Islam in Italia
Musulmani fuori dal Dar-al-islam
La questione islamica in Italia
di Khaled Fouad Allam
6 giugno
Hanno vasta eco sulla stampa le parole di aperto sostegno alla guerra santa pronunciate dall'imam Mohamed Ibrahim Moussa durante la preghiera collettiva del venerdì nella Grande moschea di Roma. Nonostante i rappresentanti della comunità islamica tentino di smorzare la polemica, ricordando che la stragrande maggioranza degli islamici è rispettosa delle leggi del paese che li ospita e vuole vivere in pace, il ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu chiede maggiori chiarimenti e assicurazioni, ribadendo peraltro l'impegno delle istituzioni a favorire la nascita di un 'islam italiano'.
Lettura di un fenomeno complesso
La questione dell'islam in Italia può essere valutata secondo una prospettiva storica oppure sociopolitica. Negli ultimi anni, per varie ragioni, si è privilegiata una griglia di lettura sociopolitica per interpretare la presenza musulmana nelle singole realtà locali o nazionali, in conseguenza in primo luogo del fatto che essa, a causa dei crescenti flussi migratori, tende oggi a definire in Italia e in Europa un nuovo tessuto sociale. Ma anche un altro fattore - di maggiore complessità perché legato alle tensioni internazionali e alla problematicità del fenomeno - spinge a orientare a una lettura di questo tipo. L'attentato dell'11 settembre 2001 ha amplificato la visione allarmistica dell'immigrazione islamica legandola al fenomeno terroristico e provocando un rafforzamento delle politiche securitarie nella gestione dell'immigrazione.
Una lettura di tipo storico, al contrario, nel caso dell'islam in Italia, dovrebbe tener conto che in questo paese l'elemento musulmano si inscrive in una prospettiva di lunga durata, e ciò può risultare utile all'elaborazione di una strategia e di una koinè mediterranee. Tra il 9° e l'11° secolo avvenne la conquista islamica della Sicilia, mirabilmente descritta e analizzata da Michele Amari nella monumentale Storia dei musulmani di Sicilia (1854-72), ma si verificarono anche molte incursioni islamiche lungo l'Adriatico - a Bari fu creato un emirato che durò oltre venti anni (Gli arabi in Italia, 1979) - seguite da altri tentativi di conquista che segnarono la memoria storica d'Italia ma anche del mondo musulmano. Di tutto ciò è rimasta la testimonianza di un interessante patrimonio architettonico: si pensi per es. ad alcuni monumenti importanti come la Cuba o il Palazzo della Zisa a Palermo (Staacke 1991); sopravvivono però nella memoria storica anche episodi cruenti come l'eccidio dei cristiani di Otranto da parte delle truppe turco-ottomane. Queste due griglie di lettura in realtà si mescolano in modo contraddittorio: la lunga durata non di rado si intreccia con la breve, e gli odierni processi rimangono spesso congelati in una visione storicizzante dell'islam che ha l'effetto di velare d'inquietudine la percezione del presente: l'islam farebbe parte di un passato oscuro, che oggi sembra riemergere. Recentemente il fenomeno dell'islam in Italia si è avvalso di un nuovo approccio che privilegia l'aspetto dinamico della questione. In particolare negli ultimi quindici anni si è sviluppata una vasta letteratura, legata alle scienze sociali, basata sull'osservazione del fenomeno. Sono state elaborate nuove categorie sociologiche e dell'antropologia culturale, proprio per tener conto del fatto che l'islam in Italia è un fenomeno composito e complesso che non può essere ridotto a un'unica tipologia. Per es. Ottavia Schmidt di Friedberg (1994) è giunta a definire la presenza islamica senegalese mettendo in relazione il flusso migratorio dei senegalesi in Italia con la loro appartenenza a un determinato segmento del mondo musulmano, la confraternita di tipo pietista dei muridi, caratterizzata da una struttura sociale particolare che privilegia il legame fra coesione sociale e identità religiosa. Altri studiosi, come per es. i sociologi Stefano Allievi (1993) ed Enzo Pace (1998), hanno analizzato il fenomeno islamico in modo trasversale, ponendo la questione dell'acculturazione della popolazione musulmana, quando si trova insediata su un territorio che non fa più parte del tradizionale Dar-al-islam (territorio dell'islam). Oggi si è consapevoli che la presenza islamica, oltre a essere relativamente numerosa, si inscrive in un nuovo ciclo storico-temporale: essa deve essere ormai considerata definitiva. Il carattere di definitività comporta per i musulmani una notevole trasformazione e per il paese d'accoglienza un diverso modo di pensare l'articolazione fra religione e società. La questione giuridica e istituzionale rappresenta il nucleo del dibattito sulla gestione pubblica dell'islam in Italia, argomento indagato da anni dallo studioso del diritto Silvio Ferrari (1999). Le problematiche sono molteplici e impongono risposte plurali su tutta una serie di pratiche sociali e religiose che, se da un lato sono ancorate al passato, dall'altro richiedono una prospettiva di cambiamento. Certo, il tratto caratterizzante dell'attuale situazione in Italia, evidenziato da tutti gli osservatori, è che si è passati dalla condizione di paese di emigrazione a quella di paese di immigrazione. Il fenomeno ha trovato gli italiani impreparati, anche perché è mancato un dibattito nazionale sulla questione. Due fattori essenziali hanno contribuito a trasformare negli ultimi venti anni il paese. In primo luogo la sua situazione geopolitica: collocata al centro del Mediterraneo, l'Italia è attraversata da tre spinte migratorie. Una riguarda il Nord-Est, vale a dire le province di Trieste e Gorizia, in cui attraverso le regioni balcaniche arrivano molte popolazioni di origine musulmana, in particolare iraniane, irachene e curde, anche perché la Repubblica di Bosnia-Erzegovina non richiede il visto di entrata e quindi il confine goriziano è diventato negli ultimi anni uno dei corridoi di passaggio più importanti d'Europa. Una seconda direzione interessa l'Adriatico meridionale, in particolare il Golfo di Otranto, dove continuano a sbarcare popolazioni provenienti dalla Turchia, dall'Albania o dall'Iraq. La terza è quella che investe la Sicilia, che rappresenta una sorta di ponte fra le due rive del Mediterraneo; in questo caso l'immigrazione proviene soprattutto dal Maghreb e dall'Africa subsahariana. Complessivamente si può affermare che l'Italia, nell'attuale situazione geopolitica mondiale, è uno dei paesi europei più esposti ai flussi migratori, anche di tipo clandestino. Quest'ultimo tipo di immigrazione deriva, da una parte, dai nuovi squilibri mondiali che si sono venuti a creare dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e, dall'altra, dal processo di globalizzazione in atto. La prevalenza della matrice musulmana nell'immigrazione in Italia è dovuta essenzialmente al fatto che le vecchie frontiere Nord-Sud non sono affatto scomparse, ma esistono ancora e sono oggi definite quasi esclusivamente da comunità o paesi musulmani, la cui situazione tende sempre più a essere qualificata da crescita demografica e povertà endemica. Le proiezioni demografiche elaborate dai maggiori centri statistico-demografici attestano che entro il 2025 la popolazione dell'Unione Europea crescerà del 3%, mentre quella della riva meridionale del Mediterraneo aumenterà del 48%. Alcuni paesi come l'Algeria o l'Egitto hanno più che triplicato il numero degli abitanti in quarant'anni (l'Algeria è passata da 9,5 milioni nel 1962 a circa 30 milioni). Oggi quasi il 60% della popolazione nei paesi del Maghreb ha meno di vent'anni. I flussi migratori dunque diventano una risposta a queste patologie sociodemografiche. Nei paesi musulmani inoltre esistono vasti spazi di esclusione e di discriminazione, rispetto ai quali l'immigrazione rappresenta una delle possibili vie d'uscita.
