Abstract
L’IRPEF è il tributo di maggiore importanza sotto il profilo quantitativo e qualitativo nel nostro ordinamento, in considerazione dell’ingente gettito che garantisce ed alla sua natura di strumento idoneo a perseguire le politiche in materia fiscale e di redistribuzione del reddito e, conseguentemente, ad attuare i principi costituzionali in materia tributaria. Si tratta, infatti, di un tributo che mira a colpire un presupposto che è un caratteristico esempio di indice di capacità contributiva, cioè il possesso di redditi in denaro o in natura (rientranti nelle sostanzialmente omnicomprensive categorie regolate dal t.u.i.r.), con una modulazione attraverso la previsione di forme di deduzione e detrazione ed un sistema di aliquote progressivo, tipico delle imposte personali.
L’IRPEF costituisce senz’altro il tributo di maggiore importanza sotto il profilo quantitativo e qualitativo nel nostro ordinamento.
Quanto al primo punto, è sufficiente riscontrare che nel 2014, il 54 per cento circa delle entrate tributarie pubbliche è derivato dall’IRPEF (v. http://www1.finanze.gov.it).
Quanto al secondo, va rilevato che l’IRPEF, in considerazione della sua versatilità e della struttura della relativa base imponibile – caratterizzata da una particolare ampiezza, da progressività e idoneità di personalizzazione – rappresenta il principale strumento attraverso il quale è possibile attuare le politiche in materia fiscale e di redistribuzione del reddito (Boria, P., Il sistema tributario, Torino, 2008, 136).
L’IRPEF, in particolare, costituisce la forma di attuazione maggiormente “naturale” dei principi costituzionali in materia tributaria – e, segnatamente, dei principi cristallizzati nei due commi dell’art. 53 – in quanto tributo che mira a colpire un presupposto che è un caratteristico esempio di indice di capacità contributiva (in termini generali, l’art. 1 del t.u.i.r. stabilisce che il presupposto dell’IREPF è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle sostanzialmente omnicomprensive categorie di cui al successivo art. 6) con una modulazione attraverso la previsione di forme di deduzione e detrazione ed un sistema di aliquote progressivo, tipico delle imposte personali (su cui v., per tutti, Falsitta, G., Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2012, 71, 116 e 125; Fantozzi, A., Il diritto tributario, Torino, 2003, 774; Puoti, G., L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Amatucci A., Trattato di diritto tributario, Padova, 2001, 5; sulla circostanza che l’IRPEF appaia come il «risultato sincretico di una pluralità di imposte reali, operanti al livello del presupposto e della base imponibile, e di un’imposta personale e progressiva, operante al livello della misurazione dell’imposta» v. Russo, P., Manuale di diritto tributario, Milano, 2009, 5; sulla crisi dell’imposizione diretta e progressiva nell’Unione europea v. invece Del Federico, L., Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010, XIV).
Il presupposto dell’IRPEF, in base all’art. 1 del t.u.i.r., è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell'art. 6.
Il legislatore, analogamente a quanto verificatosi nell’ambito della legislazione previgente, non ha fornito una definizione unitaria ed esplicita di reddito (per una panoramica storica v. Rinaldi, R., L’evoluzione del concetto di reddito, in Riv. dir. fin., 1981, I, 401).
Si tratta di una scelta meditata, come emerge dalla nota ministeriale di accompagnamento all’art. 1, in cui si è affermato che «nella prospettiva della certezza del diritto conviene modificare anche la disposizione definitoria del presupposto dell’imposta, di cui all’art. 1: nel senso di non conformarla ad un concetto teorico di reddito, alla cui enunciazione legislativa conviene rinunciare» (contro tale scelta v. Russo, P., Progetto di T.U. imposte sui redditi. Brevi considerazioni critiche, in Il fisco, 1986, 4977).
