Islam e condizione femminile
La maggior parte del mondo occidentale il 1° gennaio 2000 ha festeggiato l’entrata nel nuovo millennio (solo una minoranza ha optato per il più corretto 1° gennaio 2001). Per chi è musulmano la prima data corrispondeva quell’anno al 24 ramadan, mese del digiuno. Il calendario lunare musulmano – che ha inizio un sabato 16 luglio del 622 – non commemora in quel giorno nessuna particolare ricorrenza significativa sul piano religioso, vale a dire che interessi l’intera ecumene islamica: grosso modo 1 miliardo e 300 milioni di persone. Tuttavia, nelle grandi metropoli occidentalizzate e là dove i collegamenti satellitari funzionano, i musulmani si sono sentiti coinvolti e hanno condiviso l’evento (così come avevano sentito l’inquietudine dell’anno Mille). Quella sera, la normale atmosfera festosa che segue la rottura del digiuno ha ceduto il passo all’emozione che accompagnava il passaggio di millennio: una partecipazione laica, quella dei musulmani, ma non neutra. Infatti, accanto alla constatazione di una banale espressione della globalizzazione, non è difficile avvertire il segno di una schizofrenia identitaria che, su altri piani, condiziona pesantemente il vissuto quotidiano del singolo e l’autorappresentazione collettiva. Detto in altri termini, all’esterno, il singolo e la comunità musulmana sono chiamati a presentare le credenziali per avere pieno diritto di cittadinanza nel villaggio globale, mentre, all’interno, devono fornire le prove di una qualche fedeltà (variamente definita a seconda dei diversi contesti, in primo luogo statuali) a quella visione del mondo che si vuole, se si tratta di islam, particolarmente connotata dall’appartenenza confessionale.
Peraltro, sotto l’etichetta islam non è iscritto il solo fenomeno religioso (che andrebbe, comunque, declinato al plurale), ma anche varie tradizioni e culture, per cui il mondo musulmano alla stregua di quello cristiano non è affatto coeso, nonostante l’esplicita volontà da parte musulmana di pensarsi come corpo unitario. Di qui, una precisazione sull’ambiguità del termine islam, usato in questa sede non soltanto per intendere la religione musulmana, ma anche realtà, azioni, comportamenti, e così via, qualificati come islamici dai diretti interessati.
Queste osservazioni sono utili, e forse indispensabili, per evitare che la questione femminile venga trattata come problema a sé stante, avulsa dalle situazioni concrete e dalle vicende che quelle situazioni hanno prodotto, con il rischio di indebite generalizzazioni sul piano storico e, su quello simbolico, e di mistificanti attribuzioni di senso, all’operato di questi ultimi anni delle società musulmane, donne incluse ovviamente.
Il contributo si articola in tre parti, dedicate alla politica, al diritto e alla religione. La sequenza non è casuale. La politica è certamente l’ambito dove meglio emergono paralleli e possibili confronti, difformità e anomalie con le nostre realtà. Il diritto è la sfera in cui consuetudini di varia matrice sono più condizionanti e dove, spesso pretestuosamente, in nome della religione si giocano nel concreto i rapporti di forza. Di conseguenza a esso si dedica la parte più consistente del lavoro, con particolare attenzione a casi oggi emblematici. A prima vista, la logica vorrebbe che si iniziasse dalla religione, dal momento che, nel pensare comune, è la religione a determinare, nel mondo musulmano, l’agire individuale e collettivo, dunque, anche la politica e soprattutto il diritto. Chi scrive pensa, invece, che sia utile ribaltare l’ordine del discorso, almeno quando il soggetto da mettere in evidenza è femminile, nel tentativo di non appiattire su un unico registro ciò che è teorico e ciò che è effettuale.
La politica
L’attentato in cui ha perso la vita Benazir Bhutto, avvenuto a Rawalpindi il 27 dicembre 2007, ha portato sulla scena mondiale un esempio di protagonismo femminile che appare eccezionale in uno Stato dichiaratamente musulmano, quale il Pakistan. Il Pakistan, che proclamò la sua indipendenza il 14 agosto 1947, è effettivamente un caso speciale per più ragioni. La principale è che esso fu il primo Stato moderno a fondarsi su basi confessionali (seguito da Israele l’anno successivo). Ciò significa che l’elemento determinante nella scelta di esserne cittadini è la religione professata: l’islam è, nel contempo, la fede della quasi totalità della sua popolazione e il vero collante nazionale. Al polo opposto, si pone una ragione antitetica. Il Pakistan ereditò quell’atteggiamento laico che aveva necessariamente connotato l’amministrazione coloniale britannica del subcontinente indiano, all’interno della quale alcune famiglie importanti, musulmane e indù, facevano parte integrante delle élites. Rientra in una logica di dinastie familiari, tuttora evidente anche nella Repubblica federale indiana, la candidatura alla presidenza, nel 1965, di Fatima Jinnah, sorella del fondatore del Pakistan. Nella stessa logica, B. Bhutto prese in mano l’eredità politica del padre, impiccato nel 1979, e coprì per un breve periodo tra il 1988 e il 1990 la carica di primo ministro. Si trattò certamente di un fatto significativo, se visto alla luce della mancanza di presenza femminile sul piano istituzionale nella quasi totalità dei Paesi islamici. Non lo fu nel contesto indiano, tant’è vero che la cosa, magari sconcertante per i Paesi arabi, non ebbe particolare rilievo a livello internazionale.
Sebbene in Pakistan, non sempre in mala fede, si cerchino nelle fonti ispiratrici di quella che si pensa debba essere una società autenticamente musulmana – Corano e tradizione profetica – possibili ipotesi di soluzione ai problemi sul tappeto (soprattutto nei numerosi momenti difficili che il Paese attraversa), si dovette attendere il 1979 perché il generale Zia-ul-Haq lanciasse un sistematico programma d’islamizzazione, confermato con un referendum nel 1984. Da ricordare, se ce ne fosse bisogno, che l’islamizzazione è ritagliata sulle esigenze dei gruppi dominanti, in Pakistan come altrove, anche quando viene legittimata come una rigorosa interpretazione dei principi esposti nelle fonti menzionate.