Le situazioni di partenza sono dunque comuni ai vari paesi musulmani di provenienza. In futuro l'islam della diaspora subirà profonde trasformazioni rispetto alla sua configurazione nei paesi d'origine. Nel frattempo gli Stati d'accoglienza dovranno gestire il fenomeno attraverso adeguate politiche e tecniche giuridico-amministrative. Pochi osservatori hanno messo in luce la portata del mutamento in atto: assisteremo in futuro a un cambiamento di prospettiva dell'islam dell'immigrazione e dovranno quindi trasformarsi le modalità di gestione delle comunità musulmane, che chiederanno una maggiore visibilità per le loro forme di appartenenza e di strutturazione identitaria, vale a dire uno spazio pubblico.
L'odierna dimensione nazionale
Nell'ultimo decennio, mentre un'importante letteratura ha portato a una maggiore conoscenza dell'islam in Italia, sul piano istituzionale la gestione dell'islam è stata spesso delegata alle sole realtà locali. Il trattamento giuridico del culto islamico e le modalità di inserimento nel tessuto sociale italiano variano dunque a seconda delle diverse situazioni locali. La frammentazione della comunità musulmana è enfatizzata anche dalle rivalità fra le diverse associazioni. Il risultato è che attualmente non abbiamo un quadro generale della reale situazione e consistenza della presenza islamica sul territorio nazionale. E, come in altri paesi europei, gli imam o sedicenti tali sfuggono a qualsiasi tipo di controllo, sia a livello del sistema organizzativo dei luoghi di culto sia in relazione alla loro formazione; in alcuni casi questi imam non potrebbero essere considerati tali nei loro paesi d'origine. Le statistiche riportate da diversi organismi come la Caritas di Roma o la Fondazione Migrantes, incrociate con quelle degli uffici statistici di diverse regioni d'Italia, mostrano una sensibile crescita della matrice musulmana rispetto al totale dell'immigrazione. La crescita della componente islamica può essere spiegata tenendo conto essenzialmente di due fattori: il primo è rappresentato dal fatto che le regioni del mondo attraversate da crisi di diverso tipo corrispondono perlopiù a paesi musulmani; il secondo è costituito dalla considerazione che in Italia l'immigrazione proviene per la maggior parte dal Marocco e dall'Albania, paese musulmano il primo e a maggioranza musulmana il secondo, e il ricongiungimento familiare tende a far crescere la consistenza numerica di questi gruppi.
Si assiste dunque a una crescita sensibile e relativamente regolare dei musulmani in Italia, che porta a formulare una serie di considerazioni. La prima è che il contesto italiano tenderà sempre più, di fronte al decremento della popolazione italiana, a definirsi come multireligioso. La seconda è che la questione dell'islam interroga la società italiana a livello sia dell'opinione pubblica sia delle istituzioni. Emerge conseguentemente la necessità di un discorso pubblico sull'islam, vale a dire su una serie di questioni riguardanti la natura esatta del fenomeno, ma anche sulla compatibilità dell'islam con le forme moderne della democrazia.
Ciò che caratterizza la modernità dello Stato in Europa e in Occidente è essenzialmente il suo carattere neutrale nei confronti delle identità religiose, elemento legato - con modalità variabili a seconda delle tradizioni storiche di ciascun paese - alla separazione tra Stato e Chiesa, fra potere politico e religione: la secolarizzazione implica un confine fra dimensione pubblica della religione e sfera privata. Il fenomeno senza precedenti della presenza islamica in Europa richiede ora allo Stato un nuovo approccio alla gestione delle differenze religiose. D'altra parte, i musulmani presenti sul territorio debbono elaborare una serie di comportamenti inediti sul piano sociale, psicologico e religioso. Se l'immigrazione va letta come una traiettoria che porta l'immigrato a definirsi entro un nuovo spazio sociale e culturale, il cambiamento indotto dal processo migratorio sull'immigrato musulmano è di notevole portata. Nel paese d'origine il musulmano tende a definire la sua identità in modo 'passivo', perché l'identità si struttura sulla base di una convergenza fra Stato e religione. Lo Stato in quanto Dar-al-islam assume quel ruolo organizzativo e strutturante per la comunità che in Occidente è svolto dalla Chiesa, e ciò avviene attraverso una serie di simboli, di pratiche e di istituzioni: il calendario religioso è sancito dagli apparati dello Stato, l'organizzazione del culto è definita e controllata dal Ministero degli Affari religiosi
(eubus nei paesi del Maghreb, waqf nel Mashreq-Medio Oriente, dianet nella Repubblica turca). Nel 20° secolo lo Stato-nazione nel mondo arabo-islamico ha dunque implicato da un lato l'adesione alla comunità nazionale - per es. Marocco, Egitto o Siria - e dall'altro l'appartenenza a un'identità che trascende le diversità etnico-nazionali, vale a dire la umma (comunità dei credenti). Nella realtà dell'immigrazione tutte queste modalità di strutturazione dei musulmani scompaiono, semplicemente perché il paese d'accoglienza non si definisce in funzione del Dar-al-islam: esso ne è estraneo culturalmente, socialmente e istituzionalmente. I musulmani incontrano grande difficoltà nello strutturarsi in modo omogeneo, proprio perché l'immigrazione implica la scomparsa del perno su cui classicamente poggiavano. Si osserva quindi una notevole frammentazione delle comunità musulmane presenti in Italia, che si strutturano in base a criteri variabili nelle diverse realtà regionali a seconda delle diverse provenienze etniche e nazionali, ma soprattutto in funzione dell'influenza di alcuni Stati e di alcune reti musulmane internazionali, che forniscono i mezzi finanziari per la costruzione di spazi di culto, di scuole coraniche, per pubblicazioni varie, e si contendono il controllo dei fedeli. Sono riconoscibili però alcune linee di tendenza che spesso devono essere contestualizzate. In particolare si possono individuare quattro modalità di strutturazione: 1) strutturazione sul piano ideologico, in funzione di motivazioni politiche (per es. in movimenti o associazioni di tipo neofondamentalista o radicale); 2) strutturazione sul piano etnico-nazionale, in funzione della provenienza da un paese o da un gruppo di paesi (per es. somali, marocchini, tunisini ecc.); 3) strutturazione sul piano fideistico, in funzione dell'appartenenza a confraternite sufi, oppure dell'appartenenza allo sciismo; 4) strutturazione sul piano individuale, quando la fede è vissuta a livello privato (si tratta di coloro che vengono definiti 'musulmani sociologici').
Tali modalità sono il risultato di una serie di processi di ordine storico e culturale: storico perché derivano da una trasformazione nelle pratiche e nelle abitudini dei musulmani una volta stabiliti nello Stato d'accoglienza, spesso in dipendenza dal contesto globale in cui il fenomeno evolve; culturale perché l'adesione o meno a una certa struttura organizzativa corrisponde alla traiettoria personale del musulmano immigrato in Italia o in Europa.