Ed invero, nella vigenza dei diversi testi regolatori delle imposte sui redditi succedutisi nel tempo, si era dibattuto se fosse necessario fare riferimento alla nozione di reddito-prodotto, in base alla quale costituirebbe reddito solamente l’incremento patrimoniale derivante da una fonte produttiva stabile; oppure alla nozione di reddito-entrata, che considera reddito ogni incremento patrimoniale, a prescindere dalla sua origine e, in particolare, a prescindere dalla sua riproducibilità (del tutto residuale, invece, è il riferimento alla nozione di reddito-consumo, in base alla quale l’imposizione dovrebbe essere ricollegata alla sola parte di novella ricchezza destinata al consumo, con esclusione di quella destinata al risparmio).
L’attuale formulazione dell’art. 1 del t.u.i.r attenua tale problematica, in quanto delinea il reddito come grandezza derivante dalla somma dei singoli redditi ricompresi nelle sei categorie create dal legislatore, secondo un tecnica casistica (Beghin, M., Le categorie nell’identificazione del presupposto e del soggetto passivo dell’Irpef, in Rass. trib., 2008, 625): resta fermo, tuttavia, che risulta necessario individuare un denominatore comune ai singoli redditi disciplinati nelle varie categorie e che consenta di sussumerli nella fattispecie generale reddito (in tal senso v. Potito, E., Il sistema delle imposte dirette, Milano, 1989, 7). Orbene, nonostante una parte rilevante dei redditi che rientrano nelle varie categorie rilevanti siano connotati dal derivare da una fonte stabile, va osservato che il legislatore ha progressivamente reso imponibili anche redditi non destinati a reiterarsi nel tempo, avvicinando così il presupposto dell’IRPEF a quello del reddito-entrata (su tale argomento v. Fantozzi, A., Il diritto tributario, Torino, 2003, 777; Gallo, F., Prime considerazioni sulla disciplina dei redditi di capitale nel novo T.U., in Rass. trib., 1988, I, 40; Tesauro, F., Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Torino, 2002, 20; dubbioso sul punto Falsitta, G., Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2012, 50; ed ancora, Micheli, G.A., Corso di diritto tributario, Torino, 1989, 375 sostiene che il reddito imponibile sarebbe approssimabile nel, ma assolutamente non coincidente al, concetto di reddito prodotto).
Il tutto secondo uno schema di tendenziale omnicomprensività del reddito imponibile, a prescindere dalla relativa fonte; schema che, secondo parte della dottrina, sarebbe coerente con la necessità di attuare l’art. 53 Cost., nella parte in cui richiede che tutti concorrano alle spese pubbliche in ragione della loro complessiva forza economica (Moschetti, F., Capacità contributiva, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 7), nel senso che il carattere fortuito o occasionale di un reddito non ne giustificherebbe la irrilevanza rispetto all’obbligo di partecipazione alle spese pubbliche (v. anche Lupi, R., Diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2002, 46, il quale evidenzia come il legislatore possa però ricollegare alla aleatorietà o volatilità del reddito la esclusione o mitigazione della relativa tassazione).
Non manca, peraltro, chi asserisca che l’unica nozione di reddito possibile sia quella “nominalistica”, in base alla quale sarebbe reddito tutto ciò che viene normativamente qualificato come tale (Glendi, C., La nozione di reddito fiscale, in AA.VV., Il reddito d’impresa nel nuovo Testo Unico, Padova, 1988, 127; Tinelli, G., Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Milano, 1991, 54).
Tale soluzione, tuttavia, va valutata con attenzione, posto che, se è vero che il riferimento alle categorie economiche del reddito-entrata e del reddito-prodotto sia chiaramente inadeguato, l’automatico rinvio a quanto stabilito dalla legge postulerebbe un’eccessiva discrezionalità per il legislatore, il quale – al limite – potrebbe individuare arbitrariamente i proventi da assoggettare a tassazione. In realtà, il principio di capacità contributiva, nella sua prospettiva garantistica nei confronti del cittadino, impone che via sia una coerenza interna della norma impositiva, nel senso che oggetto dell’imposta debbono essere i fatti riconducibili ad una determinata manifestazione di forza economica (De Mita, E., Appunti di diritto tributario, II, 1, Milano, 1988, 8; Lupi, R., Gli interessi nell’imposizione diretta, in Dir. prat. trib., 1990, I, 486).