Ma torniamo all’assassinio di B. Bhutto. L’enorme impatto mediatico che esso ha suscitato è causa e risultato insieme di una deprivazione di significato della sua concreta azione politica. Non è un paradosso. Da un lato, il mondo, commosso per la sua sorte, la relega in un ruolo di eroina, al punto da impedire, nei fatti, la valutazione del suo progetto politico e della sua gestione della cosa pubblica all’interno del partito che rappresentava e nel Paese, senza tenere conto di un’educazione all’esercizio del potere e di una pratica del potere medesimo, entrambe aperte ad alcune donne. Dall’altro lato, il suo partito e, più in generale, l’opposizione al regime di Pervez Musharraf, si appropriano del personaggio Benazir, trasformandolo in un’icona che sancisce il recupero e la manipolazione da parte maschile – figlio, marito e quanti altri – di una modalità di vivere la politica attribuita dalla stessa Bhutto a suo padre ma con indubbi elementi innovativi, in fatto non tanto di coraggio personale quanto di pubblica rivendicazione della sua appartenenza di genere. La vicenda Bhutto ha una rilevanza politica in sé, rientra fra gli avvenimenti caratterizzanti il primo decennio del nuovo secolo. Essa è anche la spia che denuncia l’esigenza di andare oltre il velo delle apparenze se si vuole rispondere al più che legittimo interrogativo: esiste una reale partecipazione alla politica da parte delle donne musulmane?
Il riscontro che appare più rappresentativo è quello iraniano. Torneremo sul rapporto tra regime postkhomeinista e diritti delle donne. In prima istanza colpisce chi ha seguito le vicende del Paese nell’arco degli ultimi cinquant’anni l’attuale vivace protagonismo delle iraniane, troppo poco messo in luce nelle analisi politiche sul Paese. Moltissime donne di tutte le classi sociali parteciparono all’ondata rivoluzionaria del 1978 che avrebbe portato, nella primavera dell’anno successivo, alla proclamazione della Repubblica islamica dell’Irān, sancita con un referendum plebiscitario. Ruhollah Khomeini (Ruḥ Allāh Musavi Ḫomeyni) nell’ultimo periodo del suo esilio in Francia aveva fatto proprie le idee di un sociologo, ῾Ali Šari῾ati, che interpretava lo sciismo come rivoluzione permanente, fortemente simbolizzata dal ruolo attribuito ad alcune donne del primo islam, quali la figlia del Profeta. Tali idee avevano permesso a Khomeini di essere credibile nel sollecitare l’adesione delle masse femminili, sostenendo che una società privata del loro apporto fosse fallimentare in partenza e non fosse affatto congrua con il vero spirito dell’islam.
È ben noto che l’idillio tra donne e regime durò poco e che alle donne si impose una serie di obblighi (il velo, più precisamente una sorta di divisa) e di divieti (separazione netta tra spazi maschili e spazi femminili) tali da rendere impossibile la loro vita quotidiana. Tuttavia, il debito per il successo della lotta contro lo scià dovette in qualche modo essere pagato. L’istruzione venne aperta anche alle donne delle classi più povere, così come si continuò a chiedere la loro presenza nelle grandi manifestazioni popolari e, soprattutto, il loro appoggio alla propaganda del regime durante la quasi decennale guerra con l’Irāq (1980-1988). Il risultato fu forse inaspettato. Per un verso, esse colsero l’occasione loro offerta per istruirsi ed entrare con successo nel mercato del lavoro, nonostante le persistenti discriminazioni; per un altro verso, forse più significativo, il tradimento delle promesse rivoluzionarie funzionò da strumento di politicizzazione, rendendole consapevoli del peso delle loro azioni. L’affluenza delle donne al voto rispetto ai Paesi dell’area fu, ed è, enorme, come lo sta diventando la loro presenza in ambito culturale e professionale (registe, artiste, fotografe, romanziere, donne medico, fisiche, informatiche e così via). A ciò va aggiunta la quotidiana e generalizzata disubbidienza alle regole comportamentali cui si è accennato: essa costituisce la più estenuante, perché capillare, forma di opposizione al regime, un’opposizione in crescita dopo la forte delusione del periodo riformista di Moḥammad Khatami (Ḫātami) (1997-2005) e che connota il quadro politico di quest’inizio di secolo.
Sul peso del voto femminile c’è un altro caso pregresso da registrare, ed è quello algerino. Le analisi più accreditate hanno letto in questa chiave, come una scelta fortemente femminile, la vittoria del Fronte islamico di salvezza (1991) e poi l’allontanamento popolare dai movimenti integralisti a seguito dell’ondata di violenza che ha colpito il Paese. D’altronde, nella memoria delle algerine non si è cancellato il ricordo del contributo delle loro madri e nonne alla liberazione del Paese, contributo motivato allora in termini di affermazione nazionale cui, però, si accompagnava la persuasione che, ciò facendo, si aderisse ai valori di una tradizione improntata all’islam. La loro azione non si limitò a un supporto logistico. Le donne, per così dire, si sporcarono le mani. Velate per scelta, non per imposizione esterna, fecero la loro parte, come molte italiane durante la Resistenza. Sottolinearlo oggi significa domandarsi se ci sia una qualche continuità nell’impegno femminile in determinate circostanze.
In linea generale, nel mondo arabo, là dove si è data una più o meno diretta dominazione coloniale, lotta nazionale ed emancipazione femminile sono state strettamente collegate: in Algeria, appunto, come anche in Palestina. Qui, durante l’amministrazione mandataria britannica (1923-1948), si ebbero sia esempi importanti di associazionismo femminile, sia esempi di partecipazione attiva alle manifestazioni anti-inglesi e antisioniste (si pensi alla prima grande rivolta a carattere popolare tra il 1936 e il 1939). Oggi, le donne palestinesi fronteggiano ancora, in prima persona, l’irrisolta questione nazionale. Anche a uno sguardo superficiale non può sfuggire la centralità del loro ruolo nelle strategie di sopravvivenza: funzione primaria ed essenziale perché permette, al di là della risposta ai bisogni quotidiani, di mantenere in vita la memoria collettiva e il rapporto tra generazioni, di attivare legami sociali attraverso istituzioni culturali e di assistenza, di aggregare forze diverse. Non a caso, le occasioni e i luoghi d’incontro e di dialogo vedono in prevalenza il coinvolgimento di donne palestinesi e – va detto – di israeliane.
Certamente, in campo palestinese, è venuto alla ribalta un fenomeno inaspettato, se non altro perché è stato letto in modo molto diverso da come fu giudicato circa sessant’anni fa il concorso di algerine ad alcuni attentati in luoghi pubblici. Nel 2002 la Brigata dei martiri di al-Aqṣā, affiliata al pur laico al-Fataḥ, rivendicò un attentato suicida, compiuto da una donna; nel 2004 è stata una militante di Ḥamās, che contempla al suo interno una sezione ma non un gruppo armato femminile, a compiere un’analoga azione. Siamo di fronte a un esempio estremo, e magari pilotato, di invasione di campo da parte femminile? Si tratta di exploit isolati, ovvero un simile atteggiamento farà scuola, considerata la situazione complessiva della regione (si pensi all’Irāq o alla questione curda)? Non entriamo nel merito dell’azione in sé, che non è qui di pertinenza. Ci preme piuttosto segnalare che la globalizzazione induce a dare risposte, in tempi brevi, a un problema che è stato a lungo anche nostro: come giustificare, là dove le priorità non sono questione di scelta individuale, una divisione di ruoli che può rivelarsi produttiva per la collettività ma che sancisce e perpetua la subalternità dell’operato femminile? Per evitare risposte considerate aberranti la soluzione vincente, qualora non si diano le condizioni di svolte politiche strutturali, potrebbe apparire proprio quella di difendere, e addirittura sollecitare, come qualche cosa di naturale e di islamico, l’estraneazione dalla politica di quella larga parte delle masse femminili musulmane che ancora non hanno fatto la loro comparsa nell’arena pubblica. Successe qualche cosa del genere anche in Algeria, una volta ottenuta l’indipendenza (1962). Le algerine, pur chiamate a dare il loro contributo al nuovo Stato, dovettero attendere il 1984 per una (peraltro deludente) Legge di famiglia che non sanciva affatto la parità tra i due sessi. Non per questo, come si è visto, sono uscite di scena. Possiamo anzi dire che il futuro delle società musulmane dipenderà sempre più dalla politica sulle e delle donne.
