Abstract
L’IRAP, introdotta anche con lo scopo di accordare una maggiore autonomia finanziaria e tributaria alle regioni, si caratterizza per un oggetto del tributo senza dubbio peculiare. Tale particolarità ha però dato luogo ad alcune rilevanti questioni intorno alla legittimità del prelievo, sia in sede costituzionale sia in sede comunitaria che, una volta risolte, hanno aperto la strada alla compiuta analisi della disciplina dell’imposta cui la presente voce è dedicata.
L’imposta regionale sulle attività produttive (d’ora in avanti IRAP) è stata introdotta in sostituzione di un novero alquanto eterogeneo di prelievi (ILOR; imposta sul patrimonio netto delle imprese; ICIAP; tasse di concessione comunale e contributi sanitari), con lo scopo di, per quanto possibile, razionalizzare e semplificare il preesistente sistema dei tributi e, nel contempo, assicurare una certa ampiezza e stabilità di gettito (invero essenzialmente destinato a finanziare la spesa sanitaria delle regioni), oltre che al fine di garantire una qualche autonomia finanziaria e tributaria in capo agli enti territoriali.
Dunque, a seguito di un’ampia elaborazione teorica e di approfonditi lavori preparatori, in attuazione della delega conferita con l’art. 3, co. n. 143 ss., della l. 23.12.1996 n. 662, il Governo ha emanato il d.lgs. 15.12.1997, n. 446, appunto istitutivo dell’Imposta regionale sulle attività produttive, autonomamente organizzate, dirette alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi, così come esercitate nel territorio delle singole regioni.
Sotto il profilo della ratio legis, l’IRAP, riposa su di una premessa teorica in base alla quale qualsivoglia attività produttiva di beni o servizi (anche se posta in essere da enti non commerciali o da pubbliche amministrazioni) si pone in relazione con il territorio, tipicamente con il territorio regionale, e, quindi, con la comunità regionale stessa e i suoi organi di autogoverno.
L’IRAP, in quanto istituita con legge dello Stato, è stata però considerata dalla giurisprudenza costituzionale un tributo statale, nonostante che il relativo gettito fosse (ed è tuttora) attribuito alle regioni (cfr. C. cost., 26.9.2003, n. 296). Successivamente, in virtù dell’espresso disposto di cui all’art. 1, co. 43, della l. 24.12.2007, n. 244, essa ha assunto la natura di tributo regionale proprio (seppur in senso ampio), “a decorrere dal 1° gennaio 2009 istituito con legge regionale”, termine quest’ultimo poi differito al 2010 a mente dell’art. 42 del d.l. 30.12.2008, n. 207.
Per completezza, va subito rilevato che – a dispetto della qualificazione legale nel senso appena detto – la disciplina del tributo rimane statale, difatti alle regioni non è consentito modificare la base imponibile (né, tantomeno, i soggetti passivi e il presupposto del tributo), ma solamente le aliquote, beninteso nel rispetto di precisi limiti prefissati (che verso il basso, a far tempo dal 2013, possono anche permettere l’azzeramento dell’aliquota stessa purché nel rispetto dei vincoli comunitari); ancora, agli enti territoriali è consentito disciplinare detrazioni e deduzioni, oltre ad essere concesso di introdurre speciali agevolazioni ed esenzioni, anche in quest’ipotesi nei limiti fissati dal legislatore statale. Quanto poi alla concreta manovrabilità dell’imposta in parola da parte delle regioni, è appena il caso di annotare che il d.lgs. 6.5.2011, n. 68 – emanato in attuazione della legge delega 5.5.2009, n. 42 sul federalismo fiscale – all’art. 5 impone altresì di rispettare i vincoli di coordinamento finanziario, appunto onde evitare che gli effetti finanziari di ogni iniziativa legislativa regionale nel senso sopra detto possano finire per scaricarsi sul bilancio statale a seguito di maggiori trasferimenti perequativi, come pure al fine di evitare di compensare eventuali riduzioni di gettito IRAP con un incremento dell’addizionale IRPEF.
Quanto infine ai profili procedimentali, la relativa normazione è stata analogamente affidata alle regioni, seppur sulla base di uno schema di regolamento-tipo regionale recante appunto la disciplina della liquidazione, dell’accertamento e della riscossione. In ogni caso le funzioni di liquidazione, accertamento e riscossione sono affidate all’Agenzia delle Entrate (cfr. art. 1, co. 44, della l. 24.12.2007, n. 244).