Ebbene, dall’analisi dell’art. 53 sembra che, affinché si possa avere un reddito, espressione di forza economica, esso debba costituire: a) un incremento patrimoniale tangibile (non rappresentando reddito i risparmi di spesa o le aspettative di guadagni futuri); b) un incremento patrimoniale effettivo (cioè valutato al netto delle spese sostenute per il suo ottenimento); c) un’entità idonea ad essere posseduta da parte del soggetto passivo (Tosi, L., La nozione di reddito, in Tesauro, F., diretta da, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, I, Torino, 1994, 8).
Quanto alla circostanza che il reddito debba essere netto, la dottrina ha rimarcato come il legislatore fiscale detti sovente disposizioni specifiche per disciplinare la deduzione dei componenti negativi (anche attraverso forfettizzazioni e parziali o totali indeducibilità), contribuendo così ad allontanare la nozione di reddito valida ai fini impositivi da quella desumibile dalle regole economico-aziendali. Il tutto, molto spesso, al fine di ottenere effetti di «gonfiamento» della base imponibile, inopinatamente avallati dalla giurisprudenza costituzionale in considerazione dell’ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore in materia di determinazione della base imponibile (Falsitta, G., Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2012, 11-12).
Quanto alla circostanza che il legislatore richieda il possesso del reddito, va rilevato che, pur non mancando chi ritenga che si debba fare riferimento alla nozione civilistica di cui all’art. 1140 c.c., (Galeotti Flori, M.A., Il possesso del reddito nell’ordinamento dei tributi diretti. Aspetti particolari, Padova, 1983, 24), appaia maggiormente corretto fare riferimento ad una nozione diversa, autonoma, di possesso.
In prima battuta, il possesso del reddito può essere tradotto in termini di materiale e concreta disponibilità (Miccinesi, M., L’imposizione sui redditi del fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, 82; Fedele, A., “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del “cumulo”, in Giur. cost., 1976, I, 2163).
Sembra però corretto interpretare il termine possesso attribuendogli un oggetto diverso a seconda del tipo di reddito a cui si riferisce: in particolare, il possesso del reddito tende a convergere con il possesso della fonte (Fantozzi, A., Il diritto tributario, Torino, 2003, 785), inteso come relazione peculiare del soggetto con la fonte produttiva, relazione che si qualifica diversamente a seconda della categoria di reddito di cui si tratta.
Come anticipato, nel definire il presupposto dell’IRPEF, il legislatore ha rinviato alle categorie di reddito contenute nell’art. 6: redditi fondiari; redditi di capitale; redditi di lavoro dipendente; redditi di lavoro autonomo; redditi d’impresa e redditi diversi.
Dalla tecnica normativa impiegata, deriva che la problematica della definizione della nozione di reddito si è tendenzialmente spostata sulla inquadrabilità delle varie entrate nelle singole categorie reddituali (Fantozzi, A., Il diritto tributario, Torino, 2003, 780), nel contempo trasformando il reddito complessivo nella sommatoria dei redditi delle varie categorie, categorie che – sebbene tendenzialmente omogenee al loro “interno” – sono tra loro eterogenee per quel che riguarda sia natura, sia modalità di determinazione, sia regole formali (per esempio in materia di contabilità ed accertamento).
