Islam oggi
La rinascita religiosa che ha caratterizzato la fine del 20° sec. e l’avvio del 21° ha coinvolto in misura e con modalità diverse tutte le culture del pianeta. Sia le religioni istituzionali sia le nuove forme di religiosità hanno recuperato posizioni di spicco nella vita sociale e politica contemporanea, proprio quando si pensava che la modernità, il laicismo e la secolarizzazione fossero ormai sul punto di completare un irreversibile processo di privatizzazione della sfera spirituale degli individui e delle collettività. Nel quadro di questo fenomeno di rinascita religiosa, un ruolo di rilievo deve essere attribuito ai cosiddetti fondamentalismi, termine generico con il quale si vogliono indicare tutti quei movimenti e quelle tendenze ideologiche che, in nome di una presunta purezza originaria, tendono a riproporre l’essenza di un messaggio religioso come elemento fondante della vita sociale e civile.
Benché il termine fondamentalismo tragga origine dall’ambito di alcuni ambienti del protestantesimo cristiano, oggi esso viene il più delle volte associato alla religione dell’islam, che appare agli occhi delle opinioni pubbliche occidentali come la cultura per eccellenza antitetica a ogni processo di secolarizzazione. La religione islamica viene quindi percepita come particolarmente problematica, proprio perché essa sembra opporsi, talvolta anche in modo violento, alla diffusione della civiltà occidentale su scala planetaria. Questa percezione è solo parzialmente corretta: da una parte, infatti, l’islam non è l’unica civiltà a presentarci i segni di un più o meno diffuso fondamentalismo; dall’altra, all’interno delle stesse società musulmane il fondamentalismo è lungi dal rappresentare attualmente l’atteggiamento più diffuso e condiviso.
Per valutare appieno il ruolo dell’islam nel mondo di oggi, è dunque necessario analizzare in dettaglio quelli che appaiono come i punti più critici del rapporto fra questa religione e la contemporaneità.
Tutte le religioni esercitano una certa influenza sul versante politico, ma l’islam sembra rappresentare un caso particolarmente evidente di questo intreccio. Si è spesso ripetuto – e si continua tutt’oggi a ripetere – che la visione musulmana non opera alcuna distinzione fra aspetti religiosi e aspetti civili della vita, unificando in un unico assieme questi due versanti dell’esperienza sociale. Ciò è vero qualora si consideri la distinzione tipicamente occidentale tra sfera sacra e sfera profana, poiché nell’islam nessun atto, neppure quello apparentemente più materiale, può dirsi realmente profano. Tuttavia, benché siano considerati in via di principio come entrambi soggetti a un’unica forma di legislazione, gli ambiti religioso e civile hanno conosciuto nella storia della civiltà musulmana una sostanziale separazione. Immediatamente dopo la sua epoca formativa, quella del profeta Maometto e dei suoi primi successori, l’islam si dovette dotare di istituzioni politiche che non avevano riscontro nell’insegnamento del Corano o nella prassi delle prime generazioni e che furono frutto di adattamenti alle svariate esigenze che si andavano man mano presentando. L’istituzione del califfato, gli ordinamenti amministrativi, i sistemi fiscali e gli assetti sociali andarono così ben presto ad assumere una fisionomia nettamente distinta rispetto al mondo della religione nel senso più ristretto del termine, creando una divaricazione che, nei fatti se non nel diritto, avrebbe segnato tutta la storia islamica successiva. Il potere temporale e l’autorità spirituale seguirono così due percorsi sostanzialmente paralleli, ma, in assenza di una chiara demarcazione dei rispettivi confini, tentarono ripetutamente di prevalere l’uno sull’altro, o almeno di trovare un equilibrio di compromesso da cui potessero trarre vantaggio a seconda delle situazioni.
