Vedi ISCHIA dell'anno: 1961 - 1973 - 1995
ISCHIA
(Πιϑηκουᾖσσαι, Aenaria). − Isola di origine vulcanica che limita ad occidente il Golfo di Napoli. Sulla collina del Castiglione, situata sulla costa tra Porto d'Ischia e Casamicciola, è stato rinvenuto da G. Buchner un abitato preistorico dell'Età del Bronzo e della prima Età del Ferro. Lo strato dell'Età del Bronzo ha restituito la ceramica caratteristica della Civiltà Appenninica, (v. appenninica civiltà) tra cui anche begli esemplari con decorazione incisa a spirale e meandro. Particolarmente notevole, nello stesso strato, il rinvenimento di tre frammenti di ceramica micenea, appartenenti ad una fase piuttosto antica del Miceneo iii A (circa 1425-1375 a. C.). Altri due frammenti micenei sono stati rinvenuti in un altro abitato appenninico del vicino isolotto di Vivara. Si deve a W. Taylour la pubblicazione e classificazione particolareggiata dei frammenti micenei di Castiglione e Vivara, la cui importanza per la cronologia della Civiltà Appenninica è ovvia. I., che secondo le conoscenze odierne costituisce la località d'Italia più distante dai centri d'origine in cui sia stata trovata ceramica micenea, ebbe quindi contatti col mondo egeo già ben più di mezzo millennio prima della colonizzazione ellenica. Lo strato dell'Età del Ferro della stazione di Castiglione appartiene alla stessa facies dello stanziamento preellenico di Cuma. Il villaggio è stato abbandonato in seguito ad una eruzione vulcanica avvenuta nell'immediata vicinanza, poco dopo la fondazione della colonia ellenica, come rivela la presenza di qualche raro frammento di ceramica geometrica greca.
Secondo Strabone (v, 247), lo stanziamento di Pitecusa è stato fondato da coloni di Eretria e di Calcide in Eubea che vissero in prosperità, finché una parte di essi abbandonò l'isola, prima per dissidi interni, poi spaventati da eruzioni vulcaniche. Egli non fornisce nessuna indicazione cronologica, tuttavia il fatto che Eretriesi e Calcidesi vi presero parte unitamente, insegna che la fondazione dev'essere avvenuta prima dell'inizio della guerra Lelantina. Lo stesso Strabone (v, 243) afferma che Cuma sarebbe stata la più antica colonia greca d'Italia e di Sicilia. Livio (viii, 22, 5) riferisce invece che i Calcidesi, prima di fondare Cuma sull'opposta sponda del continente, si sarebbero stabiliti nell'isola di Pitecusa. Si potrebbero dunque combinare questi due testi e dedurne che sia esistita una tradizione secondo la quale Pitecusa sarebbe stata la più antica colonia greca del Mediterraneo occidentale. Quest'ipotesi viene avvalorata dal fatto che negli scavi recenti vi è apparsa ceramica greca più antica di quella sinora rinvenuta a Cuma, e nelle altre colonie elleniche d'Italia e di Sicilia. (Che l'isola e la città abbiano avuto lo stesso nome si rileva dal periplo dello Pseudo-Scilace: Πιϑηκουᾖσα νηᾖσοσ καιᾕ ποᾒλις ῾Ελληνιᾒς, Ps. Skyl., 10. Il nome appare più spesso nella forma plurale, ma anche al singolare, con s raddoppiata oppure semplice).
Il sito della città antica e della sua necropoli è stato identificato già da Francesco De Siano, dotto locale della fine del '700, col promontorio di Monte di Vico e con la sottostante Valle di S. Montano, presso l'odierno paese di Lacco Ameno, all'angolo N-O dell'isola. Praticamente limitate a quanto era stato già riconosciuto dal De Siano rimasero le conoscenze che si avevano dell'archeologia d'I., prima dell'imzio delle ricerche sistematiche di G. Buchner. Soltanto ristretti saggi sono stati intrapresi finora sull'acropoli di Monte di Vico. Il promontorio, già precedentemente occupato da un villaggio indigeno delle Età del Bronzo e del Ferro, è stato poi ininterrottamente abitato dall'VIII all'inizio del I sec. a. C., come insegna il materiale raccoltovi, tra cui anche numerosi frammenti di terrecotte architettoniche del VI, V e IV secolo.