Dal quadro appena tracciato risulta quindi che una simile disciplina non garantisce alle regioni una significativa autonomia tributaria.
Per meglio comprendere un tributo particolare come l’IRAP pare conveniente principiare dall’illustrazione del suo fondamento economico. Quest’ultimo – come messo in risalto dagli studi che hanno preceduto l’introduzione del prelievo – mira a colpire il cd. “dominio sui fattori della produzione”, a sua volta espresso attraverso il “valore aggiunto reddituale” (ossia l’eccedenza del valore dell’output prodotto rispetto a quello degli input impiegati nel processo produttivo). Quest’ultima grandezza economica costituisce altresì la misura della ricchezza prodotta a seguito del processo produttivo e, ordinariamente, è destinata a remunerare i vari fattori della produzione (capitale, lavoro, organizzazione).
L’IRAP ha quindi per oggetto questa forma di “ricchezza” generata dall’organizzazione produttiva, essa costituisce una grandezza netta da cui però non si deduce (salvo alcune eccezioni) il costo del fattore lavoro e nemmeno gli interessi passivi.
La disciplina dell’imposta in parola ne rivela il carattere reale. L’IRAP, in quanto volta a colpire il dominio sui fattori della produzione – come detto espresso attraverso il valore aggiunto dalla medesima organizzazione generato – presuppone l’esistenza e l’idoneità di un indice di contribuzione. Quest’ultimo risulta invero diverso dagli indicatori classici di capacità contributiva (reddito, patrimonio, consumo), perciò l’IRAP può ben colpire soggetti la cui attività produce perdite di esercizio e non utile; difatti un risultato economico negativo non necessariamente è in grado di vanificare di per sé l’oggettiva espressività di forza economica attribuita alla stessa esistenza dell’organizzazione produttiva.
L’originalità dell’oggetto del tributo, che a sua volta costituisce uno dei tratti di maggiore innovazione giuridica dell’imposta, ha dato luogo ad un vivace dibattito dottrinale sulla legittimità costituzionale o meno del prelievo in discorso e, di conseguenza, sulla stessa portata del principio di capacità contributiva affermato nell’art. 53 Cost.
In particolare, a parere dei sostenitori della legittimità del tributo, il relativo presupposto costituisce un indice di capacità contributiva impersonale, rilevabile oggettivamente, come tale separato e distinto dalla capacità contributiva dei singoli individui, per cui – secondo la prospettiva in base alla quale la capacità contributiva è, anzitutto, criterio di riparto dei carichi fiscali fra tutti i consociati – non è irragionevole che il legislatore, nella sua discrezionalità, abbia scelto quale indice di contribuzione la posizione di “supremazia” all’interno del contesto sociale di appartenenza (rectius: il dominio sui fattori produttivi), così come espressa dal valore aggiunto prodotto attraverso l’esercizio di un’attività autonomamente organizzata.
All’opposto, secondo i sostenitori dell’incostituzionalità dell’IRAP, questa violerebbe il canone della capacità contributiva – inteso nella sua accezione tradizionale a sua volta esprimente una funzione di garanzia a tutela della persona del contribuente – stante la mancanza di un presupposto realmente espressivo di forza economica in capo al contribuente stesso. In questo senso illegittima sarebbe la tassabilità di un soggetto in perdita. Ancora, sempre secondo i critici del tributo, sarebbe irragionevole colpire il titolare dell’organizzazione produttiva in ragione di una ricchezza altrui e, del pari, censurabile sarebbe la sostanziale equiparazione tra titolari di redditi cd. “fondati” (d’impresa) e non fondati (di lavoro autonomo), per non dire della ingiustificabilità della legislativamente affermata indeducibilità del tributo ai fini delle imposte sui redditi.
La Corte costituzionale, con la nota sentenza 21.5.2001, n. 156, nel rigettare le censure sollevate, premessa la discrezionalità del legislatore nella scelta, in concreto, dei singoli indicatori di capacità contributiva, ha fondamentalmente ritenuto che il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate costituisce un valido indice di capacità contributiva in quanto rappresenta un fatto economico, diverso dal reddito, comunque espressivo di attitudine alla contribuzione in capo a chi, in quanto organizzatore dell’attività, è autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti che, in varia misura, concorrono alla sua creazione.
