Abstract
L’IRES colpisce il reddito di alcune società e di alcuni enti con applicazione di un’aliquota fissa determinata, per il 2017, in misura pari al 24 per cento. Il problema della doppia tassazione dei redditi della società e dei redditi dei soci è stato risolto attraverso la previsione di una parziale esclusione da imposta per i dividendi. Al fine dell’applicazione di questo tributo, è determinate stabilire se la società o l’ente sia residente in Italia oppure all’estero. Sono altresì previste modalità di tassazione consolidate delle basi imponibili in presenza di “gruppi” di società.
Nell’ordinamento tributario italiano sono presenti due imposte sul reddito, entrambe disciplinate dal d.P.R. 22.12.1986, n. 917 (d’ora in avanti t.u.i.r.).
La prima, denominata «imposta sul reddito delle persone fisiche» (IRPEF), è connotata dalla progressività, giacché l’ammontare del tributo dovuto allo Stato aumenta più che proporzionalmente rispetto all’incremento della base imponibile.
“Progressività” significa, ad esempio, che se al reddito di 10 corrisponde un’imposta pari a 3, al reddito di 20 (che è il doppio di 10) non corrisponde un’imposta di 6 (che è il doppio di 3), ma di 8. Per arrivare a quest’ultima cifra (8) è stata applicata l’aliquota del 30 per cento su una parte del reddito (10) e l’aliquota del 50 per cento sulla seconda parte (gli altri 10). Il lettore osservi che al raddoppio del reddito non corrisponde un raddoppio dell’aliquota, mentre l’imposta aumenta, appunto, in misura più che proporzionale.
Nel t.u.i.r. la progressività dell’IRPEF è costruita per scaglioni di reddito. Infatti, la base imponibile è ripartita in fasce (per esempio, la prima fascia si attesta sull’importo di 15.000 euro; la seconda va da oltre 15.000 euro fino a 28.000 euro; la terza, da oltre 28.000 euro fino a 55.000 euro, e così via) e ad ogni fascia è abbinata, per l’appunto, un’aliquota crescente (il 23 per cento sul primo scaglione; il 27 per cento sul secondo; il 38 per cento sul terzo e così via, fino ad arrivare all’aliquota marginale più elevata, riservata ai “paperoni”, che si attesta, oggi, al 43 per cento). In passato, l’aliquota massima (ultimo scaglione) ha toccato il 72 per cento.
Si tratta di una progressività che può definirsi tendenziale, perché alcune tipologie di reddito, soprattutto nel campo della remunerazione dei capitali investiti (dividendi, interessi, differenziali) e in quello delle plusvalenze (capital gains), sono assoggettate a ritenute alla fonte a titolo definitivo o ad imposte sostitutive in percentuale fissa (per esempio, con aliquota del 26 per cento). Scontano, dunque, prelievi che esauriscono d’emblée il carico tributario riguardante quella specifica entrata ed esonerano per conseguenza il soggetto passivo da qualsiasi adempimento dichiarativo. Ciò a dimostrazione che, in Italia, i redditi non sono tassati allo stesso modo e che il soggetto più ricco dal punto di vista dell’Irpef non è affatto colui che espone la base imponibile più elevata nella propria dichiarazione.
È appena il caso di rilevare che le ritenute alla fonte a titolo definitivo e le imposte sostitutive sono, per definizione, discriminatorie, perché spostano il soggetto passivo dall’area della progressività, vale a dire dall'area della tassazione secondo il regime “naturale”, a quella della proporzionalità.
Nel riprendere il caso proposto all’inizio di questo paragrafo, il contribuente che abbia prodotto un reddito di 20 è tenuto a pagare, a titolo di Irpef, la somma di 8. Tuttavia, qualora sulla base di una “benedizione legislativa” il reddito di 20 fosse assoggettato ad una ritenuta secca pari, ad esempio, al 30 per cento, il carico fiscale si attesterebbe sull’importo di 6. Ed ecco, appunto, la disparità di trattamento, sulla quale si potrebbero effettuare approfondimenti nella prospettiva del rispetto del principio di uguaglianza.
La seconda imposta sul reddito presente nell’ordinamento italiano, chiamata, con denominazione ingannevole, «imposta sul reddito delle società» (IRES), grava in misura proporzionale, con aliquota del 24 per cento, sui soggetti diversi dalle persone fisiche, vale a dire su alcune società e sugli enti diversi dalle società.
Abbiamo detto “alcune società” e, al riguardo, ci sembra necessaria una sottolineatura quanto alle società di persone residenti in Italia, allo scopo di evitare equivoci e fraintendimenti.
