DA PORTO, Iseppo
Fu figlio di Girolamo di Giovanni di Francesco e della nobile vicentina Angela Barbaran, nipote di Francesco Da Porto, collaterale generale delle milizie della Repubblica di Venezia. Fu uno dei più cospicui ed illustri gentiluomini della società vicentina del Cinquecento. L'anno della nascita sembra situarsi pressappoco alla fine del XV o al più tardi all'inizio del sec. XVI. Risulta essere stato l'unico figlio maschio di Girolamo dal momento che di lui vengono nominate solo cinque sorelle: Laura, Dorotea monaca a S. Chiara in Vicenza, Diadema moglie di Antonio Ghellini, Maria Maddelena andata sposa al conte Giovanni Francesco Valmarana, Margherita maritata con il conte Marcantonio Godi.
Le prime notizie sul D. si hanno a partire dal 1532, anno nel quale veniva nominato nel diploma con cui l'imperatore Carlo V a Bologna conferiva a ventisette membri della famiglia Da Porto il titolo di conti palatini di Vivaro e Val Leogra e terre annesse nonché di cavalieri aureati. Tuttavia nulla si sa della sua formazione intellettuale giovanile. Comunque, dai documenti inquisitoriali dell'epoca, si può arguire nel D. l'interesse, condiviso del resto da molti altri gentiluomini vicentini, per le novità religiose che sulla scia dell'eresia luterana avevano cominciato a diffondersi in quegli anni in terra veneziana.
A Vicenza l'eresia protestante venne introdotta soprattutto grazie all'opera di Pellegrino Morato. Quest'ultimo, proveniente dall'ambiente ferrarese di Renata d'Este, si avvalse della sua professione di pubblico insegnante nel promuovere tra gli aristocratici e gli intellettuali vicentini quel vivace dibattito nel quale si formarono le maggiori figure del calvinismo locale. Maggiormente sensibili agli stimoli che in tal senso vennero operati furono soprattutto Giulio Trissino, figlio del famoso Giangiorgio e canonico della cattedrale di Vicenza, e tra gli altri Carlo Sesso, Marco Thiene e Nicola Thiene.
Con tutta probabilità si situa in questo periodo (pressappoco il decennio che va dal 1535 al 1545) l'adesione del D. all'eresia riformata, come del resto accadde per molti altri rampolli delle casate nobiliari vicentine. Inoltre occorre dire che, inserita sin dall'inizio all'interno del sistema di potere cittadino, la propaganda calvinista fu in grado di coinvolgere numerosi membri tra le maggiori famiglie aristocratiche e della borghesia mercantile. Tra le prime che vennero colpite da questa epidemia vi furono appunto le casate dei Da Porto e quindi dei Verlato, dei Thiene, dei Trissino, nei palazzi vicentini delle quali erano spesso tenute le riunioni evangeliche. Una salda rete di protezioni consentiva in tal senso al movimento riformato di agire pressoché indisturbato e talvolta anche allo scoperto. L'attività ereticale poté progredire fino agli anni 1545-1548. In questo periodo infatti venne aperta un'inchiesta da parte dei rettori di Vicenza alla quale seguì il primo processo a carico dei calvinisti. Oltre tutto Venezia non parve rimanere indifferente agli appelli del pontefice Paolo III nei quali si ventilava la possibilità che alla ribellione religiosa potesse seguire la sedizione politica. Antichi sospetti e diffidenze risalenti al tempo della guerra di Cambrai non parvero rimanere estranei nell'azione intentata da Venezia. Nel maggio del 1547 vennero pertanto effettuati i primi arresti nonostante molti eretici avessero avuto il tempo di fuggire.
Da quanto emerse dalla confessione dell'anabattista di Arzignano, Bartolomeo Del Bello, tra coloro che vennero imprigionati vi fu anche il D. assieme ad altri gentiluomini e cioè Manfredo Da Porto, Ottavio e Adriano Thiene, Iseppo Marigo, Giulio da Colzedo ed altri cinque o sei non identificati. Non sono noti gli esiti del processo del 1547, tuttavia rimane il fatto che il calvinismo negli anni seguenti riusciva a diffondersi maggiormente e a crearsi una vera e propria struttura interna. Il D. non sembrò avere conseguenze particolari dallo scandalo in cui si trovò coinvolto. Lo prova il fatto che in questi anni (dopo il 1550) entrò come membro attivo nella vita politica e culturale ricoprendo le principali magistrature della città. Nel 1555 entrò a far parte degli otto "consules laici", organismo giudiziario le cui mansioni, assieme ai quattro consoli giudici, al podestà e al giudice del Malefizio, consistevano nel formulare le sentenze nelle cause criminali. Tale carica gli venne riconfermata nel 1557 e ancora negli anni 1559, 1561, 1565, 1567, 1569, 1572, 1574, 1576. In questo medesimo periodo accedette alla massima magistratura vicentina degli otto deputati alle Cose utili (ad utilia) riassumente in sé le funzioni di governo cittadino. Il D. ricoprì tale mandato negli anni 1561, 1565, 1567, 1573, 1575, 1577. Nel 1572 assunse la carica di conservatore del Sacro Monte di pietà di Vicenza, quindi nel gennaio 1573 ricevette la nomina di conservatore delle Leggi. Nel 1574 infine venne eletto governatore dell'ospedale dei Proti di Vicenza. Tra i maggiori impegni civili che assunse si può ricordare la funzione che lo vide presidente sopra la "fabrica del pallazo", assieme a Marino da Schio, nel 1561 "per proveder al bisogno di detta fabrica et tenir conto del denaro che in quella si spende".