È appena il caso di precisare che il Giudice delle leggi, nella richiamata decisione, non ha preso posizione sulla pur sollevata questione dell’indeducibilità dell’IRAP ai fini delle imposte sui redditi perché riguardante la disciplina di queste e non del tributo regionale dalla stessa scrutinato. La relativa censura, tuttora viva, ipotizza una violazione degli artt. 3 e 53 Cost. stante l’irrazionale e incongrua limitazione rispetto al principio secondo cui il reddito va determinato al netto delle spese inerenti alla sua produzione.
Ciò ha quindi indotto il legislatore, dapprima a ribadire tale indeducibilità al fine di assicurare il rispetto delle regole europee derivanti dall’applicazione del patto di stabilità e crescita, nonché al fine di evitare interferenze tra le scelte di bilancio delle regioni e quelle dello Stato e, successivamente, ad attenuare tale indeducibilità consentendo di defalcare dalla base imponibile – ai fini delle imposte sui redditi – un importo pari al 10% dell’IRAP corrisposta, in quanto idealmente e forfetariamente riferibile al costo del lavoro e agli interessi passivi (cfr. d.l. 29.11.2008, n. 185, art. 6). Tuttavia, anche tale intervento non è sembrato sufficiente a dissipare ogni dubbio sulla legittimità costituzionale del tributo sotto il particolare profilo ora trattato, di talché il legislatore è dovuto nuovamente intervenire per ammettere – in aggiunta alla deduzione forfetaria appena descritta, invero poi riferita alla sola quota ideale corrispondente agli interessi passivi – la deducibilità, ai fini delle imposte sui redditi, di un importo pari all’imposta regionale relativa alla quota imponibile delle spese per personale dipendente e assimilato al netto delle relative deduzioni ai fini IRAP (cfr. d.l. 6.12.2011, n. 201, art. 2). Conseguentemente la questione dell’illegittimità dell’IRAP a cagione dell’indeducibilità della stessa ai fini delle imposte sui redditi – a tutt’oggi ancora in attesa di essere compiutamente esaminata dalla Corte costituzionale – pare, se non definitivamente superata, quanto meno ridimensionata.
Invero, deve ammettersi che permangono ancora dei dubbi sulla validità della giustificazione – su cui fa leva chi sostiene la legittimità della previsione dell’indeducibilità dell’imposta – costituita dalla scomposizione dell’imponibile del tributo in distinte quote, idealmente riferibili alle remunerazioni dei vari fattori della produzione (utile, risultato netto della gestione finanziaria, costo del lavoro). Difatti una tale disarticolazione dell’imponibile pare collidere con la stessa natura del valore della produzione netta che, in quanto determinato unitariamente per sottrazione, costituisce per ciò stesso una grandezza di sintesi non scomponibile.
L’IRAP ha altresì dato adito a dubbi di compatibilità con il diritto comunitario. Al riguardo, si è dubitato della legittimità del tributo in parola rispetto all’art. 33 della Direttiva n. 77/388/CE (cd. “Sesta Direttiva IVA”) che, per parte sua, non ammette l’introduzione di prelievi sulla cifra d’affari aventi le caratteristiche essenziali dell’IVA. Infatti, le pur rinvenibili differenze tra IRAP e IVA – per appuntarsi la prima su di una grandezza del “tipo reddito netto” (essendo ad esempio deducibili gli ammortamenti) e, la seconda, su di una grandezza del “tipo consumo” – non sono parse sufficienti agli Avvocati Generali presso la Corte di giustizia a sostenere la compatibilità del tributo regionale rispetto al diritto comunitario secondario. Ciò nonostante la Corte di giustizia, valorizzando la mancata proporzionalità dell’IRAP rispetto al prezzo dei beni e servizi forniti, come pure la sua neutralità rispetto al consumatore finale, ha escluso ogni contrasto con l’art. 33 della Sesta Direttiva IVA predetta.
Venendo ora a trattare del presupposto del tributo, questo è costituito dall’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata volta alla produzione di beni e servizi nel territorio della singola regione. Integrano dunque il presupposto dell’IRAP una serie alquanto eterogenea di attività, come quelle: d’impresa commerciale, lato sensu intesa, agricola, di lavoro autonomo, ovvero di erogazione di servizi, siano esse esercitate da enti non commerciali, come pure da enti pubblici.