Infatti, in aderenza alle disposizioni di diritto commerciale che si riferiscono all’apprensione degli utili da parte dei soci delle società testé richiamate (disposizioni, queste, stando alle quali, con l’approvazione del rendiconto annuale, l’utile appartiene ai soci, senza che vi sia la necessità di una delibera dell’assemblea che ne sancisca il trasferimento dal patrimonio del soggetto partecipato a quello del soggetto partecipante), queste ultime società non sono assoggettate né ad IRPEF, né ad IRES.
Esse acquistano la soggettività passiva per quanto riguarda la determinazione della materia imponibile, vale a dire per quanto riguarda la mera quantificazione del reddito, che spesso richiede la tenuta di una contabilità e la redazione di un bilancio. Per contro, è incardinata esclusivamente sui soci (siano essi persone fisiche o altre società) la soggettività passiva che attiene al pagamento delle imposte gravanti sulla materia imponibile previamente determinata dalla società personale. Si dice pertanto, con formula compendiosa ma chiara, che le società personali (le società semplici, le società in nome collettivo, le società in accomandita semplice e le altre società che a queste ultime siano state equiparate dalla legge fiscale), se residenti in Italia, sono “soggetti passivi d’accertamento”, mentre i soci sono “soggetti passivi d’imposta”. In breve: le società sopra individuate quantificano la ricchezza mentre i soci pagano il tributo sul reddito ad essi singolarmente ascrivibile. Infatti, il reddito determinato dalle società di persone è “imputato” ai soci, in vista del prelievo tributario, in ragione delle quote di partecipazione agli utili fissate nell’atto costitutivo.
L’espressione “imputazione” non significa che il reddito debba essere materialmente distribuito ai soci. Non sono richiesti, infatti, trasferimenti di denaro, perché l’imputazione va intesa come automatica, diretta ascrivibilità ai suddetti soci della ricchezza determinata dalla società e che si considera, appunto, sin dall’origine appartenente ai soci medesimi.
Da qui l’espressione “tassazione per trasparenza”.
“Trasparenza” vuol dire che la società la quale abbia determinato il reddito non è in grado di trattenerlo ed è costretta a lasciarlo andare su chi sta dietro, vale a dire sui soci, lungo il canale del rapporto partecipativo. Per metafora, il reddito è un raggio di luce e la società è un prisma. Il raggio colpisce il prisma e si divide in raggi di dimensione più piccola, che illuminano le figure dei soci. Il prisma non trattiene la luce ed è, per l’appunto, trasparente.
Per questa ragione, le società di persone residenti in Italia non sono assoggettate né all’IRPEF né all’IRES, mentre l’IRPEF e l’IRES dovrà essere pagata dai soci delle citate società, ai quali i redditi dell’ente sono imputati.
A partire dal 2017, le società di persone residenti in Italia possono optare per l’applicazione dell’IRI, imposta sul reddito imprenditoriale. L’esercizio di tale opzione consente di tassare separatamente il reddito d’impresa prodotto dalla società con la medesima aliquota prevista per la tassazione delle società commerciali rientranti nel comparto dell’IRES. Le somme prelevate dai soci a carico degli utili o delle riserve di utili si deducono dal reddito d’impresa della società di persone e sono tassate, di nuovo all’interno della categoria da ultimo citata, in testa agli stessi soci. Ciò significa che, qualora il socio della società di persone sia una persona fisica, gli utili distribuiti (e, pertanto, non rimasti all’interno del circuito della produzione economica) sono sottoposti a tassazione con applicazione delle aliquote progressive per scaglioni di reddito.
L’imputazione riguarda anche le eventuali perdite fiscali.
In conclusione – e per rimanere agli esempi – una società per azioni che possieda una partecipazione in una società in nome collettivo residente in Italia dovrà reputarsi soggetto passivo di IRES sia per la ricchezza che la società per azioni abbia autonomamente prodotta attraverso la propria attività, sia per la ricchezza che, prodotta dalla suddetta società in nome collettivo, sia stata imputata alla citata società per azioni attraverso il meccanismo della trasparenza.
Abbiamo visto nel precedente paragrafo che, nel caso delle società trasparenti, la materia imponibile determinata dalla società è tassata esclusivamente in capo ai soci. Ciò significa che, con riferimento a queste situazioni, il problema della doppia imposizione non ha ragione di esistere, perché la ricchezza rilevante sul piano tributario è colpita soltanto a valle, su di un unico soggetto (il socio).
Nel caso delle società soggette ad IRES (ma lo stesso discorso vale anche per gli enti diversi dalle società, sui quali però non è il caso di dilungarsi in questa sede), la situazione è molto diversa, perché ad essi non si applicano le regole civilistiche richiamate più in alto con riferimento alle società personali.