Secondo alcuni approcci metodologici odierni, del tipo subaltern studies, hanno valenza politica, in quanto espressioni di resistenza al sistema di potere dominante da parte dei ceti sociali meno privilegiati, molte forme di sottrazione o di indifferenza nei confronti delle istituzioni, in primo luogo lo stato autoritario e la famiglia patriarcale. Questa lettura è certamente valida a proposito della crescente iniziativa femminile in campo economico. Accanto alle attività femminili tradizionali, diverse da luogo a luogo – produzione e vendita al minuto di prodotti agricoli, per es. nelle zone rurali del Marocco, produzione di tappeti, il cui mercato è però in mano maschile, in Turchia o in Asia centrale – si assiste oggi a un’imprenditoria femminile, in Africa come in Asia, certo non limitata alle musulmane. Tale imprenditoria è basata sul microcredito, il cui successo sembra acquisito e le cui conseguenze sul piano dei rapporti di potere in ambito familiare potranno misurarsi tra qualche anno. Certo, è una prima smentita alla pretesa passività attribuita alle masse femminili fuori dall’Occidente in genere, e musulmane in particolare.
Il diritto
Il dramma afghano
La medesima lettura può aiutare a sospendere il giudizio sull’apparente assenza o limitatezza di reazione da parte delle donne di fronte a una situazione estrema di oppressione come quella afghana? È questo il messaggio trasmesso da una certa cinematografia, che oggi assume valore di documento nei confronti di una realtà decisamente mal conosciuta, e che, non a caso, vede in prima linea registe musulmane. Basti pensare ai film delle sorelle iraniane Samira e Hana Makhmalbaf (Panj-e asr, 2003, Alle cinque della sera, di S. Makhmalbaf; Budā az sharm foru rikht, 2007, noto con il titolo Buddha collapsed out of shame, di H. Makhmalbaf) e a Saġ-hā-ye velgard (2004, Piccoli ladri) di Merzieyeh Meshkini. L’ambito privato, in quanto specchio fedele dell’arena pubblica, è il luogo della protesta, a sua volta espressa in forme che sono raramente di netta contrapposizione con il maschile e di rifiuto della società nel suo complesso. A parte il cinema, peraltro non autoctono (nella fattispecie esso è soprattutto iraniano), rare sono le eccezioni di vera e propria ribellione che escono allo scoperto, anche da parte di donne appartenenti al ceto dominante del Paese. Apparentemente le afghane subiscono il burqa῾ così come l’esclusione dalla vita pubblica senza proteste estreme. Su ciò indubbiamente incide il fatto che presso alcune tribù pashtun vige una lunga tradizione di oppressione femminile che viene ascritta all’islam, nonostante questa sia spesso in patente conflitto con le norme del diritto islamico, così come si è codificato nei primi secoli di vita della comunità ed è stato applicato sulla base di considerazioni diverse. Considerazioni, comunque, tutte riconducibili a un criterio di maggiore o minore opportunità sociale che non esclude a priori la discrezionalità del giudice cui spetta la tutela degli interessi del singolo, specie se debole come le donne, nei confronti della controparte.
L’Afghānistān è, dunque, uno di quei casi in cui il diritto costituisce l’area nevralgica per eccellenza. Qualche notizia può illuminare sulle condizioni in cui lo stesso diritto viene discusso, elaborato, applicato, distinguendo tra ciò che è endemico nella tradizione del Paese e ciò che è, invece, determinato dalla politica internazionale. La Carta costituzionale del 1964, in particolare l’art. 25, prevede l’uguaglianza degli individui davanti alla legge, senza distinzioni. Nel 1971 venne promulgata una legge sul matrimonio che riprese alcuni punti già presenti in una risalente al 1949 (epoca in cui gli avvenimenti di questi ultimi decenni sarebbero apparsi fantascientifici). Si adottarono allora alcune norme tese a una graduale modernizzazione che, in merito al matrimonio, si focalizzavano sul divieto fatto a chiunque, parenti della sposa inclusi, di ricevere dallo sposo o dalla sua famiglia un ‘prezzo’ della sposa. Tale prezzo è spesso confuso con il mahr, questo sì requisito necessario a rendere valido il contratto matrimoniale nel diritto islamico, in quanto rappresenta il risarcimento pagato alla donna, che ne entra in possesso in prima persona, per la prerogativa, concessa solo all’uomo, di sciogliere il vincolo matrimoniale unilateralmente con il ripudio. Questa legge, data la mancanza di indicazioni chiare sulla perseguibilità di chi contravviene, sarebbe stata disattesa così come era accaduto per il dettato costituzionale. Nel 1971, il Paese era retto da una monarchia costituzionale, spazzata via da un colpo di Stato due anni dopo. Nel 1973 venne proclamata la Repubblica e incominciò il tormentato periodo in cui si voleva attuare una rivoluzione socialista. Ciò che è qui di pertinenza è la riforma del diritto di famiglia (1978) che riprendeva, con maggiore puntualità giuridica, quanto già affrontato nella legge del 1971. La normativa contraria alle pratiche matrimoniali tradizionali aumentò, quando non provocò, l’ostilità tribale nei confronti nel regime, tutt’altro che stabile, come dimostrarono i vari colpi di Stato e i mutamenti che si susseguirono ai vertici del potere. L’invasione sovietica del 1979 fece il resto, offrendo un valido motivo per prendere le armi – si parlò di ǧihād – contro l’invasore e il regime che questi proteggeva, in nome della fedeltà all’islam e con un insistente richiamo alla tradizione. Nel 1994 (il ritiro sovietico è del 1989), entrarono in scena i Ṭālibān e con loro (1996) si impose uno dei più repressivi regimi della storia nei confronti delle donne, sotto una pretesa veste islamica, tanto da far parlare ‘di una vera e propria aberrazione della šarī῾a’ (la cosiddetta legge canonica, basata sulla rivelazione).