Piuttosto avanzato nell'età, lo si ritrova impegnato ancora nel 1577 in occasione dell'imperversare della peste a Vicenza (nell'anno in questione il D. era deputato ad utilia). In questa circostanza gli venne data procura, assieme a Fabio Monza e a Giovanni Gualdo, "di poter trovare quella maggior quantità di danari, che si potrà" per affrontare la grave necessità del momento. Nel corso del suo impegno civile furono numerosi anche i mandati che dovette assolvere presso la Serenissima. In data 8 luglio 1559 il Consiglio cittadino gli diede commissione di recarsi a Venezia, assieme a Girolamo Trissino, "cum sallario consueto ducatorum ducentorum" a manifestare il gaudio dei Vicentini per l'elezione di Girolamo Priuli al dogado. A Venezia doveva ritornare nel 1573 assieme ad altri tre oratori ad implorare per l'alleviamento di "un datio novo sopra la masina et altre gravezze et massimamente quella della impositione delli ducati 50.400" imposti dalla Serenissima in occasione della guerra contro i Turchi. L'ultima missione gli venne affidata nel 1580, l'anno stesso della morte, quando dovette difendere una causa dei setaioli vicentini "contra provisores sirici dictae almae civitatis Venetiae".
Ma oltre che per le cariche civili nelle quali profuse la sua attività, il D. va ricordato per l'intensa opera svolta nell'arricchimento artistico di Vicenza che lo vide in stretto contatto con personaggi come Andrea Palladio e Paolo Veronese i quali, come nota B. Morsolin "esercitarono per lui la sesta, lo scalpello e il pennello". Nel 1552 infatti diede commissione al Palladio di dirigere la costruzione del suo palazzo in Vicenza, opera che fu ornata a sua volta con pitture di Paolo Veronese. Intorno al 1556 quest'ultimo eseguì anche il ritratto dello stesso D. raffigurato assieme al figlio Adriano. Unitamente a questo esiste anche il ritratto, sempre dello stesso periodo, della moglie Livia Thiene raffigurata assieme alla figlia Porzia. Nel 1556 il D. appare anche tra i fondatori dell'Accademia dei Costanti, nata in contrapposizione polemica, a quanto pare, alla neocostituita Accademia Olimpica la quale raccoglieva da parte sua i maggiori letterati e artisti vicentini del periodo. Nel 1565 il D. venne deputato ai preparativi che dovevano essere allestiti dal Palladio in occasione dell'ingresso del vescovo Matteo Priuli in Vicenza. Infine fu tra coloro che prodigarono le proprie risorse finanziarie nel contribuire alla costruzione del teatro Olimpico di Vicenza inaugurato nel 1580.
In tutti questi anni di intensa e feconda attività artistica nonché di impegno civile il D. sembra completamente estraneo ai fermenti ereticali che, soprattutto dal 1560 al 1570, si manifestarono all'interno dell'aristocrazia vicentina. Tuttavia i suoi legami con noti eretici del tempo e fuorusciti "religionis causa" non possono non denunciarlo come segreto seguace del calvinismo. Nel 1545 aveva sposato quella Livia Thiene, figlia di Giovanni Galeazzo e Margherita Avogadro di Alvise, la quale non era altri che la sorella di Adriano Thiene, implicato assieme al D. nel processo del 1547. Da Livia il D. ebbe sette figli: Porzia andata sposa a Brasco Braschi, Dorotea consorte di Giovanni Loschi, Vittoria sposata ad Ortensio Loschi, Lelia moglie di Arnaldo Arnaldi, Deidamia monaca in S. Pietro, Adriano (primogenito) sposato con Chiara Malaspina e infine Leonida. Quest'ultimo il 4 luglio 1573 sposava la nobile vicentina Attilia Thiene figlia di Francesco e sorella del famoso esule religioso Odoardo Thiene. Questi era fuggito da Vicenza intorno al 1568 non senza provocare un certo scalpore dato il prestigio di cui godeva il personaggio. Nel processo celebrato contro di lui nel 1571 venne chiamato a testimoniare lo stesso Leonida Da Porto al quale vennero chiesti quali rapporti fossero intercorsi tra suo padre e Odoardo Thiene nonché notizia sulla corrispondenza epistolare tra i due, dalla quale si potessero trarre elementi sulla colpevolezza di Odoardo. Va detto al riguardo che il D. aveva anche acquistato parte dei beni che Odoardo vendette a seguito della sua fuga da Vicenza in terra riformata, come appare da un atto notarile rogato in data 27 maggio 1572.