La scelta di suddividere i redditi in sei distinte categorie deriverebbe dalla volontà di garantire la certezza del diritto (nel senso che i redditi che non rientrano in alcuna delle categorie individuate non sarebbero imponibili, come ritiene Potito, E., Il sistema delle imposte dirette, Milano, 1989, 7); dalla volontà di realizzare una forma di omogeneità, grazie all’individuazione di una fonte comune per ciascuna categoria e tenendo conto delle caratteristiche dei diversi redditi (Puoti, G., L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Amatucci A., Trattato di diritto tributario, Padova, 2001, 19 e Falsitta G., Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2012, 69, che evidenzia come ogni categoria costituisca un autonomo “sistema”); e dalla volontà di rendere omnicomprensiva l’imposizione, attraverso l’allargamento di talune nozioni civilistiche (per esempio quelle di impresa e lavoro dipendente) e la creazione della categoria residuale dei redditi diversi (Tesauro, F., Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Torino, 2002, 18; critico sulla tecnica normativa adottata Fantozzi, A., Il diritto tributario, Torino, 2003, 781).
Si tratta di un sistema che, sebbene ispirato alla volontà di garantire la certezza del diritto e di semplificare l’individuazione dei redditi imponibili, finisce con l’esasperare la determinazione casistica delle fattispecie e prescindere dall’individuazione di una ratio unificante, lasciando così spazio all’arbitrio del legislatore (Zizzo, G., Riflessioni in tema di tecnica legislativa e norma tributaria, in Rass. trib, 1988, I, 33).
Tanto più se si considera che il legislatore ha introdotto quelle che sembrano delle vere e proprie norme di chiusura del sistema: ci si riferisce, in particolare, alla lett. l) dell’art. 67 t.u.i.r., che considera imponibili i redditi derivanti genericamente dalla «assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere».
Talché, sebbene si sia in presenza di una casistica apparentemente rigida, restano fermi margini di indeterminatezza nella definizione delle categorie reddituali (e quindi della nozione di reddito), tali da consentire l’ampliamento dell’area di imposizione anche a fattispecie dubbie, non espressamente disciplinate dal legislatore.
Ad esempio, si ritiene tradizionalmente che gli incrementi patrimoniali conseguiti a titolo gratuito (si pensi a quelli intercorrenti tra soggetti legati da vincoli di parentela) siano irrilevanti a fini dell’imposizione reddituali (pur potendo astrattamente rilevare ai fini di altri tributi, quali l’imposta sulle successioni e donazioni). Tale affermazione, tuttavia, va valutata con attenzione, posto che la percezione di determinate somme, ancorché a titolo occasionale e gratuito, può comunque rilevare se, per esempio, verificatasi nell’ambito dell’impresa o di un’attività lavorativa (si pensi all’imponibilità dei contributi alle imprese o delle mance ai croupier).
Un tema che in tempi recenti – per effetto della stabilizzazione dell’inflazione – ha perso di rilievo, ma che in passato è risultato molto delicato, è quello del rischio che l’imposizione non rispetti il requisito di effettività, ogniqualvolta colpisca incrementi patrimoniali nominali, cioè derivanti dalla perdita di potere di acquisto della valuta di riferimento. L’inflazione, inoltre, produce effetti distorsivi in termini di progressività, poiché può comportare, nel tempo, il passaggio ad un’aliquota superiore, pur in assenza di un effettivo incremento di forza economica (cd. drenaggio fiscale).
Ed ancora, l’inflazione incide sul sistema fiscale in quanto può rendere non più attuali i valori forfetari individuati dal legislatore (si pensi, da un lato, agli importi assunti per la determinazione del reddito imponibile in materia immobiliare e, dall’altro lato, all’ammontare di deduzioni e detrazioni indicate in termini fissi o con un tetto massimo).
Ebbene, il tema è stato affrontato dalla Corte costituzionale, che ha negato che il principio della tassazione di un reddito effettivo possa dirsi violato «solo per il fatto che una fluttuazione del valore della moneta abbia cresciuto l’incidenza fiscale di un tributo pur nella incontestabile presenza di un effettiva capacità del contribuente» (C. cost., 8.11.1979, n. 126).
D’altro canto, la dottrina ha rilevato come la tassazione degli incrementi patrimoniali di stampo puramente monetario sarebbe costituzionalmente giustificata dalla situazione “relativamente migliore” dei titoli di beni che subiscono l’effetto inflattivo, rispetto a quella di chi non benefici nemmeno di un incremento nominale (Fedele, A., Gli incrementi “nominali” di valore nell’INVIM ed il principio di capacità contributiva, in Riv. dir. fin., 1982, I, 62).