Lo scavo sistematico della necropoli è stato iniziato nel 1952 e da allora annualmente proseguito. La maggioranza delle tombe finora scoperte (complessivamente circa 6oo) appartiene all'VIII e VII sec. a. C. Fino all'inizio del VI sec. non vi sono cambiamenti sostanziali nei tipi delle sepolture. Cremazione ed inumazione furono praticate contemporaneamente. Il procedimento della "sepoltura a cremazione" era sempre il medesimo. Il rogo veniva acceso su un ustrinum, fuori della zona finora scavata, mai sul posto stesso della tomba; i suoi avanzi, ceneri con molto legno carbonizzato contenenti alla rinfusa frammenti di ossa calcinate, ceramica e ornamenti personali bruciati, venivano portati sul luogo di sepoltura e ammucchiati in superficie. Inoltre, un'oinochòe intera, non bruciata, era spesso posata sul mucchio di ceneri. Questo poi si ricopriva con un tumulo di pietre grezze, del diametro di 1,5-3 m. Per lo più il tumulo era coperto interamente di pietre, mentre alcuni di quelli più recenti avevano soltanto un muro circolare, destinato evidentemente, in origine, a contenere un tumulo di terra. Spesso i tumuli sono intenzionalmente innestati in altri preesistenti, o anche parzialmente sovrapposti, a modo di scaglie di pesce. È interessante notare la stretta corrispondenza dei tumuli pitecusani con le tombe descritte da Omero, specie con la tomba di Patroclo (Il., xxiii, 255 s.), a prescindere, come è naturale, da quelle differenze, tuttavia non sostanziali, che necessariamente dovevano distinguere la tomba di un eroe da quelle di poveri comuni mortali. Anche la funzione dell'oinochòe non bruciata viene spiegata da Il., xxiii, 250: è la brocca che aveva servito a spegnere col vino le braci del rogo. Le sepolture ad inumazione sono per lo più a fossa con cassa di legno. Alcune grosse pietre grezze furono di regola posate sul coperchio della cassa, alle due estremità e talvolta anche in mezzo. Meno frequenti sono tombe a fossa con rincalzo di pietre, in cui queste furono poste intorno e sopra il cadavere in modo da riempire interamente o quasi la parte inferiore della fossa. Molto frequenti sono le tombe di infanti in anfore vinarie con, oppure anche senza, protezione di pietre di rincalzo. Per lo più le tombe a fossa sono orientate da S-E a N-O, con la testa a S-E, ma le eccezioni sono frequenti.
Come non c'è una sostanziale differenza nei tipi di sepoltura fino al principio del VI sec., così non c'è nemmeno una notevole differenza nei generi degli oggetti del corredo durante questo periodo. (Notevoli differenze appaiono soltanto nei secoli seguenti, quando cambiano anche i tipi di sepolture). Praticamente senza eccezione, anche in tombe di piccoli bambini, si trovano un'oinochòe e una kotýle o altro tipo di potèrion, cioè la brocca da vino e una tazza per bere. Ugualmente generale è anche l'usanza di porre nella tomba piccoli vasi da profumo, arýballoi o altri simili vasetti, spesso in numero considerevole. Abbastanza frequenti, ma soltanto nel periodo protocorinzio antico, sono le lèkythoi a corpo conico. Più raramente si trovano pissidi e lekònai. Armi mancano del tutto (ad eccezione di due sauroktères da tombe a cremazione del Protocorinzio medio). Piuttosto rari gli strumenti da lavoro (alcuni coltelli di ferro, in una tomba un'accetta e uno scalpello di ferro, fusaiole di terracotta o anche di pastiglia egiziana, un ago da cucire di bronzo). Per quanto riguarda gli ornamenti personali è da osservare che fibule si trovano nella maggior parte delle tombe. Generalmente stanno in modo simmetrico sulle due spalle, con la punta in alto. Sono da menzionare inoltre orecchini plurispirali di argento e armille e anern da dito di bronzo. Di particolare interesse sono gli amuleti, scarabei e sigilli scarabeoidi orientali, che si trovano posti sul petto − furono, cioè, portati appesi al collo − e, salvo rarissime eccezioni, soltanto in tombe di bambini o giovanetti.