La gestione pubblica dell'islam
La questione della sicurezza è ormai entrata nella gestione dell'islam in Europa. Il caso italiano non è diverso dagli altri casi europei: soprattutto dopo l'11 settembre è ovunque evidente una tendenza all'interventismo dello Stato. Tale intervento, però, non sempre è dettato dalla volontà di sorvegliare l'immigrazione musulmana anche a costo di interferire nel culto; esso può tradurre positivamente la volontà di colmare l'assenza di un'organizzazione rappresentativa dell'islam a livello nazionale. Questa tendenza ha comunque alcuni limiti: in primo luogo, vi è il rischio di avallare l'idea che l'islam e il culto musulmano richiedano una presenza forte e permanente dei poteri pubblici, e quindi anche di compromettere la nascita di un islam europeo realmente autonomo sul piano strutturale, finanziario, e ovviamente intellettuale (vale a dire di un islam in grado di evolversi al di fuori di ingerenze ideologiche, da parte sia degli Stati d'origine sia degli Stati d'accoglienza). In effetti, una delle poste in gioco dei prossimi quindici anni sarà l'affermazione di un islam indipendente dai paesi d'origine, capace di assumere pienamente il suo inserimento nello spazio europeo. L'intervento diretto dello Stato tende inoltre ad avallare l'idea che i musulmani siano incapaci di organizzarsi da soli, perché la soluzione ai loro problemi organizzativi deriverebbe sempre dai poteri pubblici. Infine, sul piano della filosofia della politica, questa logica potrebbe entrare in contraddizione con il principio della laicità dello Stato, che implica la sua neutralità in relazione ai diversi culti. D'altra parte, l'astensione dello Stato costituirebbe anch'essa una modalità paradossale del posizionarsi dei poteri pubblici in relazione al culto musulmano, evidenziando ancor più nettamente l'estrema frammentazione del paesaggio islamico italiano. Come avviene in altri paesi europei, il non intervento dello Stato può anche assumere la forma di una gestione differita, di un 'appalto' ad attori estranei al paesaggio islamico nazionale, in particolare agli Stati d'origine che aspirano a una tutela sui musulmani residenti in Italia. Possono manifestarsi quindi delle lotte nazionali per il controllo di queste comunità. L'aiuto finanziario e l'utilizzo di organizzazioni non governative, per il tramite di alcune associazioni, determinano un sistema complesso di reti, anche ufficiali, che possono sottendere progetti politici. Inoltre molte associazioni o federazioni musulmane non sono che il ramo locale o nazionale di una struttura transnazionale la cui sede centrale si trova all'estero, come per es. il Tabligh, un'associazione che si definisce pietista, la cui sede centrale si trova in Pakistan ma che è ramificata in tutta l'Unione Europea. È anche il caso, come vedremo, dell'UCOII (Unione delle comunità islamiche d'Italia). Queste organizzazioni sono spesso sostenute da Stati conservatori del Golfo. Ma il problema non è tanto quello del finanziamento esterno, quanto di un controllo ideologico indiretto: il fenomeno rischia di accentuare l'idea dell'islam come religione di trapiantati in preda a ingerenze esterne, anche se in molti paesi europei come la Gran Bretagna o la Francia - ma non è ancora il caso italiano - oltre la metà dei musulmani sono cittadini del paese d'accoglienza. Nell'odierna situazione geopolitica mondiale, e di fronte ai complessi rapporti con Stati musulmani rivali tra loro, le capacità di autonomizzazione dei musulmani in Italia e in Europa sono scarse; tuttavia a livello sociologico tutto fa pensare che nei prossimi decenni, in conseguenza della crescita demografica di queste popolazioni, una nuova religione minoritaria prenderà sempre più forma e consistenza. La posizione dello Stato rimane molto complessa e delicata a causa dell'attuale fase geopolitica mondiale. Anche in vista del prossimo allargamento dell'Unione a numerosi paesi dell'Est europeo (per es. la Bulgaria, per non parlare del possibile ingresso della Turchia), che comporterà una crescita della popolazione musulmana in Europa, si deve pensare a un nuovo ruolo dello Stato per la gestione di un fenomeno inedito - l'islam religione minoritaria in Europa -, ruolo che va configurato sostanzialmente in termini di protezione e tutela delle minoranze, sul piano nazionale e sul piano europeo.
Interrogarsi sulle difficoltà pratiche, passate e presenti, che pone l'organizzazione delle comunità musulmane in Italia, richiede l'osservazione dei diversi attori e soggetti del paesaggio islamico in Italia: le associazioni e le federazioni musulmane, le organizzazioni internazionali e le istituzioni religiose che operano su scala nazionale o locale, le organizzazioni che difendono interessi più settoriali, come per es. l'Associazione dei giovani musulmani. Ma è anche necessario valutare il ruolo e le strategie degli Stati d'origine che tendono a influire significativamente sull'andamento dell'islam in Italia, attraverso i loro residenti nel paese o attraverso organizzazioni non governative come la Lega islamica mondiale (Rabita). Inoltre, non si deve dimenticare che anche i pubblici poteri del nostro paese sono attori dell'evolversi dell'islam in Italia, attraverso le istituzioni locali e quelle nazionali. E lo Stato - la cui neutralità è un elemento costitutivo dell'identità statale in Italia così come negli altri paesi europei - deve poter assicurare la libertà religiosa mantenendo l'eguaglianza di trattamento fra i diversi culti. Si può allora affermare che, paradossalmente, la neutralità dello Stato porta a postulare una gestione pubblica del fenomeno religioso. Nel caso della gestione pubblica dell'islam si possono distinguere quattro tipi di approccio, a seconda che si privilegi l'aspetto giuridico, o quello sociologico, oppure le modalità di regolazione, o infine gli attori della gestione stessa. L'approccio giuridico consiste essenzialmente nel definire la gestione pubblica dell'islam in Italia a partire dalle intese, e dunque dalla separazione fra lo Stato e i culti. Privilegiando l'intesa, tale approccio dà quasi per scontata l'idea di una simmetria fra tutte le appartenenze religiose. Nel caso dell'islam, l'assenza di istituzioni rappresentative - vale a dire l'equivalente di una Chiesa - rende problematico e complesso questo tipo di approccio, perché sociologicamente l'islam è organizzato e strutturato sull'appartenenza territoriale che istituzionalizza la religione; è dunque il paese d'appartenenza, il Dar-al-islam, che funge da elemento di strutturazione dei musulmani. Di qui l'enorme difficoltà che i musulmani trovano, una volta emigrati, nel riconoscersi in un'unica comunità. E nella strategia dell'intesa, paradossalmente, il ruolo strutturante deve essere assunto dallo Stato. L'approccio socio-storico consiste nel valutare la posizione dello Stato rispetto al culto musulmano nella prospettiva storica: nel nostro caso da quando la questione islamica si pone in Italia. Questo tipo di analisi permette di evidenziare quali siano gli elementi di continuità oppure di rottura fra il passato e il presente, e può utilmente servirsi di un approccio comparatistico a livello europeo.
Il terzo approccio analizza i mezzi concreti - effettivi o no, efficaci o meno - che vengono utilizzati nella gestione del culto musulmano. Si tratta dunque di un modo, non più soltanto teorico, di valutarne le modalità di regolazione nella quotidianità. Questo approccio permette appunto di mettere in luce le diverse logiche all'opera nella costruzione della realtà musulmana in Italia da parte dei poteri pubblici, soprattutto delle istituzioni locali. Il quarto approccio privilegia infine l'analisi dei diversi attori della gestione pubblica dell'islam in Italia, sia dal lato dei fedeli sia da quello dei poteri pubblici, consentendo di confrontare la gestione a livello degli enti locali (Comune, Provincia, Regione) con quella a livello nazionale (Ministeri dell'Interno, del Welfare, degli Affari esteri ecc.).