Non può tuttavia sottacersi che l’inflazione, oltre ad incidere sul quantum (tema su cui viene tradizionalmente riconosciuta un’ampia discrezionalità al legislatore) rischia di spingersi ad incidere altresì sulla natura, sull’oggetto del tributo (Capaccioli, E.-Perrone, L., Gestione dell’impresa ed inflazione: profili tributari, in Riv. guardia fin., 1981, 188; Marongiu, G., INVIM ed inflazione: riflessioni a margine di un recente articolo, in Dir. prat. trib., 1979, I, 879), poiché un’imposta originariamente finalizzata a colpire il reddito potrebbe finire con il colpire il patrimonio. Ebbene, in un simile caso sarebbe prospettabile una censura di costituzionalità ex art. 3 Cost., per incoerenza della norma rispetto alla finalità perseguita (Moschetti, F., Capacità contributiva, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1988, 17).
Il tema è dunque aperto, ma resta il fatto che la tassazione di un reddito correttamente inteso richiederebbe il continuo adeguamento dei parametri monetari all’inflazione.
Si tratta, va da sé, di una soluzione tecnicamente troppo complessa per pensare che possa essere perseguita: tant’è che il legislatore ha storicamente seguito la strada, da un lato, di rivedere periodicamente i principali valori monetari di riferimento dell’imposizione (scaglioni di reddito, misura delle deduzioni e detrazioni, ecc., non solo per adeguarli all’inflazione ma anche con finalità di politica economica) e, dall’altro lato, di introdurre previsioni straordinarie volte a consentire ai contribuenti di adeguare i valori storici ai valori correnti. Ma proprio dalla non sistematicità degli interventi correttivi si è rinvenuta una conferma indiretta della potenziale imponibilità dei redditi di stampo puramente monetario (Falsitta, G., La supposta intassabilità permanente delle plusvalenze monetarie dei beni d’impresa, in Rass. trib., 1987, II, 437).
Altro tema rilevante è quello della tassazione dei redditi cd. figurativi, cioè di quei redditi privi di reale sostanza e consistenza, come tipicamente accade per i redditi attribuiti a fabbricati non locati e terreni non coltivati (diversa è la questione della tassazione degli utili non percepiti, che tipicamente si verifica in capo ai soci di società di persone e che rappresenta una particolare tecnica impositiva basata sull’assegnazione di un ruolo trasparente alla società di persone ed all’attribuzione ai soci degli utili prodotti ancorché non distribuiti, in quanto comunque acquisibili dai soci).
Ora, da un punto di vista strettamente economico e finanziario risulta arduo attribuire un reddito (vuoi nell’ottica del reddito-entrata, in quella del reddito-prodotto ed in quella del reddito-consumo) ad un contribuente in relazione al possesso di un bene (tipicamente un immobile) a prescindere dall’utilizzo che ne fa (in particolare, nel caso in cui non lo impieghi).
La giustificazione della sussunzione di un reddito figurativo nella nozione di reddito imponibile potrebbe avvenire solamente ampliando quest’ultimo all’area delle potenzialità reddituali (Nuzzo, E., Modelli ricostruttivi della forma del tributo, Padova, 1987, 38 e ss.), ricollegando così il prelievo ad un ipotetico incremento patrimoniale rappresentato dalla permanente facoltà di ricavare un’utilità dalla mera disponibilità del bene, utilità che a sua volta deriva alternativamente dalla possibilità di impiegare produttivamente il bene o dal risparmio goduto rispetto a chi il bene debba acquisirlo.