Segue una caratterizzazione delle diverse classi di oggetti che costituiscono il corredo funebre delle tombe dell'VIII e VII sec. a. C.
Ceramica. − La ceramica locale, fabbricata dai coloni greci con l'ottima argilla figulina che si trova nell'isola stessa, rappresenta in genere una precisa imitazione della ceramica protocorinzia. Tra la ceramica importata questa ultima è molto frequente e presente fin dalle tombe più antiche finora scavate. Tuttavia, nel periodo più antico, vasi da profumo cretesi − arýballoi oppure piccole lèkythoi sono più frequenti degli arýballoi globulari protocorinzi. Soltanto verso la fine del periodo protocorinzio antico prevalgono questi ultimi. Il più recente arýballos cretese è stato trovato associato con un arýballos protocorinzio ovoidale di sagoma ancora relativamente arcaica. Meno frequentemente, ma tuttavia in numero considerevole, si trovano piccoli vasi del tipo cosiddetto "monocromo argivo". Si aggiunge un gruppo miscellaneo di ceramica sporadicamente importata, tra i luoghi d'origine della quale, spesso non ancora identificati, si possono citare, per esempio, Rodi e Cipro, mentre una piccola anforetta di bucchero del noto tipo con doppia spirale incisa proviene dall'Italia centrale.
La ceramica greca più antica finora rinvenuta a Pitecusa è rappresentata da quel più antico tipo di kotýle protocorinzia che divenne meglio conosciuto e giustamente apprezzato quale tipo iniziale della serie evolutiva di questa forma di vaso, attraverso la pubblicazione del ricco materiale di Aetos a Itaca (M. Robertson e S. Benton). Tombe contenenti questo tipo di kotýle, o anche la forma tipologicamente precedente con labbro sagomato, sono ancora molto rare nella necropoli di S. Montano. Soltanto quattro sono state scoperte finora. Tuttavia, fra i cocci sporadici trovati tra le tombe o nella terra di riempimento delle fosse, sono venuti alla luce frammenti di parecchie dozzine di esemplari. Di gran lunga più frequenti sono le imitazioni locali, cui appartengono anche i quattro esemplari trovati in tombe. Ma anche i pezzi protocorinzi genuini non sono affatto rari (frammenti di almeno una dozzina di esempî, di cui uno, qui riprodotto, si è potuto ricostruire quasi integralmente). La scoperta di questo tipo di kotýle ha un'importanza storica notevole: infatti, esso non è stato finora mai trovato in Italia e in Sicilia.
Sono da notare ancora due vasi di particolare interesse. Il primo è un cratere tardo-geometrico, molto probabilmente di fabbricazione locale, con la rappresentazione di un naufragio. Su un lato del vaso campeggia la grande nave capovolta, al di sotto della quale, tra i pesci, sono raffigurati due naufraghi. Sull'altro lato un enorme pesce sta divorando un uomo, di cui ha già in bocca la testa, mentre intorno si vedono una moltitudine di pesci e altri naufraghi. Il cratere non è stato trovato in una tomba, ma fu ricomposto da frammenti sporadici. Un importante indizio cronologico è costituito tuttavia dal fatto che alcuni suoi frammenti sono stati trovati al di sotto di una tomba a cremazione contenente arýballoi protocorinzi globulari. Non si sbaglierà quindi datando nell'ultimo quarto dell'VIII sec. a. C. questo cratere pitecusano, che costituisce un unicum nella pittura vascolare geometrica. (Si conosce una sola altra rappresentazione geometrica di un naufragio, su un'oinochòe attica ora nella Antikensammlung di Monaco, che però è molto diversa, nella composizione e nello stile; v. R. Hampe, Die Gleichnisse Homers und die Bildkunst seiner Zeit, fig. 7-11, e Arch. Anz., 1954).