I rapporti fra islam e Repubblica italiana
In Italia il discorso pubblico sull'islam è stato spesso amplificato dai mass media spettacolarizzando alcuni avvenimenti. Mentre in Francia è stata la questione dell'hijab o foulard islamico a sollecitare l'opinione pubblica scatenando dibattiti anche molto aspri, in Italia il tema al centro delle polemiche è stata la questione delle moschee, iniziata con la costruzione della moschea di Roma realizzata sotto l'egida dell'Arabia Saudita (principale sostenitore finanziario dell'iniziativa), fino alle più recenti questioni della moschea di Lodi e di quelle di Milano, Venezia e Napoli. La moschea sembra rappresentare una posta in gioco strategica, perché è espressione di una visibilità dell'islam e perché implica una parità nel trattamento giuridico e culturale dell'islam rispetto alle altre fedi, che hanno il loro tempio. Sia nel contesto italiano sia in quello europeo, la costruzione di una moschea porta inoltre allo scoperto una serie di tensioni interne alla comunità islamica, in quanto il luogo di culto è la sede in cui si confrontano varie sensibilità o anche in cui si afferma un gruppo o una tendenza particolare. Il discorso sulle moschee è dunque molto complesso, perché a monte vi è il problema di chi le gestisce, di chi è il personale di culto e dunque di chi rivendica il diritto di controllarle. Si tratta di un problema aperto, non risolto, ma fondamentale e determinante nella definizione e costruzione di uno spazio pubblico dell'islam in Italia e in Europa. La moschea può essere un nucleo di tensioni perché è il luogo intorno a cui gravitano diverse organizzazioni islamiche, e rappresenta lo strumento attraverso cui viene esercitato un controllo territoriale sui credenti. In questi ultimi anni, talune espressioni culturali e politiche si sono coagulate in un certo numero di associazioni musulmane, alcune su base etnica - per es. i musulmani somali, o la confraternita senegalese dei muridi - e altre sulla base di approcci che variano dal neofondamentalismo, passando attraverso emanazioni della Rabita, ai gruppi di musulmani convertiti. Ma nel panorama dell'islam italiano vanno considerate quelle associazioni che ufficialmente hanno chiesto un'intesa con lo Stato italiano, e che a tutt'oggi sono quattro: l'UCOII; il Centro islamico culturale d'Italia; l'AMI (Associazione musulmani italiani); il CoReIs (Comunità religiosa islamica). Queste sigle si diversificano sia per composizione sia per diffusione territoriale, e divergono nell'interpretare il ruolo dell'islam in Europa. I contrasti tra di esse traducono le importanti poste in gioco politiche legate a una forma di controllo dei musulmani in Italia, e mettono in luce i labili equilibri esistenti tra le loro componenti. Alcune di queste associazioni, come l'UCOII, non sono espressioni peculiari dell'islam in Italia poiché lo stesso modello, con altre sigle (per es. in Francia UOIF, Union des organisations islamiques de France), si ritrova in tutti i paesi europei: si tratta dei rami dell'Unione delle organizzazioni islamiche in Europa, che ha sede in Germania ed è considerata vicina al gruppo dei Fratelli Musulmani, un'organizzazione transnazionale fondata in Egitto nel 1929, all'origine dell'ideologia del fondamentalismo islamico. Essa sviluppa una concezione essenzialmente comunitarista dell'islam, veicolata dal ruolo dell'ortoprassia. L'UCOII, fondata nel 1990 come espressione dell'Unione degli studenti musulmani italiani e del Centro islamico di Milano, è l'associazione più estesa a livello nazionale. Il Centro islamico culturale d'Italia, l'associazione di più antica data nel nostro paese, è l'unica a essere stata riconosciuta dallo Stato (d.p.r. 21 dicembre 1974) quale ente morale di diritto privato; ha una rappresentanza diplomatica sia presso lo Stato italiano sia presso la Santa Sede. Si tratta di un centro transnazionale, ma con i limiti di un islam legato alla presenza straniera e al peso politico e diplomatico di alcuni paesi; la sua gestione è difficile, perché diversi paesi se ne contendono il controllo. L'attentato dell'11 settembre ha avuto un effetto paralizzante sulle dinamiche di dialogo già avviate con le autorità italiane e l'obiettivo del Centro islamico culturale d'Italia di federare le diverse sensibilità musulmane presenti sul territorio è rimasto disatteso. Inoltre l'UCOII, che è un'organizzazione capillarmente estesa sul territorio, negli ultimi anni tende a costruire un discorso di integrazione dell'islam in Italia e in Europa. Molti esperti, e anche alcuni fedeli, ritengono però che questa apertura rappresenti una mossa strategica finalizzata al controllo dei fedeli e a promuovere un proprio ruolo di interlocutore privilegiato dello Stato italiano. L'Associazione dei musulmani italiani, che rappresenta soprattutto gli italiani convertiti all'islam, è basata essenzialmente sul rapporto fra identità religiosa e cittadinanza. Per i membri dell'AMI la cittadinanza è un criterio di effettiva rappresentatività e garanzia di un islam compatibile con i fondamenti dello Stato italiano. Questa associazione considera dunque le altre strutture inadeguate a rappresentare l'islam in Italia, perché non prendono in considerazione il criterio della cittadinanza o perché si prestano all'accusa di neofondamentalismo o di essere legate ad alcuni Stati islamici. Il CoReIs è formato anch'esso da molti convertiti all'islam, ma la cui conversione è passata attraverso ciò che si potrebbe chiamare l''esoterismo islamico', rappresentato in particolare dal filosofo René Guénon, francese convertito all'islam deceduto in Egitto nel 1951. La matrice esoterica e mistica è alla base del pensiero di Guénon, che individua nelle religioni 'tradizionali' altrettanti sistemi chiusi; tra essi l'islam rappresenta quello che più degli altri avrebbe mantenuto salda la propria integrità. Sul piano politico, questo 'tradizionalismo' trova la sua espressione in un neoconservatorismo astratto; perciò le questioni sociali e dunque anche quelle legate all'immigrazione non sono fondanti in questo gruppo. In Italia, come nella gran parte degli altri paesi europei, rimane però sospesa la questione di chi rappresenti chi e che cosa, dal momento che non esiste una Chiesa nell'islam sunnita; dunque come tradurre strutturalmente tutto l'arco delle sensibilità attraversate dall'islam in Italia e in Europa? La rappresentatività è il punto di partenza nel rapporto fra comunità e Stato, ma di fatto le associazioni si contendono l'egemonia della rappresentatività dei fedeli. Le richieste contenute nelle tre bozze d'intesa giunte al presidente del Consiglio dei ministri rispecchiano l'architettura tipica delle richieste di tutti i musulmani in Europa, e possono essere riassunte come segue: attribuzione di terreni per la costruzione di moschee e luoghi di culto; concessione di aree nei cimiteri per i musulmani; riconoscimento del diritto a macellare la carne secondo il rito islamico (halal) con la garanzia che pasti halal possano essere distribuiti nelle mense scolastiche e sui luoghi di lavoro; possibilità per la donna musulmana di essere fotografata nei documenti con il fazzoletto che lascia visibile il volto e copre i capelli; adattamento degli orari di lavoro durante il mese sacro del Ramadàm; rispetto degli orari delle cinque preghiere giornaliere; rispetto delle festività islamiche; assistenza religiosa a opera di personale di culto nelle carceri e negli ospedali; nomina delle guide del culto; riconoscimento degli effetti civili del matrimonio islamico; insegnamento della religione islamica nelle scuole per gli alunni di fede musulmana; possibilità di aprire scuole private musulmane come avviene per i cattolici e gli ebrei.