Invero, gli utili prodotti dalle società rientranti nel comparto dell’IRES s’incardinano nel patrimonio giuridico di queste ultime, non nel patrimonio degli azionisti o dei quotisti. Con particolare riferimento alle società di capitali residenti in Italia, i soci non sono titolari di un diritto soggettivo alla distribuzione degli utili fino a quando tale distribuzione non sia stata stabilita attraverso una delibera assembleare. Soltanto alla presenza di siffatta delibera la società è tenuta a pagare i dividendi ai soci e, a questo punto, il depauperamento che si produce in testa alla società è bilanciato da un incremento di ricchezza presso il socio, che si trova a disporre di una maggiore liquidità.
Questa nuova ricchezza costituisce reddito per il socio e, come per tutti i redditi, pone il problema delle ricadute sul piano impositivo. Infatti, si tratta pur sempre di ricchezza che esprime, in testa al titolare delle azioni o delle quote, un’idoneità alla contribuzione diversa da quella espressa dalla società nel momento in cui quest’ultima ha prodotto il proprio reddito attraverso l’esercizio di questa o di quella attività economica.
Per risolvere il problema qui sopra evidenziato, il legislatore avrebbe potuto muoversi secondo schemi diversi.
Per esempio, avrebbe potuto prevedere che la società non paghi l’imposta, e che il tributo sia dovuto dai soci, in occasione dell’incasso dei dividendi. Tale scelta avrebbe generato ripercussioni sul gettito erariale, perché avrebbe agganciato il prelievo tributario non già al periodo nel quale v’è stata la produzione del reddito (vale a dire il periodo di svolgimento dell’attività da parte dell’ente), bensì a quello nel quale l’utile, mercé la delibera di distribuzione, è entrato nel patrimonio giuridico dei soci.
In alternativa a quanto qui sopra riportato, il legislatore avrebbe potuto affermare che l’imposta pagata a monte dalla società costituisce una sorta di anticipazione dell’imposta dovuta, a valle, dai soci. Insomma, un vero e proprio acconto.
In effetti, il sistema del credito d’imposta è rimasto in vigore in Italia fino al 2003 (l’anno della cd. “Riforma Tremonti”, dal nome del Ministro delle finanze dell’epoca) ed è stato soppiantato, anche per evitare distorsioni sul piano dei principi europei, da quello secondo il quale i dividendi sono parzialmente esclusi da imposizione. Infatti, si è stabilito che i dividendi erogati a soggetti IRES rimangano esclusi da tassazione per il 95 per cento del loro ammontare (e rilevanti, dunque, per il residuo 5 per cento), mentre quelli pagati a persone fisiche o società di persone sono esclusi per il 50,28 per cento del loro ammontare (con conseguente tassazione sul 49,72 per cento del dividendo erogato). Sulla base di una modifica introdotta con la legge di bilancio 2015, i dividendi erogati ad enti non commerciali sono esclusi da tassazione per l’importo pari al 22,26 per cento del loro ammontare (con conseguente tassazione sul 77,74 per cento del loro ammontare).
La rilevanza fiscale del 5 per cento del dividendo pagato ai soggetti IRES rappresenta il mezzo tecnico attraverso il quale è stimato, per legge, l’ammontare delle spese sostenute per la produzione di quel reddito (consulenze, oneri bancari, spese di gestione dei pacchetti azionari e così via). In breve, queste spese si deducono analiticamente, ma il dividendo assume una parziale significanza fiscale, sia pure a forfait. È una scelta di semplificazione normativa. Ne discende che i dividendi possono circolare infragruppo con un moderato concorso alla determinazione del reddito delle società che li percepiscono.
Per contro, la rilevanza fiscale del 49,72 per cento degli utili erogati a persone fisiche oppure a società di persone è stata prevista nella prospettiva di raggiungere, su di un piano di valutazione complessiva della fiscalità della società e di quella del socio, un livello impositivo che si avvicini a quello massimo che sarebbe stato raggiunto nel caso in cui la ricchezza fosse stata prodotta da un soggetto IRPEF (43 per cento), senza avvalersi di strutture societarie rilevanti ai fini IRES.
In termini più semplici, si può affermare che, così come la persona fisica che eserciti direttamente un’attività economica può raggiungere, trovandosi nell’ultimo scaglione, l’aliquota del 43 per cento, parimenti è possibile pervenire a tale imposizione nel caso di esercizio dell’attività economica attraverso un soggetto IRES, come si evince dal seguente, elementare esempio (quest’ultimo esempio tiene conto dell’aliquota IRES del 27,5 per cento, rimasta in vigore fino al periodo d’imposta 2016).
Si immagini che la società abbia un reddito di 100, da assoggettare ad IRES con aliquota del 27,5 per cento. Il reddito che rimane dopo il pagamento dell’imposta è pari a 72,5, ottenuto sottraendo da 100 il tributo di 27,5.