L'altro vaso è una coppa geometrica rodia, rinvenuta in una tomba a cremazione, che reca incisa un'iscrizione metrica in tre righe. Nel primo verso, che può essere interpretato come trimetro giambico, l'epigramma allude al Νεᾒστορος... ευᾓποτον ποτηᾒριον, la famosa coppa di Nestore. Nei seguenti due esametri dattilici si paragona invece la presente coppa: chi beva da questa, subito sarà preso dal desiderio della ben coronata Afrodite (αυ½τιᾒκα κειᾖνον/ιᾐμερος αι¾ρηᾒσει καλλιστεºαᾒνου ῾Αºροδιᾒτης). Non potendo qui entrare nei particolari dei problemi filologici che il testo e la sua restituzione sollevano, basti questo accenno al contenuto dell'epigramma, nel quale sembra di poter scorgere una arguta contrapposizione: da una parte l'epico Nestore, vecchio e grave, con il suo ευᾓποτον ποτηᾒριον, dall'altra gli spensierati bevitori con la coppa d'argilla. Le lettere sinistrorse del graffito, di sorprendente calligrafica regolarità, hanno le caratteristiche dell'alfabeto calcidese. L'iscrizione fu quindi apposta in Pitecusa, o comunque in ambiente euboico. Gli indizi cronologici offerti dallo scavo stesso (gli altri vasi del corredo e la stratigrafia orizzontale) e quelli che indipendentemente si possono raccogliere sull'età di questo ben noto tipo di coppe, concordemente fanno assegnare il vaso al terzo venticinquennio dell'VIII sec. a. C. Il graffito appartiene quindi ai più antichi esempî di scrittura greca che si conoscano.
Fibule. − Le numerose fibule, di bronzo, argento e ferro (con la sola eccezione di due esemplari di tipo greco orientale) appartengono tutte ai tipi recenziori, con staffa lunga, delle fibule comunemente dette italiche. Che queste fossero usate dai Greci di Sicilia, era già noto attraverso i rinvenimenti fatti nelle tombe di Siracusa. Rispetto a questi, le fibule di Pitecusa completano e allargano considerevolmente le nostre conoscenze, sia per l'accresciuto numero dei tipi, sia perché le tombe risalgono a periodi più antichi. È stata infatti una sorpresa rinvenire fibule con staffa lunghissima già nelle tombe più vetuste, mentre si era pensato finora che l'allungamento della staffa avesse avuto inizio appena intorno al 700 a. C. L'ipotesi che le cosiddette fibule italiche a staffa lunga siano in realtà un'invenzione greca, e precisamente italiota e siceliota, è stata di recente accettata in pieno da H. Hencken. Qui basti accennare che le fibule di Pitecusa implicano problemi di notevole interesse che riguardano particolarmente anche l'archeologia preistorica dell'Età del Ferro e le relazioni tra le popolazioni indigene e i coloni greci (v. fibula).