Merita ora precisare che il richiamo alla cd. “autonomia” dell’organizzazione è diretto a sottolineare l’esigenza di stabilità e programmazione di un’attività, pur sempre riferibile al suo titolare ma non inserita all’interno di un’organizzazione altrui.
Strettamente connesso al tema del presupposto d’imposta è quello dei soggetti passivi. Difatti, l’estensione della stessa nozione del presupposto (a sua volta dovuta all’esigenza di assicurare un gettito ampio e stabile in buona parte destinato a rimpiazzare quello originato dai sostituiti contributi sanitari), impone di essere meglio precisata in relazione al singolo soggetto passivo.
In quest’ottica il legislatore ha incluso fra i soggetti passivi gli imprenditori individuali, gli esercenti arti e professioni (sia in forma individuale che associata), le società (sia di capitali che di persone), gli enti non residenti e, come accennato, gli enti non commerciali e le amministrazioni pubbliche (ivi comprese le amministrazioni dello Stato, gli enti territoriali e gli enti locali). Viceversa ha espressamente escluso i fondi comuni d’investimento mobiliare, aperti e chiusi (tranne le SICAV), i fondi comuni d’investimento immobiliare, i fondi pensione e i GEIE. Risulta dunque evidente come l’area della soggettività passiva dell’IRAP sia più estesa rispetto a quella delle imposte sui redditi.
Deve ora precisarsi che la formulazione del presupposto dell’IRAP nei termini suesposti, in uno con l’eterogenea elencazione dei soggetti passivi del medesimo tributo (tra cui sono compresi anche i lavoratori autonomi), non chiarisce immediatamente il concreto significato da attribuire all’espressione “attività autonomamente organizzata” il cui esercizio – come detto – costituisce presupposto dell’imposta.
Difatti, non risulta chiaro se sia sufficiente ad integrare il presupposto la semplice auto-organizzazione, risolventesi financo nella sola capacità di lavoro personale di chi svolge l’attività (ad esempio professionale), ovvero se sia necessaria una qualche etero-organizzazione, ulteriore rispetto al lavoro personale di chi esercita l’attività.
Sul punto specifico la Corte costituzionale – con la medesima sentenza n. 156/2001 – ha quindi precisato che, mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa d’impresa, nel caso di esercizio di un’attività diversa da quelle d’impresa (es. di lavoro autonomo), i soggetti passivi privi di assetto organizzativo – il cui accertamento compete al giudice di merito – difettano di un elemento determinante ai fini dell’integrazione del presupposto d’imposta e, conseguentemente, sono esclusi dall’IRAP.
Da quanto sopra si è conseguentemente originato un imponente dibattito giurisprudenziale che, giunto in sede di legittimità, ha portato la Corte di cassazione a ripetutamente affermare che le attività professionali e di lavoro autonomo integrano il presupposto dell’IRAP se: a) chi le esercita sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità; b) impieghi beni strumentali eccedenti le quantità che, secondo l’id quod plerumque accidit, costituiscono nell’attualità il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività anche in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui (cfr. Cass., S.U., 26.5.2009, nn. 12108, 12109, 12110 e 12111). Costituisce infine onere del contribuente che chiede il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta dare la prova dell’assenza delle predette condizioni.
Dunque, alla luce dei parametri fissati dalla Suprema Corte, si deve ritenere che la cd. “autonoma organizzazione” non si ravvisa nel caso della mera auto-organizzazione, ancorché creata e gestita senza vincoli di subordinazione, ma presuppone l’esistenza di un apparato organizzativo, riconoscibile come autonomo e distinto rispetto alla persona del suo titolare, risultante dall’integrazione di significativi beni strumentali, ovvero di lavoro altrui, con l’effetto di incrementare in misura apprezzabile la capacità produttiva riconducibile al lavoro personale del contribuente. In altre parole risultano escluse da IRAP tutte quelle attività caratterizzate da un minimo di mezzi materiali con funzione di mero ausilio rispetto alla sola attività personale del titolare.
Infine, per completezza, è appena il caso di rilevare che la stessa giurisprudenza di legittimità ha poi escluso da IRAP anche quelle attività d’impresa esercitate in forma individuale – giacché per quelle esercitate in forma societaria l’art. 2 del d.lgs. n. 446/1997 presume comunque l’autonomia dell’organizzazione (deve ritenersi in ragione della struttura plurisoggettiva) – purché caratterizzate dall’impiego di modesti mezzi strumentali oltre che dall’assenza di lavoro altrui (è questo il caso, ad esempio, dell’agente o del rappresentante di commercio, ovvero del promotore finanziario).