In caso di distribuzione ai soci del reddito residuo (pari a 72,5), il socio manda a tassazione il 49,72 per cento del dividendo incamerato, vale a dire 36,05 (=72,5*0,4972).
Nell’immaginare che su tale importo si scarichi l’aliquota progressiva prevista per l’ultimo scaglione (43 per cento), si ottiene un carico fiscale in capo al socio pari a 15,5 (=36,05*0,43). L’imposta pagata dal socio (pari a 15,5), sommata all’imposta pagata dalla società (pari a 27,5), genera un carico fiscale complessivo, unitariamente riferito al soggetto partecipante e al soggetto partecipato, di 43, corrispondente al 43 per cento del reddito societario (100). Rammentiamo che, nella disciplina IRPEF, l’aliquota marginale più elevata è per l’appunto quella del 43 per cento.
Dall’esempio si può dedurre che è tendenzialmente indifferente produrre la ricchezza in modo diretto, come persona fisica titolare di una ditta individuale, oppure produrre la medesima ricchezza attraverso la struttura societaria. Abbiamo detto “tendenzialmente”, perché il coordinamento tra l’imposizione sulla società e l’imposizione sul socio non si presta ad una millimetrica realizzazione e il sistema tributario, come dovrebbe essere, a questo punto, chiaro, non funziona come un orologio svizzero (non è, in altre parole, perfetto).
Per esigenze di semplificazione dell’attività di accertamento e di riscossione, la tassazione del dividendo avviene con applicazione di un’imposta sostitutiva del 26 per cento sull’ammontare corrisposto al socio quando si tratti di dividendi riconducibili ai redditi diversi e generati da partecipazioni non qualificate (non però per gli enti non commerciali, per i quali i dividendi sono tassati in misura pari al 77,74 per cento del loro ammontare).
La partecipazione è “qualificata” allorché il rapporto partecipativo si attesti al di sopra di talune soglie riferibili ora all’esercizio del diritto di voto in assemblea ordinaria, ora alla partecipazione al capitale, analiticamente individuate dal t.u.i.r (2 per cento e 20 per cento quanto al voto, a seconda che la società sia quotata o meno; 5 per cento e 25 per cento per la partecipazione al capitale, anche qui con riferimento alle società quotate e alle società non quotate).
In modo analogo a quanto previsto per l’IRPEF, anche per l’IRES il presupposto è dato dal “possesso di redditi”, in denaro o in natura, rientranti nelle categorie indicate dal t.u.i.r.
Il concetto di “possesso” non è di matrice privatistica. Qui il testuale riferimento al “possesso” indica soltanto la titolarità della fonte generatrice del reddito, vale a dire la titolarità della situazione economica dalla quale scaturisce la ricchezza riconducibile, per l’appunto, a questa o a quella categoria reddituale.
Il t.u.i.r. individua, per le persone fisiche (e quindi per l’IRPEF, non già per l’IRES), sei categorie di reddito, in ragione delle diverse fonti produttive della ricchezza.
Segnatamente, si tratta dei “redditi fondiari”, scaturenti di regola da situazioni possessorie aventi ad oggetto immobili situati nel territorio dello Stato, iscritti o iscrivibili in catasto. Dei “redditi di lavoro dipendente” e “autonomo”, rispettivamente derivanti dallo svolgimento di attività lavorative alle dipendenze e sotto l’altrui direzione oppure in modo indipendente, sempre che si tratti di attività professionali non riconducibili al reddito d’impresa. Dei “redditi di capitale”, che sono il risultato di investimenti effettuati dal contribuente in depositi bancari, in obbligazioni, in titoli azionari e così via. Dei “redditi d’impresa”, generati attraverso l’esercizio di un’attività economica essenzialmente riconducibile al paradigma di cui all’art. 2195 c.c. Infine, dei “redditi diversi”, nella cui disciplina si collocano numerose fattispecie, quali, senza pretesa di esaustività, quelle riguardanti le plusvalenze emerse in occasione della cessione di immobili o in occasione della cessione di partecipazioni (capital gains), cui si aggiungono anche i redditi scaturenti dall’esercizio in modo non abituale di attività commerciali o libero-professionali.
Orbene, in considerazione del fatto che le società e gli enti rientranti nel comparto dell’IRES non presentano caratteristiche analoghe a quelle riscontrabili nelle persone fisiche, è stato affermato che le uniche categorie di reddito rilevanti ai fini della determinazione dell’imposta proporzionale (IRES) sono quelle dei redditi fondiari, dei redditi d’impresa, dei redditi di capitale e diversi. Le società e gli enti sono privi di braccia e non sono in grado di erogare, per ragioni evidenti, i servizi riconducibili alla disciplina del lavoro dipendente o del lavoro autonomo.