Senza questa premessa che mette in evidenza come la questione femminile si intrecci con le sorti dello Stato afghano, e talvolta le determini, sarebbe difficile valutare gli sviluppi successivi causati da altri eventi esterni che, una volta di più, hanno mutato il volto del Paese: l’attacco alle Twin Towers l’11 settembre 2001 e, il mese seguente, l’intervento armato (Enduring freedom) della coalizione capeggiata dagli Stati Uniti in Afghānistān, che rovesciò il regime talebano. La sconfitta dei Ṭālibān non ha condotto alla pace; anzi si è intensificata una guerra subdola e diffusa dall’esito incerto. Tuttavia, o proprio per questo, sono stati raggiunti alcuni accordi internazionali (Bonn, 5 dicembre 2001) che prefiguravano l’assetto giuridico-istituzionale del Paese in termini ambigui. Permane, cioè, il riferimento alla teoria del buon governo islamico: nei confronti delle masse, sono indicate categorie giuridiche e concetti che si vogliono islamici per giungere allo stato di diritto, mentre in sede internazionale il linguaggio è quello dell’Occidente. A monte resta il fatto che l’instabilità del potere centrale non consente di controllare e di punire la violazione di diritti anche elementari, soprattutto nei confronti delle donne. La nuova Costituzione del 2004 proclama l’Afghānistān una Repubblica islamica di cui l’islam è la ‘sacra religione’. L’art. 22 ribadisce il divieto di ogni forma di discriminazione e di privilegio e sancisce l’uguaglianza di diritti e doveri di uomini e donne di fronte alla legge: ottima dichiarazione di principio, in netto contrasto, però, con quanto prevede, in merito al diritto di famiglia, il Codice civile in vigore per il quale esiste qualche progetto di riforma con ben poca possibilità di essere anche soltanto preso in considerazione. La condizione femminile resta sostanzialmente invariata, e lo resterà fino a che non verrà sciolto il nodo che lega, in maniera assurda, i richiami alla prassi giuridica occidentale con la matrice islamica, considerata irrinunciabile in fatto di diritto, e con la tradizione locale alimentata da perverse ma salde ragioni socioeconomiche.
Le contraddizioni dell’Arabia Saudita
L’Afghānistān è certamente un caso limite. Ne esiste un altro con tutt’altra storia: quello dell’Arabia Saudita, Paese ricco, senza problemi demografici, interlocutore privilegiato dell’Occidente, che ben raramente interviene a sindacare le discriminazioni nei confronti delle donne. Nel marzo del 2008 un quotidiano saudita, «al-Waṭan», annunciava la caduta del divieto che impediva alle donne di recarsi in un albergo se non accompagnate dal loro tutore, motivando la decisione governativa con questioni di forza maggiore che, nella vita attuale, sempre più spesso possono mettere le donne nell’impossibilità di raggiungere il proprio domicilio prima di sera. Sempre nei primi mesi del 2008, la stampa internazionale riportava la notizia che era stata concessa alle saudite la possibilità di guidare un’automobile, cosa in precedenza vietata dalla legge ma promessa dal re almeno tre anni prima. Il permesso prevede determinate condizioni: essere sopra i 30 anni; ottenere il nulla osta dal proprio tutore, maschio ovviamente; guidare con il velo e senza trucco; avere con sé un cellulare; rispettare la precisa fascia oraria 7-20 nei giorni feriali, 12-18 nei fine settimana; pagare un consistente deposito cauzionale per eventuali incidenti. In contemporanea, si fa obbligo ai maschi di non rivolgere la parola alla donna che guida. L’assurdità del tutto potrebbe indurre un’idea del Paese molto distante dalla realtà.
La scuola che struttura teoria e prassi giuridica in Arabia Saudita è quella hanbalita, dal nome del suo fondatore Aḥmad ibn Ḥanbal (m. 855). Sull’hanbalismo, a fine Settecento, si è innestata una corrente di pensiero nata nella Penisola, che è stata presto esportata in India e che oggi, pur restando minoritaria, sta conoscendo un rapido sviluppo prima di tutto in Pakistan, ma anche in alcuni Paesi africani dove la sua diffusione si accompagna a un missionarismo che accelera l’imponente processo di conversione all’islam. Questa corrente è il wahhabismo (wahhabite sono le scuole dei Ṭālibān), il cui tratto più vistoso sta nel predicare la necessità di un ritorno alla lettera delle fonti, e nella conseguente denuncia delle deviazioni rappresentate dalle prassi giuridiche così come si sono andate evolvendo nel corso del tempo.
Le ricadute sulla condizione femminile sono enormi. Da un lato i principi informatori dell’islam, cui spesso facciamo riferimento, vengono interpretati e tradotti nella loro versione più rigida, dall’altro la presenza femminile nella storia del mondo islamico viene cancellata o relegata a poche figure dell’epoca del Profeta e del primo islam. Ne consegue che, almeno in teoria, la divisione tra spazio maschile e spazio femminile non ammette deroghe; che la donna è destinata a essere sotto tutela maschile per qualunque atto voglia compiere, dall’effettuare un viaggio al contrarre matrimonio; che la famiglia – inutile precisarlo – non può che essere patriarcale e che i figli appartengono al padre. Eppure, per es., il tasso di alfabetizzazione femminile in Arabia Saudita è alto: infatti, le donne hanno accesso all’educazione, se disposte a sottomettersi alle regole della segregazione, e, secondo alcune stime, rappresentano addirittura più del 55% dell’insieme dei laureati. I servizi sanitari sono efficienti, il livello di vita è più che accettabile. La famiglia reale e il suo entourage godono ovviamente di non pochi vantaggi, di cui beneficia anche la parte femminile, in virtù di una serie di escamotages con cui si salva la forma e che fanno scuola anche per le meno privilegiate. Non solo, le donne che se lo possono permettere – vuoi perché parte della classe dirigente vuoi perché, per una qualche ragione, hanno credibilità all’estero – hanno incominciato a far sentire la loro voce attraverso la stampa e la radio e, sebbene non in vera dissonanza con l’ideologia del regime (condizione forse pregiudiziale per poter agire) a chiedere che le loro richieste vengano seriamente ascoltate.