Scarabei. − Sono stati studiati e pubblicati 31 esemplari (S. Bosticco), altri, rinvenuti successivamente, sono ancora inediti. La grande maggioranza proviene da tombe della seconda metà dell'VIII sec., soltanto due sono stati trovati in tombe della prima metà del VII e altri due in tombe dell'inizio del VI secolo. Soltanto 4 0 5 esemplari sono imitazioni, gli altri sono originali egiziani, certamente provenienti dal Delta. Sopra 19 esemplari ricorre l'invocazione a Amon. Per lo più il trigramma componente il nome del dio tebano si trova espresso mediante le più svariate forme crittografiche, quasi a significare graficamente la definizione del dio stesso "Colui il cui nome è nascosto". La serie degli scarabei egiziani restituita dalle tombe pitecusane è certo la più numerosa finora trovata in una necropoli greca e la loro frequenza proprio − e soltanto − nelle tombe dell'VIII sec. appare molto significativa se si tiene presente che le relazioni dirette tra la Grecia e l'Egitto durante i secoli IX e VIII appaiono molto limitate (cfr. Lorimer, Homer and the Monuments, Londra 1950, pp. 8-100). Come al solito, anche gli scarabei di S. Montano non offrono elementi per una datazione più precisa, ad eccezione di un esemplare che reca inciso il prenome del faraone Bocchoris (Waḥkarēc), sovrano della XXIV dinastia, il quale, secondo la cronologia più attendibile, regnò dal 720 al 715. Il corredo della tomba, appartenente a un bambino dell'età di 21/2-3 anni, è ancora inedito al momento della compilazione del presente articolo. Tra l'altro vi si trovano tre arýballoi protocorinzi, uno globulare e due che segnano l'inizio della transizione verso la forma ovoidale. La Tomba di Bocchoris pitecusana costituirà un caposaldo per la cronologia della ceramica greca dell'VIII-VII sec., indipendente dalle date di fondazione tradizionali delle colonie greche occidentali, su cui questa cronologia è principalmente fondata. Le indicazioni cr0nologiche che vi si possono ricavare sono in ogni caso ben più chiare e precise dei dati incerti e di dubbia attendibllità fornite dalla famosa Tomba di Bocchoris di Tarquinia, così detta dal vaso di pastiglia invetriata che porta il nome dello stesso faraone.
Sigilli orientali. − Usati come amuleti portati sul petto allo stesso modo degli scarabei, e in alcuni casi con questi associati presso lo stesso individuo, furono trovati numerosi sigilli scarabeoidi (finora 18 esempî), sempre in tombe appartenenti ancora all'VIII secolo. Si tratta di una serie omogenea, per lo più di serpentina rossa, appartenente a un tipo di stile molto caratteristico, ma finora rimasto piuttosto negletto e soltanto di recente monograficamente studiato da Edith Porada (in The Aegean and the Near East. Studies Presented to Hetty Goldman, New York 1956). Vi sono rappresentate figure quasi sempre maschili in diversi atteggiamenti, sempre espresse con la stessa, inconfondibile stilizzazione, animali (uccelli, leoni, cervi, stambecchi, pesci), alberi sacri e segni simbolici vari. Vasta è la loro distribuzione, compresa tra il corso superiore dell'Eufrate e quello del Tevere: sono stati trovati a Karkamiş, Zincirli, Tarso, al-Mina, e diversi si trovano nei musei con l'indicazione di provenienza generica "Siria", "Costa della Siria", "Fenicia"; un grande numero è stato rinvenuto a Rodi, altri provengono da Cipro, Creta, Chio, Delo, Egina, Sparta, Itaca. In Italia era stato trovato finora un solo esemplare, rimasto tuttavia ignorato, in una tomba indigena di Falerii (Milani, Stud. e Mat., i, p. 209, fig. 50 a = Montelius, Civ. prim. Ital., tav. 309, 13). Il centro di produzione di questi sigilli non è stato ancora identificato con precisione, ma non sembra dubbio che debba essere cercato nella Siria settentrionale o in Cilicia.
