Vedi ISCHIA dell'anno: 1961 - 1973 - 1995
ISCHIA (v. vol. IV, p. 224 e s 1970, p. 376)
La pubblicazione definitiva degli scavi del 1952-61, effettuati nella necropoli (Buchner, Ridgway, 1993), registra notevoli approfondimenti per quanto riguarda l'VIII e il VII sec. a.C. I rinvenimenti di ceramica, databile nel terzo quarto dell'VIII sec. a.C., su una vasta area del comune di Lacco Ameno, che comprende non soltanto tutta la superficie dell'acropoli di Monte di Vico e la sottostante necropoli, ma anche una serie di nuclei abitati sul versante SE della collina di Mezzavia (di cui soltanto quello in località Mazzola è stato parzialmente scavato), indicano che in quel periodo l'insediamento di Pithekoussai aveva già raggiunto la sua massima espansione topografica e densità di popolazione distribuita per un'estensione di c.a 2/3 di km2 (Büchner, 1975, p. 65 ss. e cartina).
Un impianto così vasto non può essere sorto d'un tratto. Anche se la necropoli finora non ha restituito tombe più antiche del 750 a.C. circa, appare quindi giustificato far risalire la fondazione di Pithekoussai al secondo quarto dell'VIII sec., intorno al 770. Tra i materiali dello scarico dell'acropoli sono stati riconosciuti del resto alcuni frammenti ceramici appartenenti al Medio Geometrico II (Ridgway, 1981). Da Cuma, invece, non proviene ceramica che risalga oltre il 725 a.C. circa (Protocorinzio Antico). È giustamente si è rilevato che la tradizione sulle vicende di Cuma, riportata più tardi dagli storici, fu almeno in parte tendenziosa, in quanto «trasferisce a Cuma quello che a rigor di termini appartiene a Pithekoussai» (Mele, 1979, p. 32). Di secondario rilievo appare la disputa se sia da attribuire a Pithekoussai la qualifica di semplice stabilimento commerciale (empòriorì) o di vera e propria colonia (apoikìa).
Data la limitata estensione dell'area finora esplorata della necropoli non sarebbe metodologicamente corretto voler trarre deduzioni storiche dalla circostanza che nella medesima sono state rinvenute soltanto sepolture appartenenti a individui del ceto medio, prive di armi, mentre sono assenti sepolture appartenenti a individui del ceto aristocratico, analoghe a quelle ben note da Cuma e da Eretria (contra d'Agostino, 1992). Un interessante problema di carattere sociologico è posto dalla circostanza che fin dall'inizio i coloni greci di Pithekoussai usano esclusivamente fibule di tipo italico, almeno in parte prodotte localmente (v. infra). Secondo Büchner (1975, p. 79 s.; 19793 p. 135) ciò costringe ad ammettere che «se non tutte, almeno la maggioranza delle donne dei coloni non erano greche, ma donne indigene che volevano conservare i loro ornamenti personali» (contra Graham, 1984). Recentemente questa ipotesi è stata autorevolmente confermata e sviluppata da Coldstream (1993).
La prosperità di Pithekoussai nella seconda metà dell'VIII sec. a.C. era fondata, in ordine di importanza, sul commercio, sull'industria metallurgica e sull'industria figulina. Per quanto riguarda gli oggetti importati rinvenuti nei corredi tombali e nei livelli di abitazione che forniscono indizî sulle regioni con cui i Pithecusani intrattenevano relazioni commerciali, sono da aggiungere: un'indagine complessiva sui reperti di origine orientale (Büchner, 1982); diversi studi dedicati agli scarabei e ad altri oggetti di tipo egizio (Hölbl, 1979, I, passim; II, nn. 740-856 e tavv. XCVIII-CVII; De Salvia, 1975, 1978, 1983 e in Pithekoussai, 1, 1993); un aggiornamento (Boardman, 1990) sui sigilli del Lyre Player Group. Notevoli risultati ha conseguito l'analisi metrologica sulla capacità delle anfore da trasporto, sia importate, sia di produzione locale, rinvenute nella necropoli riusate per sepolture a enchytrismòs (Durando, 1989). Si segnala inoltre la pubblicazione (Büchner, Ridgway, 1983) di un'altra anforetta a doppia spirale incisa proveniente dall'Etruria meridionale, associata in corredo con skỳphoi tipo Thapsos con pannello.