Con l’avvento dell’era moderna, e ancor di più con l’ingresso nell’epoca contemporanea, nei Paesi islamici è divenuto sempre più evidente il primato della politica sulla religione. Ciò è stato causato da varie ragioni, non ultima delle quali l’influenza crescente che le potenze occidentali hanno esercitato sullo sviluppo di molte realtà del mondo musulmano. Gli ordinamenti d’importazione occidentale si sono fatti strada nelle istituzioni degli Stati islamici dapprima perché alcuni di essi vi si adeguarono volontariamente al fine di resistere all’invadenza coloniale europea, e in seguito perché vennero imposti dalle stesse potenze coloniali in quelle aree che erano state assoggettate al loro dominio. A partire dai primi decenni del 20° sec., la nascita degli Stati nazionali segnò il definitivo tramonto dei vecchi assetti del mondo islamico, che abbandonò il suo ordine tradizionale per assumere una fisionomia politica sempre più ispirata ai modelli dell’Occidente. In breve tempo, i Paesi musulmani assunsero la forma di Stati moderni, dotandosi di istituzioni politiche, giuridiche e amministrative ricalcate sulla falsariga della potenza coloniale di riferimento.
Questo processo non ha portato tuttavia a una reale trasformazione dei Paesi islamici in entità politicamente moderne. La secolarizzazione che ha accompagnato il formarsi delle nuove nazioni si è infatti innestata in un tessuto sociale segnato il più delle volte da logiche di clan e tribali, finendo paradossalmente per favorire la persistenza di queste strutture e la loro resistenza ai mutamenti. Tutte le classi dirigenti dei Paesi islamici del 20° sec. sono state costituite da individui di formazione tipicamente occidentale e secolarizzata, che erano estranei alle gerarchie religiose tradizionali e che, per consolidare il proprio potere, hanno dato vita – nonostante i propositi di modernizzazione e di sviluppo – a complesse reti di sistemi autoritari e clientelari. L’islam in quanto religione e cultura, dunque, non ha nulla a che vedere con la profonda crisi politica e sociale delle nazioni islamiche contemporanee, proprio perché queste nazioni sono nate e si sono sviluppate su presupposti marcatamente secolari e spesso in aperto contrasto con i valori etici della religione tradizionale.
Ciò nonostante, storici, politologi e giornalisti occidentali continuano ancora oggi ad attribuire all’islam l’arretratezza delle società musulmane, che proprio a causa di motivazioni a sfondo religioso non avrebbero avuto la volontà o non sarebbero state capaci di attuare i processi di secolarizzazione e di laicizzazione necessari per uno sviluppo moderno dei loro Paesi. In questo modo, presso il pubblico occidentale si è largamente diffusa la convinzione che sia l’islam in quanto tale a essere costituzionalmente incapace di approdare a una qualsiasi forma di modernità politica, poiché il suo sistema di valori religiosi sconfinerebbe di continuo nel campo politico e sociale, esercitando un’azione paralizzante su ogni tentativo di modernizzazione e di democratizzazione della vita civile. Numerosi autori musulmani hanno cercato negli ultimi decenni di ribattere a queste critiche, sottolineando la distinzione fra l’islam in quanto assieme religioso, che non avrebbe in sé nulla di contrario allo sviluppo moderno delle società, e i regimi che di volta in volta hanno governato i Paesi islamici, spesso inclini a utilizzare la religione in maniera strumentale, tradendone i principi essenziali. Ma questa messa a punto non è stata in genere sufficiente a modificare il giudizio severo che gli occidentali danno del rapporto fra islam e politica, sia perché le argomentazioni utilizzate da quegli autori non sono state il più delle volte del tutto convincenti, sia perché nello stesso mondo musulmano le loro tesi non hanno ricevuto un’accoglienza universalmente favorevole.