Nel panorama delle richieste avanzate dalle associazioni musulmane, alcune rappresentano una rivendicazione che non ha riscontri nei paesi islamici, ma risulta dal contatto dell'islam con una cultura diversa da quella d'origine: per es. la richiesta di personale di culto per le carceri rappresenta una risposta sociale che i musulmani cercano di dare al grave disagio che si vive in quei contesti. Sulla questione del venerdì come giorno non lavorativo, non vi è assolutamente unanimità nei paesi islamici nel considerarlo tale: l'Algeria lo ha sancito solo nel 1978 come giorno festivo, mentre per es. in Marocco e in Siria è un giorno lavorativo. Altre richieste investono questioni estremamente delicate, in particolare quelle relative agli effetti civili del matrimonio islamico. Qui la conflittualità fra ordine pubblico e diritto musulmano è flagrante, anche perché il matrimonio nell'islam è un contratto e non un sacramento. Anche riguardo al matrimonio i sistemi giuridici dei paesi islamici divergono sensibilmente tra di loro.
Ma la questione più delicata è ancora quella legata al personale di culto: dove si forma e chi lo forma? Come spezzarne la dipendenza ideologica dagli istituti teologici all'estero in cui esso è attualmente formato? Questo delicato problema va affrontato sulla base della creazione ufficiale di una facoltà teologica islamica in Europa, oppure su un partenariato fra istanze italiane e istituti teologici nei paesi d'origine. In ogni caso, la frammentazione comunitaria di queste associazioni ne indebolisce molto la rappresentatività, e alcune richieste rendono difficile un'intesa nell'odierna situazione storica; come afferma Silvio Ferrari, essa andrebbe a scapito di uno sviluppo autonomo dell'islam in Italia. È sul versante del disegno di legge sulla libertà religiosa che va cercata una via d'uscita dall'impasse. Il modello olandese di libertà religiosa è interessante in proposito, perché permette di costruire uno spazio di compatibilità fra alcune esigenze dello Stato e il mantenimento della libertà religiosa: lo scopo è sostanzialmente quello di armonizzare l'intero apparato giuridico relativo all'esercizio dei culti diversi dal culto cattolico. Ne traspare una filosofia giuridica in cui è centrale l'idea di un ordine pubblico che non può essere minato da costruzioni a esso antitetiche. Un tale modello permetterebbe di filtrare le norme del diritto musulmano classico impedendo loro di divenire norme di diritto positivo, per es. nel caso del matrimonio poligamico. Inoltre essa accompagnerebbe una serie di trasformazioni già in atto nell'islam europeo, come la crescente individualizzazione della fede e l'attenuazione del riferimento giuridico in quanto espressione di identità. La questione dell'islam in Italia, come negli altri paesi europei, pone dunque il problema centrale dell'integrazione. Le politiche di integrazione vanno considerate lo strumento del cambiamento dell'islam europeo; esse dovrebbero inoltre permettere di interiorizzare la questione dell'islam in Europa, perché esso ormai fa parte del suo paesaggio: la sua cittadinanza nel continente va costruita passo passo.
Nell'attuale situazione il ruolo dello Stato dovrebbe essere quello di monitorare una nuova esperienza, ma non di definire e costruire subito i principi di un'intesa che renderebbe ancor più complessa una situazione difficile. Inoltre, una conoscenza obiettiva delle comunità musulmane a livello delle nostre istituzioni è di fondamentale importanza per avere un quadro generale della situazione e delinearne le tendenze. Oltre all'armonizzazione della gestione del culto musulmano in Europa, è cruciale il problema della formazione del personale di culto, che spesso è totalmente improvvisata, oppure è stata effettuata nei paesi d'origine (Egitto, Arabia Saudita, Pakistan ecc.) e ciò comporta una forma d'ingerenza nei confronti di paesi d'accoglienza. Nei prossimi anni si porrà il problema della creazione di un ciclo di formazione teologico-universitaria di questi imam, il che non implica obbligatoriamente la rottura con i paesi d'origine, anche perché tali cicli di preparazione potrebbero essere svolti pure in forma di partenariato, in alcuni ambiti, con questi paesi.
La questione islamica risente di un contesto internazionale che non le è favorevole. La matrice islamica di un settore del fenomeno terroristico (indagata anche in Italia con le importanti inchieste delle procure di Milano e Napoli) non deve però impedire di distinguere un islam politico che assume anche forme eversive e legate alla malavita, da un islam, largamente maggioritario, fatto e vissuto da una popolazione immigrata che cerca di integrarsi e che cambierà il volto della società italiana nei prossimi venti anni. Il ruolo della società civile e dello Stato sarà quello di trasformare questa esperienza inedita in valore aggiunto, in un mondo sempre più globalizzato.
Presenza storica dell'islam in Italia
La prima presenza stabile dell'islam in Italia risale al 9° secolo, quando iniziò la conquista araba della Sicilia. Da più di un secolo, tuttavia, le coste meridionali della penisola e soprattutto quelle siciliane e sarde erano oggetto delle incursioni delle navi dei saraceni (è questo il nome, forse ripreso da quello di una popolazione del Sinai sul golfo di Aqaba, attribuito agli arabi nel Medioevo cristiano, specialmente quelli stanziati nel Mediterraneo occidentale, in Spagna e Sicilia), che partivano da Tunisi, sede dell'emirato aghlabita, e avevano lo scopo principale di alimentare il commercio degli schiavi. Da Tunisi proveniva anche la spedizione di 10.000 fanti e 700 cavalieri che diede inizio nell'827 alla conquista della Sicilia, dopo che un ufficiale della flotta bizantina, il patrizio Eufemio, aveva invocato l'aiuto dell'emiro nel tentativo di rendere l'isola indipendente da Bisanzio. Dopo lo sbarco a Mazara del Vallo e la battaglia di Corleone, gli arabi posero sotto assedio Siracusa, che riuscirono a conquistare solo dopo cinquant'anni. Tra l'828 e l'878 furono prese Agrigento, Palermo (831), Enna e Cefalù. L'espansione fu completata nel 965 quando cadde Rametta, ultima città ancora in mano ai bizantini. In Sicilia gli arabi diedero vita a un emirato indipendente, pur se subordinato a quello di Tunisi. La capitale era Palermo, l'araba Balarm, "città dalle trecento moschee", come la definì Ibn Hawqal in una cronaca del 973. Fu quello un periodo di grande prosperità per l'isola, che divenne centro di vivaci scambi commerciali e di una fiorente attività agricola, grazie all'introduzione di nuove coltivazioni, fra cui gli agrumi, e di tecniche innovative (colture a terrazzo e sistemi di irrigazione). Verso la popolazione locale gli arabi si mostrarono tolleranti permettendo a chiese e monasteri di prosperare come mai prima. Del periodo della dominazione araba restano ampie