Pur senza una sostanziale modifica del quadro qui disegnato, l’inizio del nuovo secolo ha aperto qualche spiraglio degno di nota che va oltre le novità sopra menzionate, probabile conseguenza di una serie di fattori. Ricordiamone alcuni: la crescente instabilità dell’area per il conflitto iracheno; la presenza americana sul territorio della Penisola a seguito della prima guerra del Golfo (1990-91); l’emergenza inusuale di problemi economici e, a seguito della tragedia afghana, l’aumentata e generalizzata attenzione sulla condizione femminile nei Paesi musulmani da parte dell’Occidente, alleato da non perdere, soprattutto vista l’implicazione di sudditi sauditi nell’attentato dell’11 settembre. Nel settembre 2005 è stato promulgato un nuovo statuto del lavoro, il Niẓām al-῾Amal, che dedica un intero capitolo, il nono, alle condizioni della lavoratrice, in particolare della lavoratrice madre. Lo spirito informatore è quello della necessità di proteggere la donna e di facilitarla al massimo, specie se ha prole. Una conquista innegabile che, tuttavia, viene motivata dalla natura femminile più fragile e, dunque, dall’esigenza di evitare i rischi connessi con un’indebita equiparazione, nel mercato del lavoro, con il maschio, su cui comunque continua a pesare la responsabilità del mantenimento non solo dei figli, ma anche della moglie, che sia o meno lavoratrice. Di qui, si motivano la diversa retribuzione e alcune differenze in fatto di previdenza sociale. Complementari al Niẓām al-῾Amal, sono alcune indicazioni contenute nel contemporaneo Eighth development plan con valore quinquennale. Sebbene non vengano date risposte esaurienti, il Piano si pone esplicitamente in controtendenza rispetto a quelli precedenti in cui si esaltava il ruolo della donna nell’esclusivo ambito familiare, e porta alla ribalta il problema dell’inserimento femminile nei processi produttivi, senza mettere, però, in discussione né la separazione dei sessi né l’istituto del tutore. Simili aperture possono sembrare inezie, se non si tiene conto del fatto che in Arabia Saudita i diritti politici, così come intesi da noi, sono ancora un miraggio e che, di conseguenza, le donne sono particolarmente penalizzate. Infatti, nonostante ci siano state proteste anche veementi, le donne non hanno ancora vinto la battaglia per il diritto di voto attivo e passivo nelle varie istanze elettive e, nei pochi casi in cui è loro concesso il voto attivo, è il tutore che materialmente si deve recare al seggio ed esprimere, per delega, la loro volontà. Si è avuto qualche segno di apertura nel 2008 con il permesso di votare – non di candidarsi, però – per i consigli d’amministrazione delle rappresentanze delle guide religiose per i pellegrinaggi; nel febbraio 2009, la stampa occidentale ha dato grande rilievo alla nomina di una donna come viceministro dell’Istruzione. Segnali interessanti, ma non tali da farci pensare a una svolta irreversibile. Fino a qualche anno fa, la stessa situazione vigeva in altri Paesi del Golfo. Si consideri il Kuwait dove, nel 2005, è stata sì introdotta una norma tesa a porre fine a una discriminazione di così enorme portata, ma la cui applicazione resta problematica se corre voce che si stia formando una rete di donne, pronta a trasformarsi in partito entro il 2009, con lo scopo di pretendere la piena applicazione di tali diritti, tuttora conculcati.
La spinta emancipatoria nei Paesi nordafricani
La situazione sul piano del diritto è sempre insoddisfacente, ma non così drammatica, per tutti i Paesi musulmani. Tanto per fare un esempio, la Siria offre l’immagine di un Paese in cui i pur esistenti condizionamenti in ambito giuridico non si traducono in regole discriminatorie nella vita quotidiana delle donne. In linea generale, là dove lo Stato si struttura sul modello occidentale, cioè come Stato nazionale, a prescindere dal grado di effettiva democrazia al suo interno, l’iter di emancipazione femminile e di riconoscimenti giuridici, certamente non concluso, ha una lunga storia. Le donne vi hanno dato e vi danno il loro contributo, come si è accennato parlando di politica. La loro partecipazione alla vita pubblica, elezioni in primo luogo, è, almeno in linea teorica, un fatto acquisito, mentre, a prescindere dai pronunciamenti ufficiali, è un dato di fatto che esse siano penalizzate nel mercato del lavoro e nell’accesso alle libere professioni. Risultano ugualmente innegabili i condizionamenti di ordine economico che pesano in misura diversa su maschi e femmine.
Non a caso la Libia, che può contare su maggiori risorse, a fronte di una popolazione numericamente esigua, presenta forse la situazione più positiva. Viaggiando nel Paese, non si ha l’impressione che le donne vengano relegate o siano obbligate, per es., a velarsi, nonostante perdurino, indubbiamente, alcune forme tradizionali di comportamento (niente nudità o esibizione di atti a carattere sessuale in pubblico). L’analfabetismo è quasi completamente scomparso. L’accesso all’educazione superiore è aperto a tutti e all’inizio del 21° sec. le donne iscritte all’università erano il 50%. Le donne lavorano soprattutto nella pubblica amministrazione. Nella famiglia sussiste una divisione di ruoli, ma l’autorità paterna non è assoluta. Pur ispirata all’islam, e più precisamente alla scuola giuridica malikita, fondata nell’8° sec. e assai diffusa nella maggior parte dei Paesi africani, nel 1984 è stata promulgata una legge che definisce lo Statuto personale della donna riconoscendole alcuni diritti fondamentali, per es., la necessità del suo esplicito consenso per rendere valido l’atto matrimoniale. Sono segni del fatto che si è innescato un reale processo d’emancipazione la cui spinta, però, viene senza dubbio dall’alto. La condizione femminile rientra, infatti, tra le priorità della politica seguita da Muammar Gheddafi (Mu῾ammar al-Qaḏḏāfī) fin dai primi anni della sua presa del potere. Lo scopo è quello di estendere il consenso al regime tra la popolazione femminile, non diversamente da quanto occorso in altri contesti, come si è detto in precedenza. Ma c’è di più. Nella prospettiva di attrezzare il Paese a far fronte a eventuali emergenze e nell’ipotesi, forse troppo utopica, di realizzare tale obiettivo con le esclusive forze interne, Gheddafi, nel 1975, avviò una militarizzazione di massa e – fatto unico nella storia del mondo arabo – quattro anni più tardi aprì un’Accademia militare femminile. Come a dire che l’equazione donna = moglie = madre non è l’unica opzione possibile e che lo Stato si impegna a essere coerente nelle sue scelte future in campo giuridico come in fatto di promozione sociale.
Tuttavia, se si evoca il binomio ‘diritto e donne’ nella maggior parte dei Paesi musulmani, in particolare arabi, è di Statuto personale che si parla. Si tratta di una «partizione del diritto caratteristica dei moderni sistemi giuridici dei Paesi arabi e, più in generale, musulmani […] non utilizzata oggi fuori dal mondo islamico né conosciuta al diritto musulmano classico», le cui norme «accanto alle questioni di stato e di capacità della persona» vertono, per quanto qui ci concerne, sul «matrimonio, i rapporti patrimoniali tra i coniugi, i rapporti di parentela e gli obblighi alimentari connessi». La «‘personalità’ dello statuto rimanda […] all’applicabilità di questo gruppo di norme» nel senso primario che «il diritto musulmano viene applicato ai musulmani dal giudice musulmano, lasciando che i non musulmani vengano retti dai diritti loro propri, amministrati dai rispettivi giudici confessionali». Sennonché, «di statuto personale si continua a parlare anche in sistemi in cui i giudici confessionali sono stati aboliti», cioè nei «casi in cui il diritto musulmano codificato è applicato nella sua totalità, o in parte, all’insieme dei cittadini a titolo di diritto unico dello Stato» (Aluffi Beck-Peccoz 1999, p. 54).