Anche fra le opinioni pubbliche dei Paesi islamici, infatti, si è andata affermando l’idea – storicamente ingiustificata – che l’islam debba essere al tempo stesso religione e politica, ovviamente pensando, a differenza dei critici occidentali, che tale legame rappresenti un valore positivo e possa essere l’unico rimedio ai malesseri della modernità. Una più incisiva presenza della religione nella vita politica è stata vista come una sorta di marchio identitario dell’islam, grazie al quale i popoli musulmani possono scrollarsi di dosso il giogo di vecchi e nuovi colonialismi e sfuggire ai condizionamenti dell’Occidente. Naturalmente, questo indissolubile legame fra la dimensione religiosa e quella politica è una costruzione del tutto recente ed estranea alle dottrine islamiche tradizionali, soprattutto se per ‘politica’ intendiamo il funzionamento di uno Stato nazionale moderno. Eppure, lo slogan caro al pensiero radicale islamico del tardo Novecento, secondo il quale l’islam è un’entità in cui vivono inestricabilmente abbracciati la religione e lo Stato (dīn wa dawla), è stato sempre più accettato come un dato di fatto dai teorici del pensiero islamico fondamentalista, che hanno influenzato in maniera crescente vaste fasce delle opinioni pubbliche musulmane, nonché rafforzato le pregiudiziali convinzioni dell’Occidente.
In realtà l’accostamento dei due termini religione e Stato tradisce nella sua stessa forma una natura profondamente estranea al pensiero musulmano classico, perché il fatto di abbinare quelle due parole significa assumerle in una accezione tipicamente occidentale e moderna. Nel pensiero premoderno dell’islam non c’è posto per ciò che viene inteso con parole come religione o Stato, tanto che nessun musulmano fino agli ultimi decenni si era mai sognato di concepire un simile binomio. Se infatti esiste uno Stato come entità distinta dalla religione, ciò significa ribadire ancora una volta il primato della politica e dunque affermare una forma di secolarizzazione. La contraddizione di gran parte dei movimenti dell’islam radicale contemporaneo risiede tutta in questo equivoco di fondo: essi si propongono di realizzare uno ‘Stato islamico’, ma in questo modo, contrariamente al loro intento dichiarato, non fanno che ribadire il primato della politica sulla religione.
I Paesi islamici possiedono istituzioni e strutture politiche diverse fra loro, ma in tutti i casi, anche laddove l’islam venga nominalmente posto al centro dello Stato, è la politica a esercitare un controllo totale degli affari religiosi. Attraverso ministeri, dipartimenti o altri organismi di varia natura, la politica tende a sorvegliare tutti gli aspetti della religione: le moschee, la formazione degli imām, le fondazioni pie, l’istruzione religiosa, le confraternite, le organizzazioni caritatevoli. Sebbene talvolta si possano produrre forme incontrollate e spontanee di azione religiosa, i governi hanno in genere la tendenza a imbrigliare immediatamente questi fenomeni e a ricondurli sotto la loro capillare vigilanza. Ma anche le opposizioni islamiche più o meno militanti non sfuggono a questa logica. La sfera strettamente religiosa, verso la quale le ideologie dell’islam politico provano del resto scarso interesse, rappresenta ai loro occhi un fenomeno da tenere sotto controllo, in quanto potenzialmente pericoloso per gli assetti del vagheggiato Stato islamico.
Per quanto paradossale ciò possa apparire, la tendenza del cosiddetto fondamentalismo religioso è proprio quella di allontanarsi in misura crescente dalla religione in senso tradizionale. È questo il motivo per cui oggi gli studiosi propendono sempre più spesso per la differenziazione dei termini islam e islamismo: con il primo si intende la religione nella sua accezione tradizionale, mentre con il secondo si vuole alludere a quell’insieme di teorie politiche e di apparati ideologici che, seppur espressi sotto forma musulmana, non sono in realtà che un adattamento in ambiente islamico di elementi d’origine occidentale. Teorici e movimenti dell’islamismo politico (moderati o rivoluzionari che siano), nonostante i continui richiami strumentali all’islam e alle sue istituzioni, hanno ormai fatto propri tutti i parametri concettuali importati dall’Occidente, dallo Stato-Nazione ai metodi dell’azione politica, dall’uso dei mezzi di comunicazione alle ideologie sociali e rivoluzionarie. In altre parole, come negli ultimi anni è stato dimostrato da un’ampia serie di studi, tutti coloro che aspirano a divenire la nuova classe dirigente dei Paesi islamici rappresentano una tipologia politica sinora inedita, che utilizza richiami religiosi nella propaganda e nel linguaggio comunicativo, ma che in realtà è il prodotto di un processo di secolarizzazione ormai giunto alla sua ultima fase. Gli ideologi contemporanei dell’islamismo radicale, che infarciscono i loro discorsi di citazioni coraniche o di appelli al ǧihād, non possiedono infatti una vera cultura religiosa, ma hanno alle loro spalle una formazione tipicamente occidentale, spesso di spiccata impronta scientifica e tecnologica: lontani da ogni comunità religiosa, rispetto alla quale vivono ai margini, e distanti dalla lettura islamica tradizionale, che ignorano o che esplicitamente rifiutano, costoro si fanno portatori di una reislamizzazione individuale del tutto artificiosa, avulsa dalla storia e fittizia nella sua identità. Ma è proprio la natura artefatta di questa costruzione che rende la miscela fra un islam reinventato e l’ideologia politica uno strumento ad altissimo potenziale esplosivo.