Per conseguenza, si potrà affermare, ad esempio, che un’associazione privata la quale possieda beni immobili dovrà dichiarare un reddito fondiario; che la stessa associazione, la quale abbia ceduto a titolo oneroso alcune partecipazioni societarie e abbia realizzato un differenziale positivo, dovrà altresì dichiarare un reddito diverso (sotto forma di capital gains); che una società commerciale la quale abbia esercitato attività economica dovrà esporre nella propria dichiarazione un reddito d’impresa.
È appena il caso di aggiungere, con specifico riferimento alle società commerciali, che il reddito ascrivibile a tali soggetti può essere classificato solamente nel reddito d’impresa, quale che sia l’attività in concreto esercitata. Qui la scelta legislativa è totalizzante: la forma domina la sostanza, e la natura del soggetto domina la natura della categoria reddituale. Per conseguenza, le società commerciali assoggettate all’IRES sono tenute a quantificare la propria base imponibile mediante l’esclusiva applicazione delle disposizioni dettate in punto di determinazione del reddito d’impresa.
Il t.u.i.r. propone una classificazione dei soggetti IRES che corrisponde, in termini un po’ largheggianti, alla seguente:
a) società di capitali residenti in Italia;
b) enti pubblici o privati diversi dalle società, residenti in Italia e aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale (cd. “enti commerciali”;
c) enti pubblici o privati, diversi dalle società, residenti in Italia e non aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale (cd. “enti non commerciali”);
d) società ed enti di ogni tipo non residenti in Italia.
I soggetti residenti in Italia sono tassati sui redditi ovunque prodotti, secondo il principio di world wide taxation. Si tratta di una regola analoga a quella presente nel comparto dell’IRPEF.
La tassazione in Italia di redditi generati all’estero pone il problema della doppia imposizione, che il t.u.i.r. fronteggia sia con strumenti convenzionali (trattati bilaterali contro le doppie imposizioni), sia attraverso strumenti domestici (disposizioni sul credito d’imposta a fronte dei tributi definitivamente assolti all’estero).
Per contro, i soggetti residenti all’estero sono tassati solamente per i redditi prodotti nel nostro territorio. Per individuare i redditi prodotti nel territorio si utilizzano i criteri di collegamento (tra soggetto e territorio, appunto) indicati dalla legge. Per esempio, per i redditi fondiari si guarda al luogo nel quale si trova l’immobile; per i redditi di capitale si guarda al luogo di residenza del pagatore; per il reddito d’impresa si guarda all’esistenza, in Italia, di una stabile organizzazione.
Il t.u.i.r. stabilisce l’esclusione dall’IRES per alcuni soggetti (per esempio, le province, le regioni e i comuni) e, in chiave antielusiva, fa rientrare negli enti diversi dalle società qualsiasi organizzazione per la quale non sia stata espressamente prevista l’esclusione dal campo di applicazione del tributo, purché la suddetta organizzazione sia idonea a possedere redditi che non possano dirsi appartenenti ad altri soggetti. Attraverso una lettura a contrario di quest’ultima disposizione, è stata esclusa, ad esempio, la soggettività IRES dei gruppi di società, dato che ogni società di gruppo è in grado di possedere redditi propri.
In conformità ad alcune recenti modifiche normative, anche i trust sono affiancati agli enti appena richiamati, potendo trattarsi di trust commerciali o non commerciali, di trust residenti o non residenti. Se i beneficiari del trust sono individuati, i redditi conseguiti dal trust sono imputati ai predetti beneficiari.
La classificazione dei soggetti sopra riportata assume importanza non soltanto sul fronte dell’attribuzione della soggettività passiva, ma anche su quello dell’individuazione delle disposizioni che, con riferimento a ciascun raggruppamento, fissano regole sul versante della determinazione del reddito complessivo netto e, per conseguenza, della base imponibile. Stiamo dicendo che ad ogni formazione di soggetti (società, enti commerciali, enti non commerciali, società ed enti non residenti) corrispondono regole proprie quanto alla determinazione della ricchezza fiscalmente rilevante.
Nel tentativo di semplificare l’argomento, si può dire che, per inequivocabile scelta legislativa, le società di cui al punto a) e gli enti di cui al punto b) sono per legge in grado di generare soltanto reddito d’impresa (o perdite d’impresa), con la conseguenza che, ai fini della determinazione della base imponibile, essi sono tenuti ad applicare unicamente le regole previste per quella categoria di reddito. Sul punto, si veda quanto detto più in alto.
