Isifile
Personaggio mitologico. Figlia di Toante, re di Lemno, con un inganno salvò la vita al padre quando le donne lemnie uccisero tutti gli uomini dell'isola, colpevoli di trascuratezza nei loro confronti.
Durante la sosta degli Argonauti a Lemno I. accolse nella propria casa Giasone, da cui ebbe due figli, Euneo e Toante. Dopo la partenza degli Argonauti, le donne di Lemno scopersero l'inganno con cui I. aveva sottratto il padre alla morte; costretta alla fuga, ella divenne schiava di Licurgo, re di Nemea, che affidò alle sue cure il proprio figlio Ofelte o Archemoro. Ma la sorte avversa volle che un giorno I., per mostrare la fonte Langia ai sette principi argivi, posasse il bimbo nell'erba e che questi, lasciato solo, morisse per il morso di un serpente. Per ordine di Licurgo e della moglie Euridice, I. doveva scontare con la morte la sua colpa; ma la strapparono al rogo i suoi due figli, sopraggiunti all'improvviso, e la riportarono a Lemno.
Il mito, che presenta numerose varianti, si ricostruisce in base a due fondamentali fonti latine: Ovidio (Her. VI) e Stazio (Theb. IV 740 ss. e l'intero libro V).
I. è ricordata quattro volte da D., con riferimento a quattro momenti diversi della vicenda mitica. Il richiamo più interessante si legge in If XVIII 88-94 dove, a proposito di Giasone e della sua sosta a Lemno, compare per esteso la prima parte del mito, dall'eccidio dei Lemnii alla partenza degli Argonauti. Il personaggio è interpretato con libertà rispetto alle fonti: I. non è colei che accoglie spontaneamente Giasone e se ne distacca poi con dolore, bensì è vittima del suo inganno, lei che a sua volta era stata autrice di un inganno, sia pure a fine benefico, ed è la donna abbandonata dal seduttore: Isifile ingannò, la giovinetta / che prima avea tutte l'altre ingannate. / Lasciolla quivi, gravida, soletta (vv. 92-94).
Quest'ultimo particolare poteva essere stato suggerito a D. solo dalle parole di congedo rivolte da I. a Giasone in Valerio Flacco (Argon. II 423-424 " refer et domitis a Colchidis oris / vela per hunc utero quem linquis Iasona nostro "), ferma restando la profonda divergenza di tono, che qui è dolente e affettuoso, modulato su parole augurali e piene di rimpianto; di comune non vi è che la circostanza di un figlio nascituro.
All'incontro con i principi argivi nella selva Nemea (cfr. Stazio Theb. IV 739 ss.) si riferisce la circonlocuzione usata da Virgilio per indicare a Stazio in I. una delle anime dimoranti nel Limbo: Pg XXII 112 Védeisi quella che mostrò Langia. Senza specifico riferimento al personaggio è citato invece l'accorato appello di I. ad Archemoro quando lo trova morto nell'erba e lo prende tra le braccia, in Cv III XI 16 e sì come dice Stazio nel quinto del Thebaidos, quando Isifile dice ad Archimoro: " O consolazione de le cose e de la patria perduta, o onore del mio servigio " (Stazio Theb. V 609-610 " o rerum et patriae solamen ademptae / servitiique decus ").
Al momento conclusivo del mito che vede i figli di I. sopraggiungere all'improvviso, e slanciarsi verso la madre che hanno riconosciuta e abbracciarla, s'ispira infine il paragone cui D. ricorre per esprimere il desiderio da lui provato di correre ad abbracciare il Guinizzelli, in Pg XXVI 94-96 Quali ne la tristizia di Licurgo / si fer due figli a riveder la madre, / tal mi fec'io (cfr. Stazio Theb. V 720-722 " per tela manusque / inruerant, matremque avidis complexibus ambo diripiunt flentes alternaque pectora mutant ").