tracce nella toponomastica della Sicilia: da Marsala (marsa Alà o Allah "porto di Dio", oppure marsa Alì "porto di Alì"), alle gole dell'Alcantara (al-qantara, "il ponte"), alle varie Caltanissetta, Caltabellotta, Caltagirone, Calatafimi, che riportano l'etimo arabo qal'a, "castello", fino a Canicattì (al-qattah), a Favara (da fawwara, "sorgente"), ad Alcamo (l'araba manzil al-qamah), a Sciacca (ash-Shaqqa). Evidenti testimonianze della civiltà araba si rintracciano anche nell'architettura (in particolare il Palazzo della Zisa di Palermo, pur costruito in epoca normanna, conserva una chiara impronta arabeggiante sia nell'esterno sia nel vasto salone al piano terreno, decorato con mosaici e una fontana al centro) e nella cucina. Durante lo stesso periodo gli arabi, oltre a tenere navi mercantili nei porti di Gaeta, Amalfi e Napoli, cercarono, approfittando talvolta dei tentativi di indipendenza da Bisanzio dei duchi dell'Italia meridionale, di impadronirsi di alcuni importanti porti peninsulari. Nell'838 saccheggiarono Brindisi, due anni dopo presero Taranto, nell'847 occuparono Bari, che rimase un emirato indipendente dall'847 all'875 (quando la città fu presa da franchi e longobardi). Nell'estate dell'846 una flotta araba pose sotto assedio Gaeta, mentre una seconda flotta sbarcò a Ostia e risalì il Tevere arrivando a saccheggiare la basilica di S. Pietro. Nel corso del 9° secolo Gerace e Reggio furono conquistate e perse più volte. Intorno all'880 fu fondata, alle foci del Garigliano, una colonia araba che divenne la base per numerose incursioni in Campania e nel Lazio. All'espansione araba in Italia meridionale e in Sicilia pose fine nell'11° secolo la conquista normanna di Roberto il Guiscardo, che prese Palermo nel 1072; l'ultima città a cadere fu nel 1091 Noto. Alla fine del 12° secolo iniziò il dominio svevo e dal 1222 al 1233 Federico II, che pure era un ammiratore della civiltà araba, punì con una feroce repressione Agrigento, Entella, Iato, Gallo e le altre località dove sussistevano residue roccaforti musulmane, recalcitranti all'autorità imperiale. I capi ribelli e i loro figli furono giustiziati istantaneamente oppure 'mazzerati', gettati in mare all'interno di sacchi. I sopravvissuti vennero deportati in Puglia, soprattutto a Lucera. L'islam tornò a farsi minaccioso verso l'Occidente, e verso l'Italia in particolare, dopo la caduta di Costantinopoli (1453). Dopo essersi assicurata, nel 1479, la neutralità di Venezia e approfittando del fatto che le armate aragonesi e quelle dello Stato Pontificio fin dal 1478 erano impegnate in un'aspra guerra contro Firenze, gli ottomani attaccarono Otranto, un lembo strategicamente significativo del Salento come testa di ponte per insidiare le potenze cristiane: il 28 luglio 1480 una flotta turca, composta di 150 imbarcazioni per una forza complessiva di circa 18.000 uomini (Otranto in quell'anno non contava più di 6000 abitanti) sbarcò nei pressi dei laghi Alimini. Nonostante l'eroica resistenza degli abitanti, l'11 agosto i turchi presero la città, compiendo le più efferate crudeltà contro gli otrantini ormai inermi che, avendo rifiutato di convertirsi all'islam, furono massacrati insieme al loro arcivescovo. Da Otranto i turchi compivano scorrerie per tutto il Salento, giungendo spesso fino al Gargano. Soltanto il 10 settembre 1481 gli aragonesi, grazie all'aiuto degli altri regnanti della penisola, tornarono in possesso della città, ormai ridotta a un cumulo di macerie e della quale non erano sopravvissuti che 300 cristiani. Nel 1571, a Lepanto i turchi furono sconfitti dalle galere veneziane e si allontanò il pericolo di una nuova espansione islamica in Occidente.
La comunità musulmana in Italia
A partire dagli anni Cinquanta del 20° secolo, si sono susseguiti consistenti flussi migratori diretti verso il Nord Europa a partire da paesi africani o asiatici, nei quali la religione musulmana è prevalente o comunque molto diffusa. La caratteristica fondamentale di queste ondate migratorie degli anni Cinquanta e Sessanta è stata quella di perpetuare perlopiù i legami instaurati durante il periodo coloniale: dall'Algeria, dal Marocco e in genere dall'Africa Occidentale i flussi si sono indirizzati prevalentemente verso la Francia; dal Pakistan e dall'India verso il Regno Unito, dalle Molucche e dal Suriname verso i Paesi Bassi. La forte immigrazione dalla Turchia in Germania, invece, non è stata la conseguenza di legami coloniali, ma di accordi bilaterali rispondenti a un reciproco interesse. Queste mete privilegiate spiegano bene il fatto che attualmente nei paesi europei che hanno conosciuto un'immigrazione più antica le popolazioni immigrate siano caratterizzate dalla netta preponderanza di una o di alcune nazionalità. In Italia, invece, la peculiarità dell'immigrazione musulmana è quella di provenire da numerosi paesi. Secondo i dati Caritas (Immigrazione. Dossier statistico 2001. XI Rapporto sull'immigrazione, Roma 2002), i principali di questi sono (in ordine decrescente di presenze): Marocco (158.094), Albania (144.120), Tunisia (46.494), Senegal (34.811), Egitto (26.166), Algeria (13.000); vari altri gruppi hanno minore consistenza. Questa molteplicità delle provenienze nazionali degli immigrati di religione musulmana fa del fenomeno islam in Italia una realtà estremamente sfaccettata: infatti, se la comune appartenenza religiosa ha, in generale, un innegabile potere aggregante, nel caso dell'islam in particolare essa è profondamente filtrata dalle diverse culture etniche e nazionali. Un secondo elemento di differenziazione è costituito dal diverso tipo di interpretazione di islam - più o meno tradizionale e integralista - che i vari gruppi, associazioni e individui mostrano di aver elaborato. Infine, le modalità stesse di adesione individuale alla religione musulmana sono in tutta Europa, e in Italia in particolare, estremamente diversificate. Infatti se, a fini statistici, vengono considerati musulmani tutti i residenti provenienti o originari da paesi a maggioranza religiosa musulmana, anche nel caso dell'islam l'adesione religiosa può andare da un senso di appartenenza puramente culturale, diffuso fra i tunisini e gli algerini, a una quasi totale secolarizzazione come nel caso degli albanesi (probabilmente in seguito a cinquanta anni di regime marxista, particolarmente repressivo nei confronti della pratica religiosa), a forme di pratica individuale senza collegamenti stabili con organismi istituzionalizzati (i senegalesi, per es., non frequentano generalmente le moschee né si riconoscono in altre forme di islam organizzato, pur vivendo in modo profondo la loro religione all'interno di ristrette confraternite), alla pratica assidua ma limitata alla stretta dimensione religiosa, fino all'impegno attivo nell'associazionismo religioso comunitario e alla militanza politico-religiosa.