Si tratta di regole molteplici ed articolate, dotate di un elevato grado di tecnicismo e sulle quali non è possibile soffermarsi in questa sede. Va appena ricordato, peraltro, che il reddito d’impresa muove dal risultato del conto economico, cosicché i soggetti in questione dovranno dotarsi di una contabilità e redigere un bilancio.
Aggiungiamo che, in presenza di rapporti partecipativi capaci di assicurare il controllo societario, è possibile optare per l’applicazione delle disposizioni sul consolidamento delle basi imponibili. Tale consolidamento consente di riunire, in un’unica dichiarazione, i redditi e le perdite determinati dalle singole società che hanno esercitato l’opzione e di procedere, in un secondo tempo, ad un unico versamento dell’imposta (IRES) determinata su di una sola base imponibile.
Il t.u.i.r. prevede due tipologie di regimi di tassazione consolidata.
La prima, a livello domestico, riguarda rapporti partecipativi tra società ed enti residenti nel territorio dello Stato. Qui l’opzione può essere esercitata per coppie di società e può essere declinata, pertanto, in modo selettivo, vale a dire includendo alcune controllate ed escludendone altre. Nel consolidato cd. “nazionale”, i redditi e le perdite determinate dalle società controllate si imputano alla controllante per la loro totalità, non già in ragione della caratura delle partecipazioni. Ciò a dimostrazione del fatto che, in questi casi, il legislatore mette in primo piano la funzione di direzione e coordinamento e svaluta, invece, la presenza di soci di minoranza.
La seconda tipologia di fiscal unit riguarda i rapporti di partecipazione tra società controllante residente in Italia e società estere. Devono entrare nel perimetro di consolidamento tutte le società estere controllate, secondo il modello “all in, all out”. In questo caso, i redditi e le perdite generati all’estero sono dichiarati dalla controllante italiana in proporzione alla quota di partecipazione.
Nel ritornare alla disciplina IRES dettata per le società di capitali, si può ribadire come esista un automatismo tra la struttura giuridica impiegata per lo svolgimento dell’attività e la tipologia del reddito da assoggettare ad IRES. Si sottolinea ancora il concetto: le società di capitali dichiarano reddito d’impresa quale che sia l’attività in concreto esercitata. Al verificarsi di talune condizioni riguardanti la tipologia dei soci e la caratura delle partecipazioni, anche le società di capitali residenti possono optare, per un arco temporale circoscritto, per il regime di trasparenza.
Per gli enti diversi dalle società tale automatismo non c’è ed è necessario svolgere un passaggio in più. Invero, quando si è al cospetto di un ente residente in Italia diverso dalle società (per esempio associazioni, fondazioni, comitati), è necessario stabilire se esso abbia assunto, sul piano tributario, la natura di ente commerciale o di ente non commerciale.
Soltanto nel primo caso (ente commerciale) la determinazione del reddito seguirà tout court la disciplina del reddito d’impresa. Invece, nel secondo caso (ente non commerciale), la determinazione del reddito seguirà uno schema simile a quello applicato per le persone fisiche. Infatti, l’ente non commerciale determina il proprio reddito complessivo movendo dalle singole categorie e valorizzando, pertanto, le singole fonti produttive della ricchezza (redditi fondiari, redditi di capitale, redditi diversi e redditi d’impresa).
Per conseguenza, un ente “non commerciale” potrà assumere anche la titolarità del reddito d’impresa (per esempio, con riguardo ad attività economiche svolte in via secondaria, non prevalente rispetto all’oggetto dell’ente stesso), da affiancare però alle altre categorie, qualora si siano verificati i presupposti economici previsti per legge per l’attivazione di queste ultime.
È il caso di precisare che la qualifica di ente “commerciale” o di ente “non commerciale” dipende dall’oggetto esclusivo o principale dell’ente, vale a dire dall’attività che si reputi essenziale per la realizzazione degli scopi indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto.
Tale attività essenziale può essere desumibile dalla legge che ha istituito l’ente, oppure dall’atto costitutivo, se redatto in forma di atto pubblico o di scrittura privata con firme autenticate. Qui il criterio seguito dal legislatore del t.u.i.r. è di tipo cartolare.
Talvolta, in mancanza di legge, di atto pubblico o di scrittura privata con sottoscrizione autenticata, si deve guardare all’attività in concreto esercitata. Qui il criterio non è più formale (cartolare), ma sostanziale, nel senso che si deve ragionare su ciò che l’ente fa, non su ciò che l’ente ha in programma di fare.