Il binomio islam/Occidente è divenuto in un certo senso l’immagine evocativa di un scontro fra due realtà inconciliabili, una sorta di conflitto a priori fra due visioni del mondo totalmente incompatibili. Tuttavia, l’uso di contrapporre così genericamente questi due termini ha dato luogo a tutta una serie di confusioni e di equivoci, che per eccesso di semplificazione impediscono una più chiara analisi del fenomeno.
È da notare innanzitutto che lo stesso accostamento dei due termini islam e Occidente mette a confronto due concetti non esattamente comparabili. Da una parte, abbiamo infatti un’entità di carattere essenzialmente religioso (l’islam), e dall’altra una nozione geografica (l’Occidente), i cui contorni culturali non sono precisamente definiti. Cosa intendiamo realmente con queste due espressioni? Se con Occidente volessimo alludere alle matrici cristiane del mondo occidentale, il confronto sarebbe indubbiamente più omogeneo, in quanto metteremmo in rapporto fra di loro due concetti di comune natura religiosa. Ma il più delle volte, quando oggi si contrappone l’Occidente all’islam, non è ai principi e alle istituzioni del cristianesimo che si pensa, quanto piuttosto ai valori della civiltà razionalistica, illuminista, liberale e laica cui l’Occidente ha dato vita negli ultimi secoli della sua storia; una civiltà, cioè, che è nata e che si è affermata spesso in aperto contrasto con le dottrine e gli orientamenti del cristianesimo tradizionale. In questa accezione, l’Occidente non può essere messo a confronto con un’idea religiosa, quale è l’islam, ma semmai con le realtà istituzionali e politiche del mondo islamico, il che è cosa ben diversa.
Il termine islam necessita a sua volta di ulteriori chiarimenti. Ciò che odiernamente viene definito con tale nome, spesso non è l’islam nel suo significato più preciso di insieme religioso e culturale, ma è piuttosto la condizione politica e sociale nella quale si trovano attualmente i Paesi musulmani, con l’aggravante di non considerare le differenze, talvolta notevoli, che vi possono essere fra caso e caso. In altre parole, vengono in genere accomunati sotto la generica etichetta di ‘islam’ usi e tendenze di società asiatiche e africane, urbane e rurali, sottosviluppate e tecnologicamente evolute. Nessuno penserebbe di utilizzare il termine cristianesimo come unica espressione possibile sotto la quale comprendere le più svariate realtà politiche e sociali dell’Europa o dell’America, e invece ci si continua a servire del nome islam come comodo riferimento per tutto ciò che accade nei Paesi musulmani, anche nel caso in cui l’islam non sia affatto responsabile di quelle manifestazioni. Insomma, la parola islam è divenuta, per usare un termine sociologico, una sorta di marcatore, utile a sottolineare la differenza, a evidenziare l’inconciliabilità fra l’Occidente e un’altra parte del mondo, a rendere vistoso il distacco fra chi è moderno e chi non riesce a diventarlo.