Secondo i dati presentati a Roma nel convegno L'islam in Italia del febbraio 2003, i musulmani in Italia sono circa 700.000: per numero di fedeli essi rappresentano quindi la seconda comunità religiosa del paese. Solo 40-50.000 (tra cui circa 10.000 cristiani convertiti) hanno la cittadinanza italiana, mentre la maggioranza è costituita da immigrati giunti nel corso degli ultimi venti anni e privi di cittadinanza. Tra questi ultimi, 610-615.000 sono in Italia con regolare permesso di soggiorno; gli altri si trovano invece in condizioni di clandestinità. Le persone di religione musulmana che hanno la cittadinanza italiana godono, ovviamente, degli stessi diritti e sono soggette agli stessi doveri di tutti gli altri cittadini italiani. Lo status giuridico degli immigrati privi di cittadinanza, invece, è disciplinato dal d.legisl. 25 luglio 1998, nr. 286 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione giuridica dello straniero), la cosiddetta legge 'Turco-Napolitano', parzialmente modificato dalla legge 189/2002 (la 'Bossi-Fini'),
Nel periodo 1995-2000 i musulmani hanno avuto il più alto tasso di crescita fra la popolazione immigrata e sono arrivati a coprirne il 36,8% (dal 30,4% del 1995), mentre la percentuale degli immigrati di religione cristiana è scesa dal 56,4% al 48,2%. Concentrati principalmente nel Lazio, nella Lombardia, nella Campania, in Sicilia, in Veneto, nell'Emilia-Romagna, costituiscono l'1,2% della popolazione italiana.
L'Italia ha ratificato i principali strumenti normativi internazionali adottati per combattere la discriminazione e proteggere i diritti delle minoranze. In particolare, nel febbraio 2002 il Parlamento ha approvato un disegno di legge che recepisce la direttiva comunitaria 2000/43/CE del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone, indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica. Ciononostante è evidente la quantità di problemi che i musulmani devono affrontare nella loro vita sociale, economica e politica in Italia. Molti di questi sono comuni a tutti i gruppi di immigrati, ma vi sono anche tematiche specifiche che interessano la sola comunità islamica. In particolare, l'atteggiamento di una parte consistente dell'opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione mostra che i membri di tale comunità sono fra quelli con più basso tasso di integrazione nella società italiana; inoltre, il fatto stesso che le diverse organizzazioni islamiche non abbiano ancora raggiunto, in quanto minoranza, un'intesa specifica con lo Stato (come invece è avvenuto per altri gruppi, numericamente meno forti) segnala l'esistenza di un problema di rappresentanza universalmente riconosciuta all'interno della multiforme comunità islamica.
Istruzione
L'articolo 34, comma 1, della Costituzione italiana stabilisce che "la scuola è aperta a tutti", affermando il principio del pieno e paritario accesso al sistema di istruzione nazionale, senza distinzione di cittadinanza, nazionalità o confessione religiosa. Non vi sono dunque ostacoli di tipo legislativo o politico alla libera fruizione del diritto allo studio da parte dei minori stranieri, a prescindere dalla loro condizione giuridica di regolari o irregolari. Anzi, essi sono sottoposti ai medesimi obblighi scolastici dei minori italiani e possono richiedere l'inserimento scolastico in ogni momento dell'anno. Nonostante queste premesse, frequenza e rendimento dei minori immigrati in generale, e quindi, presumibilmente, di quelli musulmani in particolare, sono inferiori alla media, mentre la percentuale di abbandoni è più alta. Non esistono statistiche su base nazionale relative alla frequenza scolastica dei minori musulmani, ma alcuni ulteriori elementi di riflessione possono essere tratti da uno studio condotto nel triennio 1997-99 nella provincia di Torino (CIDISS-Centro informazione documentazione inserimento scolastico stranieri, Allievi stranieri a scuola con noi: rapporto sulle presenze e sulle caratteristiche degli allievi stranieri nelle scuole materne, elementari, medie e superiori di Torino e Provincia nel triennio 1997-1998-1999, Secondo rapporto 1999, Torino 1999) e da due ricerche 'sul campo' portate a termine negli istituti scolastici di Torino e Genova (Una scuola in comune: esperienze scolastiche in contesti multietnici italiani, a cura di V.G. Giovannini, L.Q. Palmas, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 2002; V.L. Fischer, M.G. Fischer, Scuola e società multietnica: modelli teorici di integrazione e studenti immigrati a Torino e Genova, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 2002). Dalle interviste risulta che a incidere negativamente sui risultati scolastici degli studenti musulmani (e più in generale di tutti gli studenti immigrati) sono problemi legati alla conoscenza della lingua, alla povertà e a un contesto scolastico non sufficientemente interculturale. Le barriere culturali e linguistiche influenzano profondamente i livelli di rendimento scolastico e il divario aumenta proporzionalmente alla distanza fra la cultura d'origine e quella italiana. Altri fattori che possono contribuire al raggiungimento di risultati scolastici meno brillanti sono le difficoltà d'inserimento degli studenti in classi corrispondenti alla loro età e al loro livello di istruzione e la mobilità delle famiglie immigrate. Inoltre, vi è un distacco notevole tra i risultati scolastici di studenti stranieri appartenenti a famiglie poco integrate socialmente e a basso reddito (molte delle quali provenienti dal Nord Africa e dall'Asia) e quelli di studenti italiani dello stesso livello sociale. D'altra parte, studenti immigrati con famiglie socialmente ben integrate e con redditi superiori (originarie soprattutto dell'Europa occidentale e orientale) ottengono risultati simili a quelli dei loro compagni italiani della stessa fascia sociale e reddituale.
Tra i diversi provvedimenti adottati dalle autorità italiane per agevolare l'accesso paritario all'istruzione e combattere il massiccio fenomeno dell'evasione dell'obbligo da parte degli studenti immigrati va ricordata l'introduzione della figura del 'mediatore culturale e linguistico', normalmente un adulto della stessa nazionalità degli studenti stranieri, che ha il compito di facilitarne l'inserimento e di migliorare le relazioni fra la scuola e la famiglia, intervenendo sin dal momento dell'iscrizione, in occasione della quale le barriere linguistiche impediscono spesso la reciproca comprensione. Un ruolo speciale per assistenti qualificati, per i quali si organizzano anche corsi di aggiornamento, è tenuto dal Provveditorato agli Studi in ogni provincia.
Occupazione
Riconoscendo che i lavoratori immigrati sono una risorsa fondamentale per l'economia nazionale, l'Italia ha predisposto strumenti normativi per disciplinare l'immigrazione e i flussi di accesso in base alle concrete esigenze del mercato del lavoro. Il Testo Unico 286/98 stabilisce che l'ingresso nel territorio dello Stato per motivi di lavoro subordinato, anche stagionale e di lavoro autonomo, debba avvenire nell'ambito delle quote di ingresso indicate da appositi decreti del presidente del Consiglio dei ministri. Questi definisce annualmente le quote massime di stranieri da ammettere, tenendo conto delle indicazioni fornite, in modo articolato per qualifiche o mansioni, dal Ministero del Welfare sull'andamento dell'occupazione e dei tassi di disoccupazione a livello nazionale e regionale, nonché sul numero dei cittadini stranieri non appartenenti all'Unione Europea iscritti nelle liste di collocamento.