La disciplina della base imponibile IRAP risulta alquanto articolata. Difatti il legislatore delegato, anche in ragione dell’ampiezza e dell’eterogeneità del novero dei soggetti passivi, ha dovuto analiticamente prevedere distinte regole di determinazione dell’imposta. In ogni caso, pur nella obiettiva differenza dei singoli metodi di determinazione della base imponibile, è possibile rilevare la presenza di un nucleo di principi e regole generali, comuni a pressoché tutte le varie discipline settoriali.
A tale riguardo gli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 446/1997 individuano il valore della produzione netta realizzato all’interno del territorio regionale, con particolare riferimento alle società di capitali e agli enti commerciali, nella differenza tra il valore della produzione ed i costi ed oneri relativi alla gestione caratteristica dell’impresa (di cui all’art. 2425 c.c.), compreso quindi il valore degli ammortamenti e con esclusione del costo del lavoro, il tutto senza dare altresì rilievo al risultato della gestione cd. “straordinaria” e finanziaria dell’impresa. Tale entità – in coerenza con l’oggetto e il fondamento economico del tributo – costituisce quindi una grandezza del tutto originale e distinta rispetto alla nozione di utile lordo, rilevante ai fini della successiva determinazione del reddito d’impresa. Perciò le regole che presiedono alla determinazione dell’IRAP sono del tutto autonome rispetto a quelle relative alla determinazione IRES.
Nel quadro di questo particolarismo che caratterizza l’IRAP, sono poi state introdotte apposite regole volte a disciplinare talune singole componenti della base imponibile. Ad esempio, è stata stabilita l’indeducibilità delle perdite su crediti, dei compensi per prestazioni di lavoro autonomo non abituale e per collaborazioni coordinate e continuative, dei canoni di leasing limitatamente alla quota riferibile agli interessi passivi, dell’ICI. Tali regole – coerenti con la tassazione del valore aggiunto della produzione e non del reddito – sono in linea di massima valide anche per i contribuenti che si trovano in regime di contabilità semplificata e, quindi, non sono tenuti alla redazione del bilancio secondo i principi fissati dal codice civile.
Ora, poiché la determinazione della base imponibile IRAP principia dalle classificazioni delle singole voci del conto economico ai fini civilistici, il legislatore – ad evitare facili abusi – ha esplicitamente affermato che le singole componenti del valore della produzione, indipendentemente dalla loro formale collocazione all’interno dello schema legale di conto economico, sono accertate secondo criteri di corretta qualificazione, imputazione temporale e classificazione previsti in base ai principi contabili adottati dalle imprese.
Ancora, i singoli componenti rilevanti ai fini della determinazione della base imponibile IRAP vanno considerati tenuto conto delle regole previste, per ciascuno di essi, dal sistema delle imposte sui redditi, sempreché – ovviamente – non sussistano deroghe espressamente previste dalla disciplina dell’IRAP. In altre parole, a meno di contrarie indicazioni, trovano applicazione le norme del TUIR che prevedono variazioni in aumento o in diminuzione rispetto al risultato del conto economico civilistico. Di talché la stessa sistematica delle imposte sui redditi finisce per costituire (anche sul piano qualitativo) un paradigma interpretativo ai fini della determinazione della base imponibile IRAP.
Venendo ora a sinteticamente trattare degli speciali regimi di determinazione dell’imposta applicabili alle altre tipologie di soggetti passivi, è possibile premettere che le relative regole tengono conto delle differenti caratteristiche di calcolo del risultato d’esercizio e/o del reddito di tali soggetti.
Partitamente.
Per quanto attiene le banche e gli altri enti e società finanziari, la base imponibile corrisponde alla somma algebrica del margine d’intermediazione ridotto del 50% dei dividendi, degli ammortamenti e delle altre spese amministrative considerati per il 90%, oltre alle riprese e rettifiche di valore nette per deterioramento dei crediti verso la clientela, queste secondo quote costanti nell’esercizio in cui esse sono state contabilizzate e nei quattro successivi.
Per le SIM, le SGR e le SICAV, la base imponibile è data dalla differenza fra la somma degli interessi attivi, commissioni e proventi assimilati e la somma degli interessi passivi, commissioni ed oneri assimilati; le singole componenti si assumono in base ai rispettivi criteri di redazione del conto economico, a sua volta da redigersi in conformità alle indicazioni della Banca d’Italia.