Durante un breve periodo soltanto, ma proprio durante un periodo di straordinario rilievo per la formazione della nostra civiltà − l'VIII sec. a. C. − Pitecusa è stata un centro importante, dove convergevano i traffici dalla Grecia e dalle isole dell'Egeo, da Cipro, dalla Siria e dall'Egitto, il porto base greco più avanzato per il commercio con l'Etruria. La scoperta che la fondazione di Pitecusa risalga alla prima metà dell'VIII sec. spiega ora il fenomeno della maggiore antichità della ceramica greca più vetusta trovata nelle necropoli etrusche, rispetto alla più antica ceramica di Cuma, senza bisogno di ricorrere all'ipotesi di traffici precoloniali (cfr. anche Bérard, op. cit., p. 283). La frequenza insolita di oggetti siriani e egiziani nelle tombe di Pitecusa indica chiaramente quale sia stato l'ultimo porto di scalo attraverso il quale le importazioni dall'Oriente arrivavano in Etruria. (È interessante notare a questo proposito che bronzi siriani dell'VIII sec. sono stati trovati più frequentemente in Etruria che non in Grecia).
Bisogna aggiungere ancora che l'importanza della necropoli di Pitecusa è aumentata considerevolmente dal fatto che la necropoli di Cuma è stata scavata, nel secolo scorso, senza alcun criterio scientifico e sembra essere ormai esaurita. I resti del materiale cumano che oggi si conservano, limitati in pratica a una parte della ceramica, sono così mutili, e non si conosce più l'associazione dei corredi nelle singole tombe, tanto che il loro valore scientifico è purtroppo ben scarso. (È doveroso notare che il Gabrici, Mon. Ant. Linc., xxii, 1913/14, ha fatto opera altamente meritoria salvando il salvabile per la conoscenza della necropoli cumana, tuttavia non ci si può fidare troppo della ricostruzione di parte dei corredi, fatta in base ai taccuini dello Stevens). Questa perdita viene ora, almeno in parte, compensata dalla necropoli di S. Montano.
Fin dal VII sec. l'importanza di Pitecusa deve essere sempre più diminuita di fronte al crescente sviluppo di Cuma, del cui territorio fece poi parte. Infatti non coniò mai monete proprie. Quando Cuma cadde in mano ai Sanniti (verso il 421 a. C.), Napoli subentrò nel possesso di Pitecusa (Strab., v, 248), che poté così conservare la sua civiltà ellenica finché fu occupata nell'82 a. C., dalle truppe di Silla. In età sillana appare anche per la prima volta il nome di Aenaria (Sisenna, frg. 125 Peter), che l'isola portò da allora abitualmente.
In età romana I. non ebbe più alcuna importanza. Nell'isola, pur così ricca di sorgenti termali e di bellezze naturali, mancano del tutto avanzi di costruzioni romane di qualche entità. Questo fatto, a prima vista, può recare meraviglia, se si pensa ai grandiosi impianti termali della vicina zona flegrea, a Baia principalmente, e alle innumerevoli ville romane di quella regione, della penisola sorrentina, di Capri. La ragione è apparsa tuttavia con evidenza dalle ricerche abbinate di geologia ed archeologia, che hanno rivelato come proprio in età romana imperiale eruzioni vulcaniche e terremoti accompagnati da grandi frane e sollevamenti locali della costa fossero stati frequenti nell'isola, assai più di quanto non avesse fatto Immaginare la lacunosa tradizione letteraria (vedi P. e G. Buchner, op. cit.).
Che le sorgenti termali ischitane, benché non esistessero grandi stabilimenti come in terraferma, non fossero ignorate nell'antichità, oltre alla loro menzione presso alcuni autori (Strab., v, 248; Plin., Nat. hist., xxxi, 2, 9; Stat., Silv., iii, 5, v. 104; Cael. Aurelian., De morb. chron., v, 77), lo insegna un gruppo di rilievi votivi scoperti nel 1757 presso la sorgente di Nitroli, di cui li si conservano oggi nel Museo Nazionale di Napoli. Le loro iscrizioni rendono grazie dell'ottenuta gnarigione ad Apollo e alle ninfe Nitrodes o Nitrodiae, il cui nome si è conservato quasi inalterato in quello odierno della fonte. I rilievi rappresentano per lo più Apollo con la cetra e due o tre ninfe che portano conchiglie o vasi dai quali versano l'acqua salutare. Vengono datati (L. Forti), tra l'inizio del I e il III sec. d. C. Più che per il loro valore artistico piuttosto scarso, i rilievi sono interessanti perché costituiscono l'unico complesso votivo di tal genere rinvenuto in Italia.