Capire il quadro giuridico in cui viene collocata la questione femminile è essenziale per chiarire alcuni punti importanti: le regole dettate dalla šarī῾a nella maggioranza dei casi «sono state sottoposte a riforma e organizzate in moderni codici» (p. 54) con risultati disomogenei. Infatti, pur nella ricerca di un punto d’incontro tra esigenze di modernizzazione e rispetto della tradizione, non sempre si è avuto un superamento della šarī῾a stessa e, ciò nonostante, sono indubbi i progressi della condizione femminile soprattutto in fatto di diritto matrimoniale. I tempi sono sfasati, a seconda dei Paesi. La poligamia, come già nel 1926 aveva fatto Kemal Atatürk nella neonata Repubblica turca, venne abolita in Tunisia da Habib Bourguiba (Ḥabīb Abū Ruqayba) insieme al ripudio, praticamente nel momento in cui venne dichiarata l’indipendenza del Paese (1956). Altrove, sia la poligamia sia il ripudio vengono sottoposti a restrizioni, quali, per es., la necessaria autorizzazione del giudice a un secondo matrimonio, l’obbligo da parte del marito di informare la moglie, l’inserimento della poligamia tra le cause di divorzio. Nell’impossibilità di entrare nel dettaglio per i singoli Paesi, interessa mettere in evidenza che la materia di cui trattano lo Statuto personale o la Legge di famiglia continua a essere sensibile, tant’è che si susseguono nel tempo diverse stesure, frutto di un dibattito pubblico a volte acceso. Tale confronto di posizioni, nell’insieme, dimostra come il processo di avvicinamento ai modelli occidentali sia lento ma irreversibile se non altro perché è sul terreno del diritto di famiglia che si giocano, in buona parte, le relazioni bilaterali tra Stati europei che ospitano una crescente presenza di musulmani e i diversi Paesi di provenienza: si pensi, per es., ai ricongiungimenti familiari in relazione alla poligamia o alle implicazioni che possono derivare dalla diversa normativa in fatto di potestà parentale.
È, infatti, indicativo che in Algeria nel febbraio del 2005 sia stata emendata, cioè migliorata, la Legge di famiglia del 1984; che in Egitto sia stato promulgato nel 2000 un nuovo Statuto personale e nel 2004 siano stati istituiti, con l’intento di sostenere l’istituto familiare, i Tribunali della famiglia e una Cassa di assicurazione familiare; e ancor più che in Marocco, dove pure nel 2001 l’analfabetismo femminile era ancora pari al 62,8% nelle città e all’82% nelle campagne, il re Muḥammad VI abbia presentato nel 2003, per poi promulgarla nel 2004, una nuova versione della Mudawwana (le precedenti sono del 1957 e del 1993). Quest’ultima versione appariva come una delle più aperte leggi di famiglia del mondo arabo ed era sostenuta, tra l’altro, da varie associazioni femminili marocchine, alcune di carattere decisamente politico, altre tese a difendere e promuovere, più puntualmente, i diritti delle donne. Ha contato, con ogni evidenza, la stabilità del regime, meno scontata in altre realtà della regione, e l’autorevolezza della persona del re. Tuttavia, molti Paesi arabi, e nordafricani in particolare, hanno firmato, in momenti diversi, la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne, approvata a Copenaghen nel 1980, mantenendo una riserva sull’art. 16, che afferma la parità di diritti e doveri dei coniugi. Il Marocco lo ha fatto nel 1993, con notifica nella «Gazzetta ufficiale» solo nel 2001. Infine, e questa è informazione che non si limita ai Paesi arabi ma al mondo musulmano nel suo insieme, l’aborto è generalmente permesso in caso di rischio di vita per la madre, mentre è legale, senza restrizioni di motivazioni, nei soli Stati che hanno fatto parte dell’Unione Sovietica. Come a dire che il processo è lento – forse a garanzia di non ritorno – ma il cammino è tracciato.
L’anomalia dell’Irān
Quanto detto a proposito del coinvolgimento politico femminile in Irān determina anche un anomalo rapporto tra prassi e teoria giuridica. Dall’opinione pubblica internazionale il regime khomeinista è stato accusato di aver abolito, appena arrivato al potere nel 1979, il ‘progressista’ Family protection act che lo scià aveva promulgato nel 1967. In verità, il Family protection act regolamentava ma non aboliva la poligamia, mentre rimaneva lecito il cosiddetto matrimonio a termine, che è previsto soltanto dall’islam sciita. Si tratta di un’unione non registrabile, la cui durata è fissata per accordo dalle due parti, penalizzante per la donna cui non vengono riconosciuti i diritti previsti nel matrimonio regolare e che, con qualche ragione, è stata vista come un modo di aggirare il problema della prostituzione, stigmatizzata senza appello dalla tradizione islamica classica.
Ora, da un lato la poligamia oggi è praticamente assente in Irān. Anzi, a livello popolare, questa è una delle colpe attribuite al cosiddetto clero sciita, a dimostrazione della legittimità di opporsi al suo strapotere; dall’altro lato, la Legge di famiglia, che continua a essere pubblicata, con gli aggiornamenti del caso, in migliaia di copie (1999, 200818), formalmente non è in dissonanza con la tradizione, pur enfatizzando al massimo lo spirito di solidarietà e di rispetto che deve regnare tra i coniugi e il dovere di proteggere gli interessi dei figli. Essa ammette anche il matrimonio a termine, cui dedica peraltro solo tre articoli. Da segnalare che tale matrimonio è visto da alcuni uomini di religione – ma non solo – come l’istituzione entro i cui binari preordinati incanalare l’appagamento sessuale di una popolazione che è in larga maggioranza sotto i trent’anni. Sarebbe, per così dire, il male minore di fronte al doppio pericolo che il disagio giovanile, soprattutto maschile, si trasformi in protesta sociale, e che trionfi la sregolatezza sessuale presentata dal regime come uno dei tratti più odiosi dell’Occidente.