Con riferimento alle imprese di assicurazione l’imponibile si determina in base alla somma algebrica dei risultati del conto tecnico dei rami danni e vita, cui si apportano alcune variazioni per ammortamenti (nella misura del 90%), dividendi (nella misura del 50%), perdite, svalutazioni e riprese di valore nette per deterioramento dei crediti, queste secondo quote costanti nell’esercizio in cui esse sono state contabilizzate e nei quattro successivi. Le varie componenti del valore aggiunto della produzione si assumono in base ai criteri di redazione del conto economico fissati dall’ISVAP.
Quanto agli esercenti arti e professioni, la base imponibile è data dalla differenza fra l’ammontare dei compensi percepiti e l’ammontare dei costi sostenuti inerenti all’attività esercitata, compresi gli ammortamenti ed esclusi gli interessi passivi e le spese per il personale dipendente. A tal fine le varie componenti della base imponibile sono assunte così come rilevanti ai fini delle imposte sui redditi.
Per le imprese agricole, escluse le società commerciali e i soggetti con volume d’affari annuo non superiore ad € 7.000,00, la base imponibile è invece determinata per differenza tra l’ammontare dei corrispettivi e l’ammontare degli acquisti destinati alla produzione. Gli stessi soggetti passivi in parola hanno altresì la facoltà di optare per la determinazione della base imponibile secondo le regole previste per le società di capitali e gli enti commerciali.
Infine, per gli enti non commerciali – incluse le Onlus e gli enti pubblici – la base imponibile è costituita dalle retribuzioni e compensi per prestazioni di lavoro dipendente e assimilato (es. collaborazioni coordinate e continuative), nonché per le attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente, non rilevando quindi né il risultato di gestione, né l’ammontare degli interessi passivi.
Nel caso particolare in cui l’ente non commerciale eserciti anche attività commerciali, la base imponibile di queste attività è determinata secondo le ordinarie regole previste per le società di capitali e gli enti commerciali, computandosi però i relativi costi deducibili non specificamente riferibili alle attività commerciali (cd. “costi promiscui”) secondo il rapporto costituito dall’ammontare dei ricavi e degli altri proventi di natura commerciale e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi. Da notare che per le amministrazioni pubbliche, nel caso di esercizio di attività anche di natura commerciale, il descritto criterio di determinazione su base ordinaria è applicabile dietro opzione, diversamente applicandosi il criterio cd. “retributivo” in precedenza descritto anche alle attività commerciali dai predetti enti pubblici svolte.
Da ultimo, è da precisare che il legislatore ha espressamente dettato alcune disposizioni comuni per la determinazione della base imponibile. Tra di esse merita ricordare la deducibilità dei contributi per le assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e, limitatamente a taluni soggetti passivi, dei contributi assistenziali e previdenziali relativi ai lavoratori dipendenti a tempo indeterminato; analogamente è ammessa la deducibilità di talune somme forfetariamente prefissate per ogni lavoratore dipendente a tempo indeterminato impiegato nel periodo d’imposta e, a far tempo dall’esercizio successivo a quello in corso al 31.12.2014, è concessa la deducibilità integrale dei costi per i dipendenti a tempo indeterminato.
Poiché l’IRAP è un tributo che ha come presupposto l’esercizio dell’attività nel territorio regionale e la cui disciplina è in parte determinata dalla singola regione cui, sotto il profilo finanziario, il gettito è destinato, nel caso di esercizio dell’attività nel territorio di due o più regioni è necessario procedere alla ripartizione del relativo gettito. All’uopo il legislatore ha fatto ricorso ad un criterio generale fondato sulla rilevanza del costo del personale. Più in particolare, si considera prodotto nel territorio di una singola regione il valore della produzione corrispondente alla quota delle retribuzioni, sul totale di esse, spettanti al personale dipendente addetto con continuità a strutture materiali operanti nel territorio della regione per almeno tre mesi. Sono fissati poi alcuni criteri speciali per determinati tipi di soggetti (es.: depositi raccolti per le banche; premi raccolti per le imprese di assicurazione; estensione dei terreni per le imprese agricole).