Tale suggestiva soluzione sembra però difficilmente condivisibile, essendo più ragionevole che il legislatore abbia introdotto nella tassazione reddituale una componente di tipo patrimoniale, ai fini perequativi o di politica economica e sociale (Potito, E., Il sistema delle imposte dirette, Milano, 1989, 15), con riferimento, ad esempio, alla volontà di incentivare la residenzialità, garantire la fluidità del mercato, limitare la concentrazione della proprietà (temi che sono chiaramente di stampo extra-fiscale).
La necessità di rispettare il requisito di effettività ha condotto il legislatore a limitare a casi isolati la predeterminazione sul piano normativo delle basi imponibili, in quanto tali predeterminazioni sono per definizione inidonee ad individuare realtà economiche sistematicamente mutevoli (Tosi, L., Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999, passim; sul necessario parallelismo tra imponile determinato con criteri forfetari ed imponibile accertato con criterio forfetari e sull’esigenza di individuare capacità contributiva effettiva v. anche Basilavecchia, M., Metodi di accertamento e capacità contributiva, in Rass. trib., 2012, 1107).
La ratio alla base della scelta di abbandonare la misurazione analitica del reddito ed abbracciare forme di predeterminazione risponde essenzialmente a finalità agevolative per il contribuente (anche grazie al correlato snellimento degli adempimenti fiscali) e di semplificazione dell’attività di controllo ed accertamento per l’amministrazione finanziaria.
Per quel che riguarda il rapporto con il requisito dell’effettività, il tema è particolarmente delicato con riferimento ai redditi dei terreni (considerato che per i fabbricati vi sono metodologie di adeguamento al reddito effettivo, prima tra tutti quella di considerare imponibile il canone di locazione ridotto forfetariamente per considerare le spese sostenute), che sono sistematicamente determinati catastalmente, ancorché il reddito così determinato possa divergere in modo assai sensibile dal reddito effettivo.
La scelta del legislatore risente certamente del retaggio storico di una concezione essenzialmente statica della proprietà fondiaria (Miccinesi, M., Il reddito dei fabbricati: profili e considerazioni critiche, in AA.VV., La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive, III, Aspetti finanziari e tributari, 236 e ss.), nonché della volontà di attuare finalità extra-fiscali di politica economica.
Secondo alcuni, peraltro, i meccanismi di adeguamento delle rendite, se attentamente attuati, potrebbero garantire il rispetto del requisito dell’effettività della tassazione (De Mita, E., Redditi catastali e capacità contributiva, in Fisco e Costituzione, Milano, 1984, I, 878). In realtà, anche in considerazione della grande evoluzione del settore dell’agricoltura, sembra che l’aggiornamento del catasto non possa far altro che perseguire la revisione di un reddito che rimane potenziale medio-ordinario e che, pertanto, stride con il principio di capacità contributiva (Moschetti, F., La tassazione del reddito normale: lineamenti costituzionali, in Leccisotti, M., Per un’imposta sul reddito normale, Bologna, 1980, 82; Muleo, S., Materia agraria ed imposizione reddituale: spunti critici, in Riv. dir. fin., 2003, I, 547).
L’art. 6, co. 2, t.u.i.r. stabilisce la regola che i proventi conseguiti in sostituzione di redditi e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti.
Di qui si può ricavare l’esclusione da tassazione di quei proventi che costituiscono una mera reintegrazione del patrimonio. A tal proposito, in dottrina si è rilevato come il legislatore tributario sembri aver fatto propria la distinzione, caratteristica del diritto civile, tra danno emergente, escluso da tassazione, e lucro cessante, imponibile (Marongiu, G., La intassabilità dell’indennità sostituiva delle ferie non godute, in Dir. prat. trib., 1993, I, 65; sulla natura immanente dell’intassabilità del danno emergente v. Ficari, V., Tassazione delle somme corrisposte a titolo transattivo e risarcimento del lucro cessante, in Rass. trib., 1998, 1374).