Nell’eventualità di un contrasto tra attività (essenziale) programmata e attività (essenziale) concretamente esercitata, sarà quest’ultima a prevalere sulla prima in vista della qualificazione dell’ente come soggetto “commerciale “o non commerciale”. Il lettore comprende, inoltre, che, stante il criterio di attribuzione della qualifica fiscale qui sopra descritto, non si può escludere che, nel transitare da un periodo d’imposta a un altro, un ente commerciale si trasformi in ente non commerciale e un ente non commerciale, a sua volta, assuma la qualifica di ente commerciale. Ciò in quanto – lo ribadiamo – tutto ruota intorno all’attività in concreto esercitata, in via prevalente o esclusiva, in ciascuna annualità fiscale. La qualifica di ente commerciale o di ente non commerciale può pertanto reputarsi, sul piano temporale, mobile.
Per quanto riguarda le società e gli enti non residenti nel territorio dello Stato, il t.u.i.r. stabilisce che si proceda alla determinazione del reddito complessivo mediante l’applicazione, alla ricchezza prodotta in Italia, delle regole dettate per le singole categorie di reddito.
Ai fini dell’IRES, si considerano residenti in Italia le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale nel territorio dello Stato.
La sede legale risulta dall’atto costitutivo. La sede dell’amministrazione va individuata, invece, in base al luogo nel quale sono assunte le decisioni più importanti per la gestione dell’ente, vale a dire il luogo nel quale è formata la volontà dell’organo che gestisce l’organizzazione produttiva. L’oggetto principale si trova poi nel luogo nel quale è esercitata l’attività economica.
Si tratta di presupposti di natura assai diversa, ora di ordine formale (sede legale), ora di ordine sostanziale (sede dell'amministrazione o oggetto principale). Si tratta, inoltre, di presupposti che funzionano secondo uno schema di alternatività, non di complementarietà. È dunque sufficiente che uno solo di essi si realizzi affinché la società o l’ente assuma, ai fini del tributo in esame, la qualifica di soggetto residente.
Il riferimento a presupposti di ordine sostanziale genera il problema dell'accertamento di tali situazioni, il quale può richiedere approfondite indagini sul campo e obbligare l'Amministrazione finanziaria a utilizzare i propri poteri istruttori al fine di stabilire, di volta in volta (vale a dire in relazione al singolo caso che essa sta esaminando), dove si trovi l’amministrazione o dove si trovi l’oggetto principale della società.
Si tratta di indagini difficili e, spesso, molto delicate, dietro alle quali possono celarsi casi di fittizie residenze all'estero (per le persone fisiche) o di esterovestizione (per le società).
È sufficiente un qualsiasi motore di ricerca per rintracciare, attraverso internet, i casi di attori, attrici, campioni dello sport, cantanti, stilisti, “nani”, “ballerine” e società di vario ordine e grado che si sono presentati, agli occhi dell'Amministrazione finanziaria, quali soggetti residenti all'estero pur essendo, in verità, residenti in Italia.
Il vocabolo “esterovestizione” significa che la società si presenta all’Amministrazione finanziaria come residente all'estero (esterovestita, appunto), mentre si tratta di società residente in Italia.
Il lettore avrà già capito che, quando ci si muove sul filo dell'accusa di fittizia residenza all'estero, le conseguenze di ordine sostanziale non sono trascurabili: cambia radicalmente, infatti, il modello impositivo, perché dalla tassazione dei soli redditi prodotti nel territorio dello Stato si passa alla tassazione dei redditi ovunque prodotti (world wide taxation). Allo scopo di facilitare i controlli e gli accertamenti da parte dell'Agenzia delle entrate, sono state introdotte nel t.u.i.r. alcune presunzioni legali relative di residenza fiscale in Italia.
Una volta che siano stati individuati i redditi appartenenti a questa o a quella categoria, si può procedere, per somma algebrica (vale a dire tenendo conto delle eventuali perdite), alla determinazione del reddito complessivo. Per passare dal reddito complessivo alla base imponibile si devono sottrarre, ove previsto, gli oneri deducibili.
Le perdite determinate da soggetti IRES attraverso le disposizioni riguardanti il reddito d’impresa possono essere riportate in avanti in misura non superiore all’ottanta per cento del reddito imponibile in ciascuna delle annualità nelle quali il suddetto riporto è effettuato.
Si tratta di scelta normativa che risponde all’esigenza di stabilizzazione del gettito, perché la sua applicazione impedisce che, per i periodi nei quali avviene l’utilizzo delle perdite, la società o l’ente possa evitare il versamento dell’IRES.
Non è chiaro se il riporto in avanti sia facoltativo oppure obbligatorio, anche se, da un punto di vista sistematico e di attenzione ai princìpi fondamentali, ci sembra preferibile la seconda soluzione (obbligatorietà del riporto). Infatti, le perdite rappresentano pur sempre posizioni soggettive di fondamentale importanza per la determinazione della capacità contributiva della società o dell’ente, dimodoché pare corretto affermarne l’obbligo di utilizzo in vista, appunto, della più precisa misurazione dell’attitudine alla contribuzione del soggetto passivo.
