi nelle istituzioni dello Stato, un fronte unico di lotta per il riconoscimento dell'uguaglianza dei sessi e contro una rigida interpretazione dei testi coranici. Anche le giovanissime generazioni - in Iran si vota a sedici anni - hanno determinato un'incrinatura gravida di conseguenze nel fronte antiamericano e antioccidentale. Infatti, nonostante le proibizioni e le censure, a quasi vent'anni dalla rivoluzione islamica, gli interessi delle giovani generazioni, un tempo protagoniste della ribellione all'Occidente, sembrano ruotare quasi esclusivamente intorno ai modelli culturali propri del mondo occidentale. Questa insofferenza dei giovani - secondo il censimento del 1996 le persone di età compresa tra i 15 e i 30 anni sono 17 milioni, vale a dire circa il 58% dell'elettorato - verso la politica culturale dei religiosi più oscurantisti ha contribuito a far lievitare il peso politico dei riformisti.
Nelle elezioni legislative del marzo-aprile 1996 i conservatori subirono un calo considerevole di consensi a vantaggio dei riformisti filogovernativi tacitamente appoggiati dal presidente Rafsanǧānī.
Ma la svolta più significativa nella vita del paese fu determinata dai risultati delle elezioni presidenziali del 23 maggio 1997. A sorpresa Sayyed Muḥammad H̠atamī, già ministro della Cultura tra il 1981 e il 1992, ebbe ragione del candidato più forte, il presidente del Parlamento, leader dell'ala conservatrice, ‚Alī Aḥmad Nāṭiq Nūrī. Accusato da più parti di liberalismo e osteggiato dai leader religiosi per aver osato sfidare il regime nel 1992 rassegnando le dimissioni perché in disaccordo con il governo conservatore, H̠atamī non aveva più ricoperto alcun incarico di rilievo fino al giorno della sua investitura a candidato unico dell'alleanza riformista. Il suo successo inatteso, con oltre il 69% dei consensi, confermò la vitalità di una parte della società iraniana, in particolare donne e giovani, che dopo anni di silenzio uscì allo scoperto appoggiando il candidato riformista dalle colonne di alcuni organi di stampa. La vera sconfitta nelle elezioni presidenziali fu la cosiddetta fazione del Bazar, un tempo dominatrice indiscussa delle competizioni politiche. La destra conservatrice iraniana sembrò in quell'occasione aver perso il suo ascendente sugli imprenditori, gli amministratori e la nuova tecnocrazia islamica, ormai decisi a prendere le distanze dal clero più intransigente, da sempre radicato tra le fila della borghesia della fazione del Bazar.
Dopo le elezioni, un primo segnale delle grandi trasformazioni in atto fu la dichiarazione di stima al popolo americano resa da H̠atamī nel dicembre 1997 e ribadita meno di un mese dopo in un intervista televisiva (7 gennaio 1998). Nell'estate 1998 il freno imposto da H̠atamī alla propaganda antiamericana spinse gli Stati Uniti, dopo decenni di cronica conflittualità reciproca, a usare toni più concilianti verso l'I., auspicando l'avvio di un dialogo costruttivo tra i due paesi. Ma il passo più clamoroso fu la decisione iraniana di prendere le distanze dalla condanna a morte pronunciata da Khomeini nel febbraio 1989 contro S. Rushdie, autore del romanzo Versetti satanici: nel settembre 1998 il ministro degli Esteri Kamāl H̠arrazī lo annunciò pubblicamente durante una seduta delle Nazioni Unite.
Sul finire del 1998, nonostante l'ampio riconoscimento internazionale, il ruolo di H̠atamī e il peso politico delle sue scelte furono in qualche modo pregiudicati dall'evidente dualismo di poteri che domina la vita politica del paese; non va dimenticato che in I. il presidente della Repubblica, democraticamente eletto, può essere, in linea di principio, allontanato dalla sua carica dalla massima guida spirituale del paese, che viene scelta da un Consiglio di esperti costituito da poco più di ottanta religiosi.
Nel settembre 1998 il ritrovamento dei corpi di alcuni diplomatici iraniani a Mazār-i Sherīf, la città afghana riconquistata dai ṭālibān appena pochi giorni prima, fece crescere la tensione tra i due paesi causando il posizionamento di truppe iraniane ai confini con l'Afghānistān.
Tra novembre e dicembre 1998 una misteriosa catena di omicidi colpì alcuni dissidenti e intellettuali liberali impegnati in prima linea nella battaglia per la laicizzazione del regime. Le indagini portarono alla luce il coinvolgimento di alcuni agenti del potente ministero dell'Informazione, responsabile dei servizi segreti, da sempre roccaforte dei conservatori e in grado di agire impunemente, soprattutto in passato, fuori del controllo governativo. Nel febbraio 1999 i risultati delle elezioni dei consigli comunali, previsti già dalla Costituzione iraniana del 1979 ma mai entrati in funzione, rappresentarono una tappa importante nel processo di radicamento delle riforme nel paese: l'alto afflusso alle urne premiò i sostenitori del presidente H̠atamī, che a Teherān conquistarono 13 seggi su 15.
Nel luglio 1999 le manifestazioni di protesta degli studenti iraniani in favore della libertà di stampa e contro la chiusura del quotidiano Salām molto vicino al presidente H̠atamī, sfociarono, dopo il violento assalto al campus universitario di Teherān delle forze di polizia e degli estremisti islamici dell'Ansar-i Hezbollāh, in una vera e propria rivolta studentesca nelle piazze e nelle università della capitale, fermamente repressa.
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