Secondo altra parte della dottrina, tuttavia tale distinzione meriterebbe di essere superata, in quanto inadeguata poiché l’imponibilità di un provento richiede comunque di fare riferimento alle singole categorie reddituali e perché il binomio danno emergente-lucro cessante sarebbe difficilmente applicabile in fattispecie di danni non patrimoniali e di danni alla persona (Puri, P., A proposito del trattamento fiscale dell’indennità supplementare per licenziamento ingiustificato, in Riv. dir. trib., 1992, II, 256; Della Valle, E., Appunti in tema di erogazioni risarcitorie ed indennità sostitutive, in Riv. dir. trib., 1992, I, 821).
Tradizionalmente si ritiene che il tema dell’imposizione sia insensibile rispetto alle istanze di carattere etico, nel senso che possono dare luogo a reddito tassabile anche attività illecite, come del resto pare desumibile dalla formulazione dell’art. 53, che non subordina il dovere di concorso alle spese pubbliche alla liceità dell’attività svolta dal contribuente (Boria, P., La tassazione delle attività illecite, in Riv. dir. trib., 1991, I, 509; contra Potito, E., Il sistema delle imposte dirette, Milano, 1989, 17, il quale si sofferma sulla non stabilità dell’acquisizione di detti redditi e Giovannini A., Principi costituzionali e nozione di costo nelle imposte sui redditi, in Rass. trib., 2011, I, part. 626, secondo cui l’art. 53 Cost., in quanto espressione dei principi di solidarietà e legalità, impedisce di rendere presupposto d’imposta un componente reddituale in conflitto con interessi generali dell’ordinamento).
Anzi, ci si potrebbe spingere ad affermare che sarebbe prospettabile una violazione del principio di uguaglianza qualora si dovesse creare una sperequazione in termini di imponibilità, tra i contribuenti rispettosi della legge (i cui proventi sarebbero tassati) rispetto a quelli “fuori legge” (che rischierebbero di non essere tassati).
Tant’è che il legislatore, con l’art. 14, co. 4, della l. 24.12.1993, n. 537 ha statuito che nelle categorie di reddito di cui all’art. 6 t.u.i.r. devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. E che detti redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria.
Tale regola, inoltre, è stata oggetto di una disposizione (quantomeno apparentemente) di interpretazione autentica, che ha specificato che i citati proventi illeciti, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all'art. 6 del t.u.i.r. sono comunque considerati come redditi diversi (art. 36, co. 34 bis, d.l. 4.7.2006, n. 223).
Il tema della speculare rilevanza dei costi illeciti, invece, dopo i dubbi di costituzionalità del testo originario del co. 4 bis dell’art. 14 l. n. 537/1993 (che negava la deduzione di componenti negativi riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, «fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti») è stata affrontata con l’art. 8 d.l. 2.3.2012, n. 16, che ha stabilito che non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale.
Per quanto riguarda la famiglia, il legislatore, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale 14.7.1976, n. 179, ha abbandonato il criterio del cumulo giuridico dei redditi dei coniugi e scelto il criterio della tassazione individuale (su cui v. Turchi A., La famiglia nell'ordinamento tributario, Torino, 2012, 59 s. e 99 s.; Giovannini, A., Famiglia e capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2013, I, 228; Perrone, L., Il cumulo dei redditi familiari: costituzionalmente illegittimo o soltanto iniquo?, in Giur. cost., 1976, I, 2188; Fedele, A., "Possesso" di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del "cumulo", in Giur. cost., 1976, I, 2159; Tosi, L., Considerazioni sul regime fiscale della famiglia: discriminazioni ai danni delle famiglie monoreddito, prospettive di riforma e problematiche di ordine costituzionale, in Rass. trib., 1988, I, 337).
E ciò a prescindere dal regime patrimoniale adottato (separazione dei beni o comunione legale), fermo restando che, nel caso di comunione legale, i redditi prodotti dai beni oggetto di comunione sono imputati a ciascuno dei coniugi per metà del loro ammontare (art. 4 t.u.i.r.) ed i proventi dell’attività separata di ciascun coniuge sono in ogni caso a questo imputati per l’intero ammontare.