L’anomalia di cui sopra comporta che a un’azione del regime corrisponda una reazione. Non è dato sapere quanto sia diffuso il matrimonio a termine. Proprio la mancanza di dati in proposito lascia pensare che esso sia ben poco praticato. Dunque, è indicatore valido di una situazione complessiva, in cui nella prassi le disposizioni date dall’alto o sono ampiamente disattese o vengono consapevolmente stravolte in direzione opposta alle finalità per cui sono state pensate. Il meccanismo per aggirare la lettera della legge consiste nel far leva sulle contraddizioni e spingere quanto più possibile in direzione emancipatoria l’interpretazione di quei principi di giustizia e di equità, evocati come fondanti da parte del regime stesso. Questa è la tattica messa in atto dalle donne. È così che si aprono varchi nel sistema di potere maschile. Il potere, d’altronde, come si è detto, ha bisogno del consenso femminile, almeno in determinate circostanze. E allora i varchi si moltiplicano e si allargano. Un esempio per illustrare quanto si viene dicendo. Oggi, finito il conflitto con l’Irāq (disastroso in termini di perdite umane, per cui il regime aveva spinto all’incremento demografico), l’Irān è tappezzato di manifesti in cui si afferma che «due figli sono sufficienti, anzi l’ideale»: un appello al controllo delle nascite, se non alla pianificazione familiare. Nella lettura delle donne, però, esso può implicare, accanto all’assunzione di responsabilità, un implicito riconoscimento del diritto di gestire il proprio corpo, e, nei fatti, smentire la bontà della poligamia, eventualmente sostenuta dagli uomini. È lecito chiedersi se sia possibile mettere in relazione all’anomalia dell’Irān il particolare interesse che si è andato sviluppando negli ultimi anni da parte delle iraniane per la questione religiosa, per cui esse possono invocare, a ragion veduta, il Corano là dove dice «fra le donne che vi piacciono sposatene due o tre o quattro, ma se temete di non essere giusti, allora una sola» (IV, 3), per cui patente sarebbe l’ingiustizia di non concedere a ognuna la medesima opportunità di essere madre.
La religione
Distinguere tra quanto è questione religiosa e quanto attiene alla sfera giuridica e politica è, come già detto, particolarmente complicato quando si tratta di islam. Ci sono a monte ragioni obiettive, per es. quella per cui l’islam è percepito dai diretti interessati come fattore primario d’identità, spesso superiore alla lingua, all’appartenenza etnica e territoriale. Su una simile realtà si sono poi costruite categorie storiografiche, dentro e fuori il mondo musulmano, che hanno presentato un’immagine distorta delle società musulmane e delle dinamiche che le hanno strutturate. Tutto ciò pesa sul presente, aggravato dalla peculiare congiuntura internazionale dell’ultimo ventennio.
Ma partiamo dall’oggi. In Turchia, nei primi mesi del 2008 è stata presentata e approvata una legge che abroga il divieto fatto alle donne di presentarsi velate nelle università turche, anche statali, con la motivazione che il velo sia precetto divino e che impedire di osservarlo significhi l’esclusione delle turche praticanti dal diritto di accedere all’istruzione superiore. Velo sì, velo no, valore del velo, simbologia del velo, sono temi che le musulmane hanno incominciato ad affrontare già da più di un secolo e a farlo ripensando il dettato religioso. Le risposte sono state, e continuano a essere, molteplici, poiché esse variano in relazione al ceto sociale, al grado di istruzione e alla situazione sociopolitica in cui le donne hanno operato e tuttora si trovano a operare.
Al momento appare improbabile che, per depositi culturali, per vera e propria ignoranza, per ambiguità dei testi fondanti, si arrivi a una presa di posizione condivisa in merito al velo, così come a questioni ben più determinanti. È ignoranza credere che il Corano parli di lapidazione delle adultere o che la circoncisione femminile, in modo particolare quella che noi chiamiamo ‘faraonica’, ossia l’infibulazione, sia considerata un precetto, alla stregua, per es., dell’elemosina canonica. È, invece, problema non semplice definire quale debbano essere la o le corrette esegesi dei versetti che denunciano l’esistenza di rapporti ineguali tra uomo e donna, tra libero e schiavo, nel mondo ontologicamente imperfetto che è il nostro, a fronte di una sostanziale e inevitabile parità di statuto nei riguardi dell’assoluta trascendenza divina. E ancora, se la parità di genere è sancita nel momento della creazione dell’essere umano, la minore attitudine femminile alla responsabilità, paradossalmente, può essere addirittura adombrata dal fatto che il Corano non attribuisce alla sposa di Adamo, cioè a Eva, la parte preponderante di colpa nel peccato originale attribuitale nella tradizione giudaica e cristiana. Tuttavia, la cosa non è univoca, visto che esiste, sempre nel Corano, un polo opposto rappresentato dalla figura di Maria che nel suo rapporto di madre vergine del profeta Gesù non prevede mediazione maschile: nessun Giuseppe compare mai, neppure nel racconto della nascita vicino, peraltro, ai Vangeli apocrifi.
In attesa di un commento coranico di marca femminista, sistematico e all’altezza della tradizione esegetica maschile anche contemporanea, non ci resta che denunciare, una volta di più, il pericolo di fraintendimento tra islam/religione e islam inteso nelle diverse accezioni di cui si è detto. Manteniamoci, quindi, quanto più possibile, aderenti ai fatti. È un fatto che ci siano tentativi, anche importanti, di rilettura femminista delle fonti, soprattutto nell’ultimo decennio. Si è addirittura creata un’espressione ibrida, ‘femminismo islamico’, che funge da etichetta a tali tentativi, qualunque sia la loro finalità immediata. Mentre esiste una comprensibile timidezza nell’ipotizzare la possibilità di un sovvertimento sostanziale dell’impianto classico della religione islam, imperniato sulla funzione profetica, realizzatasi nella storia attraverso figure maschili, è, in apparenza, meno eversivo contestare che, concluso il ciclo profetico, sia una costringente consequenzialità la prerogativa maschile di interpretare e, se del caso, aggiornare il portato della rivelazione. Come dire, che si può intravedere con relativo ottimismo il momento in cui le donne potranno essere giudici o conduttrici della preghiera (imām) o persino giurisperiti (muǧtahid) alla Khomeini. Per arrivare a questi risultati, non è indispensabile porre in discussione la validità della lettera della rivelazione, parola di Dio, qualora si sia in grado di provare che essa va interpretata come il velo che nasconde una pluralità di significati, inesplorati perché in attesa del momento opportuno per venire alla luce. Il nodo sta nella ‘prova’ che, per essere convincente, deve dimostrarsi coerente con i metodi della tradizione esegetica, per secoli appannaggio maschile, e, nel contempo, rivoluzionaria nei contenuti. Questa è la direzione della ricerca che sta al centro del ‘femminismo islamico’ là dove, in Arabia Saudita, come in Irān o in Egitto, ci sono credenti impegnate, che non si accontentano di avere una qualche voce in capitolo grazie a una sparuta rappresentanza di donne, chiamate a dare pareri giuridici (Egitto) o ad affiancare, nelle cause in cui ci sono donne coinvolte, il giudice di turno (Irān). La teologia e il diritto canonico sono le armi di cui queste donne intendono appropriarsi.