Aumentano gli indizî che attestano l'estendersi delle relazioni di Pithekoussai anche al Mediterraneo occidentale: una fibula di tipo spagnolo dalla necropoli di S. Montano (Lo Schiavo, 1978, p. 41 e fig. 7,2); l'urna dipinta di produzione pithecusana rinvenuta nel tofet fenicio di Sulcis (Tronchetti, 1979); recentemente, ancora da Sulcis, una manciata di frammenti di ceramica dipinta tardogeometrica euboica o euboicizzante (Bernardini, 1988). È stata presa in considerazione la possibilità che i vasi di tipo greco del c.d. deposito di fondazione del tofet di Cartagine che presentano elementi di derivazione tardogeometrica euboica e protocorinzia siano in buona parte di produzione pithecusana (Coldstream, 1982, p. 274; Bisi Ingrassia, 1983). Alcuni frammenti di kotỳlai del tipo Aetos 666, di imitazione, recentemente rinvenuti a Cartagine, sono senza dubbio di produzione pithecusana. È da tener presente anche l'attestazione, nel Periplo dello Pseudo Scilace (in, 90), dei toponimi Pithekoussai e Euboia, di imprecisa localizzazione sulla costa a O di Cartagine.
Alle testimonianze dell'attività siderurgica si è aggiunta la scoperta di un vero e proprio quartiere industriale metallurgico in località Mazzola, dove sono state messe in luce le officine di un fabbro ferraio e di un bronziere (Buchner, 1971; Klein, 1972). L'ipotesi che la necessità di cercare nuove risorse di materia prima per la lavorazione del ferro sia stata una delle ragioni che determinarono la scelta dell'isola di I. da cui facilmente si potevano raggiungere i giacimenti dell'Elba, non è più sostenibile da quando sappiamo che il minerale di ferro del tipo adatto a essere trattato con le cognizioni tecniche dell'epoca (ematite, Fe2O3) si trova abbondantemente nell'Eubea centrale, entro lo stesso territorio di Calcide (Backhuizen, 1975 e 1976). È da ritenere piuttosto che gli Eubei abbiano voluto mettere a profitto le proprie avanzate conoscenze della tecnica siderurgica fabbricando a I. e smerciando prodotti finiti di qualità superiore.
La presenza, tra i rifiuti dell'officina del bronziere, di uno scarto di fusione di una fibula in bronzo a piccola sanguisuga piena e staffa lunga e di residui della lavorazione di fibule con arco rivestito (piastrine d'osso dalle quali sono stati segati i segmenti da infilare sull'arco) attesta che le fibule di tipi italici rinvenute nella necropoli sono state fabbricate a Pithekoussai stessa. Dagli scarichi della medesima officina proviene anche un peso di bilancia di precisione, costituito da un anello di bronzo riempito di piombo che pesa 8,79 g e corrisponde precisamente allo statere del sistema ponderale euboico. La presenza di questo peso, in contesto premonetale di fine VIII-inizio VII sec. a.C., può indicare soltanto che vi si lavoravano anche oggetti di metallo prezioso. Ovviamente viene da pensare al noto passo di Strabone (v, 247 C) secondo il quale i Pithecusani inizialmente vivevano in felice agiatezza grazie alla oreficeria (χρύσεια, o meglio χρυσία, erroneamente inteso come «miniere d'oro»; Mureddu, 1972; Ridgway, 1984, p. 48 s.).
L'ipotesi (Büchner, 1975, p. 81 ss.; 1979; Strøm, 1990) che parte delle oreficerie dette etrusche di stile orientalizzante antico possa essere stata fabbricata a Pithekoussai, ha trovato successivamente sostegno con la scoperta epigraficamente documentata che durante tutta la seconda metà dell'VIII sec. a.C. viveva a Pithekoussai un gruppo di mètoikoi orientali, integrato nella società ellenica al punto da seppellire i suoi morti nella medesima ¡ necropoli. È difficile, infatti, immaginare che i Pithecusani abbiano acconsentito che commercianti orientali vi si insediassero stabilmente: piuttosto si sarà trattato di artigiani e artisti che lavoravano oggetti poi smerciati con profitto dai Greci.
Per l'industria figulina, diversamente che per quella metallurgica, la materia prima di buona qualità si trova nell'isola stessa, circostanza del tutto singolare in terreni di recente formazione esclusivamente vulcanica. Le argille sono sovrapposte al tufo verde dell'Epomeo e contengono avanzi di fauna marina, specie di molluschi e foraminiferi. Si tratta infatti di depositi di fango marino costituito principalmente da cenere vulcanica dilavata, formatisi quando il tufo dell'Epomeo era sommerso e sollevati quando il blocco centrale dell'isola ê riemerso. I giacimenti di argilla figulina, che ancora nel secolo scorso hanno alimentato una fiorente industria, si trovano sul versante settentrionale dell'Epomeo, sopra Casamicciola, ad altezze tra c.a 100 e 500 m s.l.m., ma, ricoperti da altre formazioni, non sono quasi mai esposti in superficie, cosicché è stato sempre necessario cavare la materia prima in gallerie sotterranee. L'esistenza a I. di questa risorsa è stata importante, anche nei secoli successivi, per Cuma, nel cui territorio continentale mancano giacimenti di argilla figulina. La ceramica locale cumana è stata quindi tutta prodotta con argilla ischitana e certamente per lo più a Pithekoussai, ma non si può escludere che vi fossero a Cuma stessa officine figuline che lavoravano con materia prima trasportata dalla vicina isola.