Il riporto in avanti comporta, ad esempio, che, qualora la perdita fiscale determinata nel periodo x ammonti ad euro 100.000 e qualora il reddito d’impresa del periodo x+1 ammonti ad euro 60.000, quest’ultimo reddito potrà essere abbattuto per la cifra di euro 48.000, pari, appunto, all’ottanta per cento del reddito, con conseguente tassazione del residuo, pari a 12.000. La perdita non utilizzata in abbattimento del reddito del periodo x+1 è disponibile per l’eventuale riporto, con applicazione delle medesime regole, nelle successive annualità.
In deroga alla regola qui sopra enunciata, il t.u.i.r. stabilisce che le perdite generate a seguito dell’avvio di una nuova attività produttiva (start up) siano integralmente riportabili in avanti senza il rispetto del limite quantitativo descritto più in alto (80 per cento del reddito d’impresa del periodo d’imposta successivo).
Pertanto, nel riprendere l’esempio riportato sopra, si potrà affermare che, qualora la perdita di euro 100.000 si sia generata nel periodo x e sia riconducibile all’avvio dell’attività economica, il reddito d’impresa del periodo x+1, pari ad euro 60.000, dovrà essere integralmente abbattuto dalla suddetta perdita. La perdita non utilizzata (euro 40.000) potrà quindi essere riportata in avanti, in abbattimento dei redditi di altre annualità e di nuovo senza limiti quantitativi, a partire dal periodo x+2.
Il concetto di “nuova attività produttiva” può prestarsi ad aggiramenti e forzature.
Il lettore immagini che la società a responsabilità limitata alfa, la quale abbia operato in un certo settore per un periodo di tempo abbastanza lungo, decida di conferire la propria azienda alla società a responsabilità limitata beta, di nuova costituzione e interamente controllata da alfa. Il soggetto è, evidentemente, “nuovo”, ma l’attività non lo è, perché beta è subentrata, attraverso il citato conferimento, nella conduzione dell’azienda in origine appartenente ad alfa. Il conferimento può dunque trasformarsi in un “cavallo di Troia” del quale la società alfa si serve per aggirare la disposizione sul parziale riporto in avanti delle perdite. Per osteggiare siffatti comportamenti, che declinano in un vero e proprio abuso, l’Amministrazione finanziaria interpreta in modo restrittivo il concetto di «nuova attività produttiva» ed afferma che il carattere della “novità” non riguarda solamente il soggetto, ma anche l’attività esercitata.
Si è già detto che l’IRES è un’imposta proporzionale incentrata su di aliquota fissa pari al 27.5 per cento. A partire dal 2017, l’aliquota è stata fissata nella misura del 24 per cento.
È stata peraltro stabilita, con macroscopici profili di incostituzionalità, la maggiorazione dell’aliquota di 10,5 punti per le società che abbiano acquisito la qualifica di “società di comodo”.
La qualifica di soggetto “di comodo” dipende dal mancato superamento di un test, attraverso il quale i ricavi della società o dell’ente sono confrontati con parametri ottenuti mediante l’applicazione di taluni coefficienti al valore delle attività risultanti dal bilancio.
I soggetti “di comodo” sono obbligati a dichiarare il reddito minimo quantificato sulla scorta delle disposizioni che si riferiscono a questa particolare categoria di società ed enti. Anche questo reddito è determinato applicando determinati coefficienti ai valori dell’attivo risultanti dal bilancio, con la conseguenza che la base imponibile esprime una variabile dipendente dal patrimonio, non già una variabile influenzata dallo svolgimento dell’attività.
La maggiorazione dell’aliquota è stata estesa anche ad altri soggetti, i quali presentano – dal punto di vista del legislatore – indici di pericolosità fiscale. Ci riferiamo segnatamente: alle società in perdita sistemica, vale a dire con perdite dichiarate per cinque periodi d’imposta consecutivi; alle società che, nei cinque anni, abbiano dichiarato perdite per quattro periodi d’imposta e, per la quinta annualità, un reddito inferiore a quello determinato in applicazione delle disposizioni sulle società di comodo; alle società che abbiano dichiarato, per trasparenza, un reddito determinato secondo le regole riguardanti le citate società di comodo.
Artt. 1, 5, 6, 11, 47, 55 bis, 72-77, 81, 83, 84, 89, 115, 117, 120, 122, 130-134, 143, 144, d.P.R. 22.12.1986, n. 917; art. 30, l. 23.12.1994, n. 724; art. 2, co. 36-decies e 36-undecies, d.l. 13.8.2011, n.138; art. 1, co. 61, l. 28.12.2015, n. 208.
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