La contrapposizione fra islam e Occidente rischia così di diventare la linea di confine fra due mondi in armi, sull’orlo di una battaglia senza quartiere. La teoria dello scontro delle civiltà (titolo di un libro del politologo americano Samuel P. Huntington The clash of civilizations and the remaking of world order, 1996; trad. it. 1997) negli ultimi anni ha animato le discussioni dell’opinione pubblica ed è il frutto logico di questo clima. La tesi, al di là di alcune sue fragilità teoriche, intendeva esclusivamente sottolineare come nella realtà del 21° sec. i confronti saranno sempre più segnati da differenziazioni culturali, e non ideologiche o economiche: gli Stati nazionali continueranno ancora a lungo a essere i motori della politica, ma i loro confini perderanno sempre più importanza a scapito di un nuovo tipo di frontiera, tracciato dalle differenze fra le identità culturali e religiose. Ma il dibattito mondiale si è acceso non tanto sui contenuti o sulla validità delle tesi di Huntington (molti di coloro che lo criticano o l’approvano non hanno neppure letto il libro), quanto piuttosto per l’evocativo titolo della sua opera, che ha suscitato reazioni vivaci e non sempre meditate. Da una parte, infatti, l’idea che fra la civiltà dell’Occidente e quella dell’islam vi sia una barriera insormontabile è andata incontro al disagio sempre più diffuso in alcuni settori della società occidentale contemporanea, che si vede messa sotto accusa e avverte la crescente ostilità del mondo che la circonda; dall’altra, le paure sollevate dall’idea di un possibile conflitto di portata planetaria hanno spinto molti a negare ogni validità all’ipotesi di Huntington, nella convinzione che le civiltà possano e debbano trovare un terreno d’intesa comune sul quale dialogare pacificamente. Entrambe queste posizioni rispecchiano più i desideri e le aspettative ideali di chi le sostiene che non la realtà concreta. Da una parte, si ricorre a semplificazioni approssimative, che definiscono le civiltà e le loro fisionomie in modo piuttosto grossolano; dall’altra, si ignora che la dimensione conflittuale fra l’Occidente e il resto del mondo – dunque non solo l’islam – sembra assumere con il tempo proporzioni sempre più consistenti.
La tesi dello scontro delle civiltà appare dunque discutibile non in quanto ipotizza futuri scenari di lotta fra schieramenti contrapposti, che sono del tutto possibili e che del resto si sono già visti in atto in più di una circostanza, ma piuttosto perché tende a identificare in maniera erronea gli antagonisti in campo. Se, infatti, il mondo occidentale e quello musulmano si trovano attualmente su posizioni molto distanti fra loro, ciò non significa affatto che sia l’islam in quanto astratta realtà culturale a rappresentare il pericolo più immediato per l’Occidente. Negli ultimi anni, è stata più volte proposta la tesi secondo la quale l’odio per l’Occidente è una vera propria patologia (definita con il neologismo di occidentalite), che non è frutto di un conflitto fra culture diverse, ma che al contrario è figlia delle contaminazioni culturali che lo stesso Occidente ha provocato con la diffusione planetaria delle sue idee. In altre parole, le critiche corrosive contro l’Illuminismo, la democrazia e il liberalismo occidentali hanno una lunga storia nel seno stesso della cultura europea, e queste idee sono state in seguito riprese da rappresentanti di altre culture e adattate ai propri scopi. È in questo modo che, di fronte allo strapotere materiale dell’Occidente, di volta in volta gli slavi, i giapponesi o i musulmani hanno cercato di erigere una barriera che mettesse al riparo i propri sistemi culturali dall’invadenza straniera. Si sono in tal modo create delle identità per lo più fittizie, tutte tese a far risaltare la purezza dei propri valori in contrasto con quelli corrotti del mondo occidentale, ma in ultima analisi fondate su categorie e concetti desunti proprio dall’Occidente.