L'interrogatorio di Leonida non sembra comunque aver procurato fastidi al padre. Del resto alcuni anni prima, e precisamente nel 1568, il nome del D. appariva tra gli eretici denunciati da Francesco Borroni, procuratore dell'esule religioso Giulio Thiene, inquisito a sua volta per eresia. Quest'ultimo infatti nominava all'inquisitore alcuni vicentini noti per le loro simpatie ereticali e tra questi anche i Da Porto. "Io mi ricordo di haver sentito a dir già pur assai, che l'era sta accusato il Conte Battista, et il Conte Iseppo di Porti". Comunque pur tra tutti questi sospetti il nome del D. rimase nell'ombra fino alla morte seguita il giorno 8 nov. 1580.
Nel testamento, rogato il 5 nov. 1580, istituiva propri eredi universali i figli Leonida e Adriano e ordinava che il suo corpo venisse seppellito nella chiesa di S. Biagio in Vicenza. In segno di carità lasciava dieci ducati "al'ospedale della misericordia" e altri dieci "alli mendicanti". Presente al testamento si trovava tra gli altri l'anabattista vicentino Iseppo Cingano, fatto che conferma di per sé gli antichi sospetti circa la sua fede religiosa.
Fonti e Bibl.: Vicenza, Bibl. civica Bertoliana, Ar. T. (Arch. Torre), b. 863 (partium primus, 1538 usque 1557), cc. 603, 664; ibid.,b. 864 (partium secundus, 1557 usque 1571), cc. 52, 63, 93, 152, 175 s., 347, 358, 415, 443, 477, 541, 586, 599; ibid., b. 865 (partium tertius, 1572 usque 1590), cc. 45, 61, 66, 80, 103, 129, 148, 163, 205, 234, 306, 311; Archivio di Stato di Vicenza, Notai di Vicenza (Alvise Malabarba), b. 6952; Archivio di Stato di Venezia, Sant'Uffizio, bb. 6, 24, 30; Vicenza, Bibl. civica Bertoliana: G. da Schio, Memorabili, ms. 3395; F. da Barbarano, Historia eccles. della città, territorio e diocesi di Vicenza, V,Vicenza 1760, p. 139; G. T. Faccioli, Museum lapidarium Vicentinum, I,Vincentiae 1776, p. 205; S. Castellini, Storia della città di Vicenza, XVIII,Vicenza 1821, p. 128; A. Magrini, Memorie intorno Andrea Palladio, Padova 1845, pp. 70, 294 s., 330; Id., Il Teatro Olimpico nuovamente descritto ed illustrato, Padova 1847, p. 53; B. Morsolin, L'Accademia de' Sociniani in Vicenza, in Atti del R. Ist. veneto di scienze, lettere e arti, V (1878-79), pp. 473 s.; Id., Medaglia in onore di G. Da Porto, Vicenza 1892; F. Lampertico, Scritti stor. e letterari, I,Firenze 1882-83, p. 160; A. Stella, Utopie e velleità insurrez. dei filoprotestanti italiani (1545-1547) in Bibliothèque d'humanisme et Renaissance, XXVII (1965), p. 143; Id., Gli eretici a Vicenza, in Vicenza illustrata, a cura di N. Pozza, Vicenza 1976, p. 256; G. Mantese, La famiglia Thiene e la riforma protestante aVicenza nella seconda metà del sec. XVI, in Odeo Olimpico, VIII (1969-70), pp. 82, 97; M. da Porto Barbaran, La famiglia da Porto dal 1000 ai giorni nostri, s. l.1979, pp. 254 s. (per gentile concessione della figlia Kathinka da Porto Barbaran in Seccamani Mazzoli); M. Scremin, L'eresia dei nobili e dei mercanti nella Vicenza del Cinquecento. Prospettiva di ricerca sui rapporti tra eterodossia religiosa e potere cittadino, in I ceti dirigenti in Italia in età moderna e contemporanea, Udine 1984, pp. 116, 118.