La territorialità dell’IRAP – pure in considerazione della sua realità – rileva anche con riferimento ai soggetti passivi residenti che esercitano attività produttive all’estero. In tal caso la quota di valore della produzione derivante da attività svolte all’estero attraverso l’impiego di strutture materiali operanti per almeno tre mesi all’anno – così come determinata sulla base del predetto criterio fondato sulle remunerazioni spettanti al relativo personale dipendente (ovvero in base ai criteri speciali suaccennati) – andrà scomputata dal totale del valore della produzione imponibile in Italia.
Quanto infine ai soggetti non residenti esercenti attività imponibili ai fini IRAP in Italia, l’imposta risulta dovuta sempreché l’attività nel territorio dello Stato sia svolta, per mezzo di una stabile organizzazione ovvero di una base fissa, per un periodo non inferiore ai tre mesi. A ben vedere tale criterio collega il periodo temporale di tre mesi all’esercizio dell’attività, e non già alla permanenza (invece rilevante per i soggetti residenti che svolgono attività all’estero), né tantomeno all’ammontare delle retribuzioni (rilevante nel caso di esercizio dell’attività interamente in Italia, sebbene nel territorio di più regioni), con l’effetto di assoggettare ad IRAP anche quelle attività che producono valore aggiunto senza ricorrere all’impiego di personale dipendente.
L’aliquota dell’IRAP, in origine fissata al 4,25%, è stata successivamente ridotta al 3,9%. Come già accennato retro, è consentito alle singole regioni autonomamente variare, sia in aumento che in diminuzione, la predetta aliquota fino ad un massimo dell’1%. Ancora, come pure già osservato, a decorrere dal 2013 ciascuna regione a statuto ordinario può ulteriormente ridurre l’aliquota IRAP – a carico del proprio bilancio – fino ad azzerarla, purché nel rispetto della normativa comunitaria e degli orientamenti della Corte di giustizia. Tale manovrabilità del tasso d’imposta deve altresì tener conto delle esigenze di coordinamento della finanza pubblica nel suo complesso in quanto la riduzione di aliquota non risulta ammessa se la singola regione abbia già aumentato l’addizionale regionale IRPEF oltre lo 0,5%. Va poi rilevato che la variazione di aliquota da parte delle singole regioni può essere differenziata per settori di attività e categorie di soggetti passivi. Peraltro, sono già stabilite aliquote di partenza differenziate per determinate attività (es. banche, assicurazioni, imprese agricole e pubbliche amministrazioni).
L’IRAP è dovuta per periodi d’imposta determinati secondo i criteri previsti ai fini delle imposte sui redditi.
La disciplina degli adempimenti dei contribuenti, nonché quella del controllo, liquidazione, accertamento e riscossione è modellata su quella delle imposte sui redditi. Essa continuerà ad applicarsi fintanto che non subentrino i regolamenti regionali – conformi allo schema-tipo approvato dalla Conferenza Stato-regioni – ove si individueranno le norme derogabili dai singoli enti territoriali, fermo restando che le funzioni amministrative rimangono riservate all’Agenzia delle Entrate (seppur secondo modalità di gestione disciplinate in base a convenzioni tra quest’ultima e le singole regioni).
L. 23.12.1996 n. 662, art. 3, co. 143 ss.; d.lgs. 15.12.1997, n. 446.
Fra le trattazioni a carattere generale è possibile segnalare: Buccico, C., L’Irap nel sistema tributario italiano, Napoli, 2000; Cociani, S.F., L’autonomia tributaria regionale nello studio sistematico dell’Irap, Milano, 2003; Commissione di studio per il decentramento fiscale, Relazione finale, in Fisco, 1996, 5383 ss.; Gallo, F., Imposta regionale sulle attività produttive (irap), in Enc. dir., Aggiornamento, V, Milano, 2002, 660 ss.; Marongiu, G.-Bodrito, A., L’imposta regionale sulle attività produttive (irap), in Amatucci, A., diretto da, Trattato di diritto tributario, IV, Padova, 2001, 451 ss.; Procopio, M., L’oggetto dell’Irap, Padova, 2003; Schiavolin, R., L’imposta regionale sulle attività produttive. Profili sistematici, Milano, 2007; mentre fra le opere manualistiche: Boria, P., Il sistema tributario, Torino, 2008, 958 ss.; Schiavolin, R., L’imposta regionale sulle attività produttive, in Falsitta, G., Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Il sistema delle imposte in Italia, Padova, 2012, 976 ss.