Il Secondo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, pubblicato dalla Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati (a cura di G. Zincone, Bologna 2001), indica alcuni elementi che caratterizzano, nel suo complesso, la sempre più elevata presenza in Italia di lavoratori immigrati da paesi non appartenenti all'Unione Europea. In primo luogo, la crescita dell'occupazione regolare fra gli immigrati (fenomeno comunque disomogeneo nelle diverse regioni) è dovuta soprattutto alle frequenti regolarizzazioni (le 'sanatorie'), più che agli ingressi regolari per motivi di lavoro, che sono stati relativamente pochi e in gran parte con contratti stagionali. In secondo luogo, gli immigrati che lavorano in modo irregolare sono sempre più frequentemente in possesso di un permesso di soggiorno che consentirebbe loro di occuparsi in modo legale: in questo senso la natura dell'occupazione 'in nero' degli immigrati è divenuta sempre più simile a quella degli italiani. In terzo luogo, per quanto riguarda l'occupazione regolare, essa rimane fortemente dequalificata e sempre più precaria; le donne, in particolare, continuano a essere utilizzate quasi esclusivamente nel lavoro domestico. Inoltre, non essendo le regioni in cui è più forte la domanda di lavoro regolare per gli immigrati economicamente omogenee, si delineano sempre più nettamente dei modelli territoriali di inserimento nei settori economici: industriali nel Nord-Est e nelle regioni centrali, terziari nelle regioni, come la Lombardia e il Lazio, in cui prevalgono le grandi metropoli. Infine, la maggior parte degli immigrati viene assunta con mansioni poco qualificate, che generalmente gli italiani - anche i disoccupati - rifiutano. Mancano dati per stabilire se l'adesione a una religione o le origini etniche costituiscano un fattore discriminante per l'accesso al lavoro, in particolare per attività poco qualificate, per le quali, come già detto, gli immigrati sono generalmente assunti. Infatti, nonostante vi sia richiesta anche di figure professionali più qualificate, le complesse procedure burocratiche che disciplinano l'ingresso degli immigrati e la difficoltà di ottenere il riconoscimento in Italia della qualifica ottenuta nel proprio paese rendono estremamente difficile agli immigrati anche altamente qualificati trovare un lavoro adeguato.
Per quanto riguarda la possibilità di assolvere agli obblighi imposti dalla religione islamica durante l'orario lavorativo, in alcune regioni i lavoratori musulmani hanno negoziato con i datori di lavoro accordi che consentono loro di osservare riti e festività islamici. Per es., nelle regioni industrializzate del Nord-Est sono state stipulate, anche con la mediazione sindacale, intese in base alle quali gli imprenditori mettono a disposizione dei propri dipendenti musulmani spazi destinati alla preghiera e ad altre attività religiose, ai quali accedere durante le pause. Inoltre, non sono generalmente posti divieti alle donne musulmane che vogliano indossare i tradizionali chador e hijab sul luogo di lavoro.
Abitazione e altri beni e servizi
Il Testo Unico 286/98 garantisce a cittadini e stranieri residenti legalmente la totale parità di trattamento nell'accesso alla casa e agli altri servizi pubblici (in particolare scuole e ospedali). Le condizioni di vita dei musulmani residenti in Italia non si prestano a facili generalizzazioni, ma la maggioranza degli immigrati, compresi i musulmani, appartengono a classi economicamente svantaggiate e vivono in condizioni di concreta o potenziale povertà. La segregazione non sembra essere un problema presente in Italia: a parte pochissime eccezioni, la società italiana sembra avviata alla convivenza tra cittadini e stranieri immigrati, inclusi quelli di religione musulmana. I servizi pubblici a disposizione degli immigrati sono generalmente di pari qualità rispetto a quelli erogati ai cittadini, in particolare quelli relativi all'istruzione e alla sanità. Per quanto riguarda le abitazioni, invece, gli stranieri risiedono spesso in case di qualità inferiore e sono guardati con diffidenza e sospetto dai cittadini italiani del quartiere. A Milano, per es., mentre i prezzi delle case aumentano in tutta la città, compresi i quartieri più popolari, nell'area in cui sorge l'Istituto culturale islamico la tendenza è contraria. Ciò indica la diffidenza a investire in zone largamente popolate da immigrati musulmani. Inoltre, i problemi relativi all'abitazione sono connessi a quelli lavorativi: in molti casi, il lavoro in nero implica anche salari molto bassi, insufficienti a pagare affitti che sono invece mediamente molto alti. Ne consegue che gli immigrati, anche musulmani, sono spesso costretti ad accettare condizioni di vita estremamente disagiate, come la coabitazione di gruppi anche numerosi in monolocali. Sebbene la legge non consenta discriminazioni su base religiosa, razziale o etnica nell'assegnazione degli alloggi popolari di proprietà pubblica, e nonostante che il numero di alloggi popolari messi a disposizione di cittadini extracomunitari sia costantemente aumentato dal 1995 al 2000, esso rimane comunque di gran lunga inferiore a quello delle case popolari concesse a cittadini italiani. Ciò accade spesso anche a causa delle difficoltà oggettive di ottenere con la necessaria tempestività dal paese d'origine i documenti da allegare alla richiesta. Infine, le abitazioni private locate agli stranieri extracomunitari sono in molti casi di qualità inferiore rispetto a quelle affittate ai cittadini italiani.
Assistenza sanitaria e sociale
Il Testo Unico 286/98 (nonché la legislazione complementare regionale) garantisce agli immigrati regolari la stessa copertura sanitaria pubblica dei cittadini italiani, previa l'iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale. Gli immigrati presenti irregolarmente in Italia godono della protezione sanitaria fondamentale. I minori immigrati hanno diritto all'assistenza medica a prescindere dalla condizione giuridica dei genitori. I dati sui ricoveri ospedalieri degli immigrati mostrano il cosiddetto 'effetto migrante sano': coloro che scelgono la via dell'emigrazione sono, in genere, anche quelli che all'interno della propria comunità godono delle migliori condizioni di salute. I medesimi dati, tuttavia, mettono in evidenza anche la 'fragilità sociale' degli immigrati, spesso ricoverati per aborto volontario o per infortuni sul lavoro (essi svolgono in maggioranza lavori potenzialmente pericolosi e senza sufficienti protezioni).
Accesso al sistema giudiziario
I musulmani cittadini e residenti legalmente in Italia godono di un accesso totalmente paritario al sistema giudiziario. Il Testo Unico 286/98 ha facilitato tale accesso agli stranieri, prevedendo una procedura semplificata in base alla quale i casi di presunta discriminazione possono essere denunciati personalmente, senza il ricorso a un avvocato, e i requisiti per la rappresentanza legale possono essere tralasciati. Non vi sono dati che dimostrino un atteggiamento ostile o discriminatorio della magistratura nei confronti dei musulmani. D'altra parte, i dati del Dipartimento di amministrazione penitenziaria indicano che la comunità immigrata è sovrarappresentata all'interno delle carceri: tra i 55.383 detenuti al 31 maggio 2001, 16.330 erano stranieri: questi, dunque, che costituiscono circa il 3% della popolazione totale, coprono il 29,5% di quella carceraria. Anche se non sono disponibili dati sull'appartenenza religiosa dei detenuti, sei dei dieci gruppi nazionali più rappresentati nel sistema penitenziario italiano provengono da paesi tradizionalmente musulmani. Gli immigrati sono generalmente sottoposti a carcerazione preventiva in base all'elevato rischio di fuga, alla difficoltà di identificazione e ai problemi connessi all'assenza di una residenza stabile. In effetti, la stragrande maggioranza degli immigrati non sottoposti a custodia cautelare in carcere prima o durante il processo non si presenta in udienza e viene giudicata in contumacia.
Protezione contro violenze motivate dalla razza o dalla religione
L'ordinamento giuridico italiano reprime penalmente ogni violenza o incitazione alla violenza fondate su motivi religiosi, razziali e di origine etnica o nazionale, nonché la costituzione e l'esercizio di associazioni finalizzate a incitare la discriminazione razziale. Si deve sottolineare, tuttavia, come sia molto raramente possibile raggiungere, in sede penale, la prova certa che l'appartenenza religiosa della vittima costituisca la motivazione reale della violenza. Di fatto, dunque, in molti casi questi reati non sono puniti anche quando vengono denunciati.
Riferimenti Bibliografici
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