Il ‘femminismo islamico’, però non è fenomeno esclusivo dei Paesi islamici dove, anzi, è ancora un prodotto di nicchia. Esso sta esplodendo in Occidente. Qui, come è da aspettarsi, ci si può concedere il lusso di essere sia radicali sia sperimentali. Così, queste ricerche, soprattutto teoriche, che hanno circolazione e visibilità, sono frutto del lavoro di musulmane residenti, per scelta o per necessità, in Occidente, soprattutto negli Stati Uniti, trampolino che può garantire un’audience davvero internazionale. In misura minore, poi, riguardano anche donne non musulmane che, dotate di competenze specifiche, hanno avuto, per ragioni diverse, una frequentazione speciale con una qualche realtà del mondo musulmano. È chiaro che entrambe, musulmane e non, interloquiscono, in qualche modo, con ciò che è diventato materia corrente, anche in sede accademica, nella cristianistica femminista. Un’analisi, sia pure superficiale, dei primi risultati delle une e delle altre comporterebbe sconfinamenti nella storia delle religioni e rinvii alla teologia islamica tali da stravolgere il senso di queste note. Ci si permetta solo di segnalare a chi è interessato a come si evolverà nel primo secolo di questo millennio la questione femminile in terra d’islam che, nell’opinione di chi scrive, molto dipenderà proprio dalla produzione teologica delle musulmane occidentalizzate. Saranno queste musulmane a segnalare i punti massimi di contrasto e, nello stesso tempo, le linee di demarcazione che si possono – o si devono – superare per entrare nel sistema globale, plausibilmente in un rapporto, non necessariamente conflittuale, con le accademiche di diversa appartenenza ideologica e confessionale, dal momento che esiste un punto di partenza comune, vale a dire la persuasione condivisa che nessuna società abbia finora completamente realizzato né parità ed eguaglianza tra i generi né il superamento effettivo del patriarcato. Cosa per cui potrebbe darsi una sinergia soprattutto in campo teologico, magari limitatamente alla verifica della funzionalità nei confronti dell’islam di metodologie e categorie concettuali rivelatesi idonee in ambito cristiano a mettere in crisi le teologie di stampo maschilista. Il risultato può configurarsi come un’ennesima forma di acculturazione dai tratti coloniali – civilizzare l’altra – ma, alla stessa stregua, potrebbe rappresentare una sfida di tipo ecumenico, volta a dotare le società musulmane di un linguaggio capace di tradurre concettualmente, e poi nei fatti, la forma specifica di modernità che l’islam ha in sé e che nella gestione maschile dell’esistente fatica a emergere.
Resta, comunque, pretestuoso ricondurre tutto quello che succede in terra d’islam (o almeno quasi tutto) soltanto a un problema religioso.
Con ciò torniamo, quale caso emblematico, al divieto del velo e alla sua odierna abrogazione per le studentesse universitarie turche. Il divieto in questione faceva parte del pacchetto di misure prese a partire dal 1924 per occidentalizzare la Turchia repubblicana, sorta sulle ceneri dell’Impero Ottomano. La particolare atmosfera politica del Paese impedì che ci fossero reazioni sostanzialmente ostili. Al contrario, la Turchia conobbe nel secolo scorso, dagli anni Trenta in poi, una presenza femminile nelle professioni liberali eccezionale almeno per i Paesi mediterranei, non solo musulmani. Le donne coinvolte appartenevano ai ceti sociali più elevati. Infatti, le misure emancipazioniste calate dall’alto rispondevano agli interessi delle élites che nella nuova Repubblica puntavano sulla promozione di una borghesia nazionale, anche a costo di aumentare, come effettivamente avvenne, il divario sociale. La disposizione riguardo al velo costituiva soltanto l’aspetto simbolico della questione. Infatti, per es. in Irān, vale a dire in un diverso contesto, la reazione al divieto di velarsi in pubblico, emesso dal primo scià Pahlavi nello stesso periodo, fu di segno opposto: il rifiuto delle donne, a prescindere dalla posizione sociale, di uscire di casa.
Oggi, la rimozione del divieto è stata letta come un segno della crescente ondata integralista che attraversa il Paese. L’analisi è più che plausibile ma riporta, comunque, a un problema politico. E per di più, per essere politicamente corretta, dovrebbe essere integrata da un’altra riflessione, parallela e complementare insieme, sul significato odierno – e le implicazioni del medesimo – della libertà individuale e della laicità dello stato, una questione tutt’altro che lineare, non solo in Turchia. Si pensi ai fiumi d’inchiostro versati in Francia riguardo il foulard islamico, sentito come un attacco alla natura dello Stato, mentre l’Italia ha relegato il problema nell’ambito delle prerogative individuali, là dove non ci sia segno di costrizione.
La scelta del piano religioso per dare conto di conflittualità di altra natura viene certamente dall’Occidente, ma va detto che essa trova sostenitori e promotori innanzi tutto nei regimi islamici, non perché il potere sia in mano di musulmani, ma perché si tratta di regimi non democratici. Alimentare la confusione tra ciò che è religioso e ciò che non lo è risulta funzionale all’idea, per ora vincente, che la legittimazione delle situazioni esistenti nei Paesi musulmani si fondi sul ruolo di difensori dell’islam di cui sono investiti i governanti. Uno degli esempi più macroscopici di che cosa si intenda qui per confusione e indebita intersecazione di piani è la mancata firma, da parte degli Stati islamici, della Dichiarazione universale dei diritti umani, così come la loro opposizione, insieme alla Santa Sede, nelle conferenze delle Nazioni Unite sulla popolazione (Cairo 1994) e sulle donne (Pechino 1995). La motivazione è di ordine religioso. Si sostiene che nel dettato religioso dell’islam, i diritti umani universali, così come le modalità per tradurli nella pratica, sono già presenti e, oltre tutto, nella migliore formulazione possibile e che, di conseguenza, basta perseguire a fondo la via dell’islamizzazione all’interno delle singole realtà statuali. Il cerchio potrebbe anche non chiudersi se la massiccia e, per lo più, ottusa campagna anti-islamica che viene condotta, senza grandi differenze, in tutto l’Occidente e con un’intensità crescente dal 2001 in poi, non diventasse funzionale a dimostrare la verità dell’assunto: che l’islam è demonizzato, che i musulmani sono costretti a creare barriere per difendere la loro identità in pericolo e che, dunque, i governanti attuali, nonostante tutto, hanno ragione.
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*Le trascrizioni dal persiano e dall’arabo sono state eseguite a cura della redazione.