Il quadro della ceramica prodotta localmente a Pithekoussai nella seconda metà dell'VIII sec. a.C. è stato notevolmente completato e ampliato, sia attraverso il materiale rinvenuto negli abitati, sia grazie a una migliore conoscenza di quanto è da attribuire a fabbriche locali, conoscenza alla quale hanno contribuito le analisi per mezzo della spettroscopia Mössbauer (Deriu, Büchner, Ridgway, 1986). Si è rivelata l'esistenza di un'intera classe di vasi dipinti in stile tardogeometrico euboico, sicuramente di produzione locale, per lo più di grandi dimensioni (crateri e anfore) di cui soltanto pochi esemplari erano stati rinvenuti nella necropoli. I suoi motivi, figurati e ornamentali, si trovano quasi tutti riuniti sul magnifico cratere di Cesnola del Metropolitan Museum, attribuito a fabbrica euboica (Coldstream, 1971). È da notare che un frammento di cratere di questa classe reca la più antica firma conosciuta di vasaio: [...]ινος μ'έποίεσε.
Sicuramente di produzione pithecusana è anche quella classe di arỳballoi e lèkythoi euboicizzanti nota soltanto da Pithekoussai e da Cuma, già attribuita all'Eubea (v. s 1970, p. 376 s.). Anche le kotỳlai con fila di uccelli di ispirazione protocorinzia rinvenute a I. sono in maggior parte di produzione locale. Frequenti sono le imitazioni locali di kotỳlai tipo Aetos 666, dèi Tardo Geometrico corinzio. Molto frequenti sono poi le imitazioni di vasi di stile Protocorinzio Antico (specie skỳphoi tipo Thapsos tardo, senza pannello, kàntharoi interamente verniciati, lèkythoi a corpo conico, oinochòai, mentre molto più rari degli originali importati sono arỳballoi e kotỳlai di imitazione).
L'ipotesi che le migliori imitazioni locali del Protocorinzio Antico - che contraffanno alla perfezione i prototipi mediante l'applicazione di una spessa ingubbiatura color crema e sono dipinti con la medesima pignolesca precisione - dovute a ceramisti corinzi immigrati, è stata di recente autorevolmente confermata da Neeft (1987) che ha riconosciuto tra gli arỳballoi di imitazione le mani di due vasai di Corinto, e da altri (Williams, 1985, figg. 19 a, 20; Ridgway, 1989, 1992). Naturalmente queste officine non hanno prodotto soltanto arỳballoi ma l'intera gamma della ceramica del Protocorinzio Antico. La circostanza che vasi di questa produzione siano più frequenti a Cuma che non a Pithekoussai - insieme alla presenza del caratteristico beta corinzio nell'alfabetario inciso sul fondo della nota lèkythos cumana protocorinzia di imitazione (in ultimo: Cassio, in corso di stampa) - potrebbe far venire il dubbio che lì, anziché nell'isola, si trovassero le officine dei Corinzii. Altri studi sono stati dedicati alle anfore da trasporto di produzione locale (Büchner, 1982, pp. 286, 301 s. e figg. 10, 17; Di Sandro, 1986; Buchner, in corso di stampa) e a quelle attiche del tipo SOS (Johnston, Jones, 1978).
Fin dagli inizî del VII sec. a.C., in correlazione con lo sviluppo di Cuma, si assiste alla progressiva decadenza di Pithekoussai che ne diventa una dipendenza senza più vita autonoma: non coniò mai, infatti, propria moneta. Una certa importanza conserva, tuttavia, la sua industria figulina. Nel VI, V e IV sec. a.C. è notevole la produzione di terrecotte architettoniche che vengono anche esportate: pithecusane sono quelle di Cuma e, almeno in parte, quelle di Pompei. In età ellenistica si producono ed esportano in massa ceramica a vernice nera di tipo Campana A e anfore vinarie, spesso contrassegnate da bolli che recano nomi in parte greci e in parte oschi. Non mancano importazioni di ceramica iberica dipinta e iberica grigia c.d. ampuritana (da ultimo: Bencivenga Trillmich, 1984).
L'assenza di qualsiasi struttura romana di qualche importanza - mancano del tutto resti di ville signorili e di edifici termali nell'isola pur così ricca di salutari sorgenti calde - era rimasta inspiegabile finché rinvenimenti ceramici in paleosuoli ricoperti da formazioni piroclastiche non hanno rivelato che proprio in età romana imperiale si sono susseguite nell'isola eruzioni vulcaniche, oltre a terremoti e frane, con una frequenza che le scarse fonti scritte non lasciavano immaginare (Büchner, 1986).
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(G. Büchner)