Il criterio adottato dal legislatore può essere considerato in linea con il principio della capacità contributiva, nel senso che conduce ciascun coniuge ad essere tassato in base al proprio reddito, ma in un’ottica familiare, a parità di ricchezza complessivamente generata, risulta penalizzante per i nuclei monoreddito rispetto a quelli plurireddito (sulla legittimità costituzionale di tale situazione v. Moschetti, F., Capacità contributiva, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 12: «se dunque la titolarità del reddito spetta giuridicamente al singolo componente il nucleo familiare e non al soggetto famiglia distinto dai singoli, il giudizio di capacità contributiva non può essere riferito alle famiglie in quanto tali e, venendo meno il presupposto stesso della comparazione, perde significato la pretesa disparità di trattamento tra famiglie aventi diversa composizione reddituale»).
La rilevanza dell’IRPEF rispetto al sistema tributario viene confermata dall’ampiezza dei soggetti passivi, rappresentati, ai sensi dell’art. 2 t.u.i.r., dalle persone fisiche residenti e non residenti nel territorio dello Stato.
Il legislatore ha disciplinato espressamente il tema della residenza, stabilendo che si considerano residenti i soggetti che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.
Sono stati così affiancati ad un criterio puramente formale, quello dell’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente, due criteri di tipo sostanziale, cioè quelli legati alla residenza ed al domicilio (su cui v. Marino, G., La residenza nel diritto tributario, Padova, 1999; Melis, G., Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, Milano, 2009, 112; Marello, E., La residenza fiscale nelle Convenzioni internazionali, in Giur. it., 2009, 2586).
Resta fermo che l’imposta, in linea con i principi generali in materia di territorialità, si applica in modo distinto ai soggetti residenti, per i quali rilevano i redditi ovunque siano prodotti, ed ai soggetti non residenti, per i quali rilevano i soli redditi che si considerano prodotti in Italia ai sensi dell’art. 23 t.u.i.r. (sul tema della territoriali ed il ruolo della residenza rispetto all’imposizione diretta v. Fransoni, G., La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2004, part. 357 e ss.; Cordeiro Guerra, R., Diritto tributario internazionale - Istituzioni, Padova, 2012, 35 e ss.).
D.P.R. 22.12.1986, n. 917; d.P.R. 4.2.1988, n. 42; Art. 14 l. 24.12.1993, n. 537; art. 36 d.l. 4.7.2006, n. 223; art. 8 d.l. 2.3.2012, n. 16.
Boria, P., Il sistema tributario, Torino, 2008; De Mita, E., Appunti di diritto tributario, II, 1, Milano, 1988; Falsitta, G., Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2012; Fantozzi, A., Il diritto tributario, Torino, 2003; Fedele, A., "Possesso" di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del "cumulo", in Giur. cost., 1976, I, 2159; Gallo, F., Prime considerazioni sulla disciplina dei redditi di capitale nel novo T.U., in Rass. trib., 1988, I, 40; Lupi, R., Diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2002; Marongiu, G., La intassabilità dell’indennità sostituiva delle ferie non godute, in Dir. prat. trib., 1993, I, 65; Micheli, G.A., Corso di diritto tributario, Torino, 1989; Moschetti, F., Capacità contributiva, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988; Perrone, L., Il cumulo dei redditi familiari: costituzionalmente illegittimo o soltanto iniquo?, in Giur. cost., 1976, I, 2188; Potito, E., Il sistema delle imposte dirette, Milano, 1989; Puoti, G., L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Amatucci, A., Trattato di diritto tributario, Padova, 2001; Rinaldi, R., L’evoluzione del concetto di reddito, in Riv. dir. fin., 1981, I, 401; Russo, P., Progetto di T.U. imposte sui redditi. Brevi considerazioni critiche, in Il fisco, 1986, 4977; Tesauro, F., Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Torino, 2002; Tinelli, G., Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Milano, 1991; Tosi, L., La nozione di reddito, in Tesauro, F., diretta da, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, I, Torino, 1994.