Questa analisi sembra confermata dal fatto che l’islamismo contemporaneo – che, si ribadisce ancora una volta, non è sinonimo di islam – è caratterizzato da una fisionomia tipicamente occidentale, nel senso che utilizza tutti i parametri culturali e ideologici dell’Occidente dominante, allontanandosi il più delle volte dai propri riferimenti tradizionali. Quanto si è detto a proposito del rapporto fra islam e politica vale anche, e forse a maggior ragione, per ciò che concerne il campo delle relazioni fra islam e Occidente. L’islamismo ideologico non è affatto una creazione genuina dell’islam, ma è il prodotto di una contaminazione che ha di fatto allontanato i moderni fondamentalisti musulmani dalla loro religione originaria. Ormai quasi tutti gli studiosi insistono sul fatto che l’islamismo radicale non solo è estraneo all’universo dell’islam tradizionale, ma ne è addirittura il peggiore nemico. Il fondamentalismo islamico, infatti, utilizza il lessico dell’islam esclusivamente come strumento dialettico e propagandistico, ma in realtà condivide presupposti, metodi e obiettivi della civiltà globale imposta dall’Occidente. Proprio come in passato si è utilizzato il nazionalismo di importazione occidentale per scrollarsi di dosso il giogo coloniale, allo stesso modo l’ideologia del fondamentalismo islamico rappresenta il tentativo di sfruttare un’arma, quella della modernità globalizzata, contro chi l’ha concepita e diffusa: l’intento dichiarato è quello di riaffermare i valori di un presunto islam autentico da opporre all’Occidente, lo scopo reale è di essere sempre più partecipi e protagonisti in una civiltà unica, i cui valori vengono in gran parte condivisi ma dalla quale ci si sente ingiustamente emarginati. In quest’ottica, appare chiaro che l’antitesi fra islam e Occidente rappresenta sotto molteplici aspetti una falsa contrapposizione. Più che di scontro fra civiltà, bisognerebbe dunque parlare di un conflitto fra due varianti all’interno della stessa forma di civiltà. Il radicalismo islamico contemporaneo ha profonde radici occidentali, che nessun appello alle irriducibili diversità culturali potrà mai cancellare. Le ‘faglie’ culturali, che la teoria di Huntington ha concepito come linee di demarcazione nette e definite, vengono sempre più messe in discussione dal mondo globale di oggi, che sfuma i confini e annoda intrecci un tempo impensabili.
Il vero protagonista delle trasformazioni repentine che il mondo ha subito negli ultimi decenni è il cosiddetto processo di globalizzazione. L’idea di un ‘villaggio globale’, che sino a qualche tempo fa poteva sembrare più una categoria concettuale che un fatto compiuto, ha dimostrato di potersi tramutare in realtà concreta attraverso quella serie di meccanismi che dominano oggi gli scambi planetari: comunicazione globale, mercato globale, consumi globali, persino terrorismo globale. Il problema di fondo insito in questo processo è che la globalizzazione non comporta una parità dei soggetti coinvolti in queste interazioni, ma al contrario prevede che l’elemento egemone detti le regole del gioco e faccia prevalere i propri interessi su quelli di tutti gli altri partecipanti. Si creano in tal modo squilibri e scompensi di vario genere, che possono avere differenti esiti, non tutti facilmente prevedibili o controllabili.