È da ricordare infine un sarcofago paleocristiano di età teodosiana conservato nell'episcopio d'Ischia e di recente pubblicato per la prima volta (D. Mallardo). Si tratta di un esemplare interamente conservato del celebre gruppo di sarcofagi del tipo Bethesda, sulla cui fronte campeggia, al centro, la scena della guarigione del paralitico alla piscina così chiamata. Come su tutti i sarcofagi di questo gruppo, tra i quali quello d' Ischia occupa un posto eminente, vi si succedono, da sinistra a destra, la guarigione di due ciechi, dell' emoroissa, del paralitico, la chiamata di Zaccheo e l'entrata solenne del Cristo a Gerusalemme.
Bibl.: G. Buchner, Nota preliminare sulle ricerche preistoriche nell'isola d'Ischia, in Bull. Paletnol. Ital., n. s., I, 1936-7; W. Taylour, Mycenean Pottery in Italy, Cambridge 1958, p. 7 ss.; T. J. Dunbabin, The Western Greeks, Oxfod 1948, p. 6; J. Bérard, La colonisation grecque de l'Italie méridionale et de la Sicile dans l'antiquité, 2a ed., Parigi 1957, passim (v. indice s. v. Pithécusses); F. De Siano, Brevi e succinte notizie di storia naturale e civile dell'isola d'Ischia (s. l. n. a., ma Napoli 1800); G. Buchner-A. Rittmann, Origine e passato dell'isola d'Ischia, Napoli 1948; G. Buchner, Scavi nella necropoli di Pithecusa, in Atti e Mem. Soc. Magna Grecia, 1954 (relaz. preliminare); id., Figürlich bemalte spätgeometrische Vasen aus Pithekussai u. Kyme, in Röm. Mitt., lx-lxi, 1953-54; id. e C. F. Russo, La coppa di Nestore e una iscrizione metrica da Pitecus dell'VIII sec. a. C., in Rend. Acc. Linc., Cl. sc. mor., Ser., VIII, vol. X, 1955; D. L. Page, Greek Verses from the Eighth Century B. C., in Classical Rev., n. s., VI, 1956, p. 95 ss.; M. W. Stoop, Some Observations an the Recent Excavations on Ischia, in Antiquity and Survival, IV, 1955, p. 255 ss.; H. Hencken, Syracuse, Etruria and the North: Some Comparisons, in Am. Journ. Arch., LXII, 1958, p. 259 ss. (fibule); S. Bosticco, Scarabei egiziani della necropoli di Pithecusa, in La Parola del Passato, fasc. LIV, 1957, p. 215 ss.; P. e G. Buchner, Die Datierung der vorgeschichtlichen und geschichtlichen Ausbrüche auf der Insel Ischia, in Die Naturwissenschaften, XXVIII, p. 553 ss.; L. Forti, Rilievi dedicati alle Ninfe Nitrodi, in Rend. Acc. Arch. Lett. e B. A. Napoli, 1951, p. 161 ss.; D. Mallardo, Sarcofago paleocristiani dell'isola d'Ischia, in actes Ve Congr. Intern. d'Arch. chrét., 1954 (Roma-Parigi 1957), p. 245 ss. − Iscrizioni (oltre Kaibel, I. G., XIV, n. 891-894 e C. I. L., X, n. 6786-6805): A. Maiuri, Pithecusana, in La Parola del Passato, 1946, p. 164 ss. (esame critico di Kaibel, n. 894); G. Buchner, Base di donario con dedica a Aristeo rinvenuta a Pitecusa, in Rend. Acc. Arch. Lett. e B. A. Napoli, 1950; id., Epigrafe agonistica greca del 154 d. C., in La Parola del Passato, 1952, p. 408.