I Paesi islamici sono stati investiti, come tutto il resto del mondo, dal fenomeno della globalizzazione e già da tempo gli studiosi musulmani hanno avviato una riflessione approfondita su questo tema. Le posizioni sono ovviamente contrastanti, e vanno da accesi appelli alla resistenza contro il fenomeno globale a una sua accettazione come fatto compiuto, dal quale si debbono anzi trarre i possibili vantaggi. Nel campo degli oppositori si schierano, con diverse sfumature, tutti coloro che vedono nella globalizzazione una concreta minaccia all’identità culturale musulmana. Secondo questo punto di vista, il nuovo ordine mondiale tenderebbe a imporre una logica unitaria, che non tiene conto delle specificità culturali delle diverse società. Così, per es., l’affermazione universale dei diritti dell’uomo viene spesso criticata nel mondo islamico perché i valori che essa esprime sono quelli dell’Occidente egemone e contrastano, sotto più di un aspetto, con quelli proposti dalla religione islamica. Ma l’opposizione più vivace è quella che si manifesta contro il carattere materialistico della società globalizzata, che mercifica ogni cosa e diffonde modelli consumistici insostenibili e incompatibili con l’etica dell’islam. Ritorna qui all’opera quella raffigurazione radicale della diversità fra Occidente e resto del mondo, secondo la quale il primo rappresenta l’avidità, il cinismo e l’ingiustizia, mentre le culture subalterne difendono i principi dell’equità sociale, dei valori etici, della solidarietà. Di diverso avviso sono coloro che, come si è detto, pur non accettando tutte le implicazioni negative della società globalizzata, ritengono tuttavia che essa rappresenti un processo ormai irreversibile, con il quale bisogna necessariamente fare i conti. Gli esponenti di questo punto di vista sostengono in genere che i nuovi meccanismi economici e comunicativi, assieme ai traumi che necessariamente portano con sé, presentano anche delle straordinarie opportunità di cambiamento sociale e culturale. Una tesi che ricorre di frequente, a questo proposito, è quella che vede la globalizzazione come l’arma ideale per diffondere in Paesi resistenti al cambiamento delle vere e proprie rivoluzioni strutturali, favorendo l’emergere della mobilità sociale, la consapevolezza dei diritti, la diffusione di una cultura democratica. Attraverso i mezzi di comunicazione satellitare e lo strumento di Internet, le nuove generazioni musulmane hanno oggi a disposizione degli straordinari mezzi di crescita, che li possono formare in modo più libero rispetto ai rigidi schemi delle società nelle quali vivono, generalmente poco propense allo sviluppo degli individui.
Un’analisi di come l’islam viene rappresentato nel mondo di Internet non sembra però autorizzare un assoluto ottimismo. Se da una parte, infatti, è vero che la rete offre una libertà e una varietà di espressione impensabili nella comunicazione convenzionale, è altrettanto certo che gran parte dei siti Internet più frequentati propongono un islam alquanto schematico e puritano, più teso all’affermazione di vere o presunte identità culturali che non all’apertura verso nuovi orizzonti. I problemi della vita moderna vengono in genere affrontati con diffidenza e le soluzioni proposte sono spesso caratterizzate da un certo moralismo, più tipico dell’etica protestante che non di quella classica musulmana. Leggendo i messaggi e le risposte che circolano in rete, si ha l’impressione che molti giovani musulmani (soprattutto quelli trapiantati all’estero) siano preoccupati di legittimare islamicamente i più diffusi comportamenti delle giovani generazioni globali, in modo da sentirsi partecipi di una società che condividono e desiderano, ma al tempo stesso di preservare un segno visibile della propria specificità culturale. Si vogliono cioè utilizzare le tecnologie, gli accessori di abbigliamento, i modi di socializzazione e tutti gli altri beni di consumo che la civiltà globale propone, ma assicurandosi che qualche altro particolare nell’abbigliamento o nei gesti metta in mostra la loro appartenenza e li ponga al riparo da una perdita di identità.
Questi fenomeni, in apparenza contraddittori, si inseriscono invece perfettamente nello scenario della contemporaneità. Alcuni sociologi hanno osservato di recente che le logiche globali e quelle identitarie non sono affatto antitetiche nell’era delle nuove comunicazioni, ma al contrario si sviluppano in modo complementare e si rafforzano vicendevolmente. Sul satellite o nella rete si indeboliscono i vecchi sistemi di controllo (che siano lo Stato centralizzato, la tribù, la cultura locale o familiare) e si creano nuove forme di aggregazione, più fluide e indeterminate. In questo quadro, l’identità religiosa subisce un processo di deculturazione, nel senso che essa perde quei tratti che le esperienze storiche avevano disegnato nel tempo e si ricostruisce su basi totalmente diverse. Ma questi ‘nuovi islam’, proprio per il fatto di crescere al di fuori di ogni contesto, si configurano in maniera rigida e artefatta, come un insieme di norme etico-giuridiche astratte e non più animate da una cultura vissuta che le armonizzi e ne smussi il rigore. È in questo modo che si può spiegare la diffusione sempre più vasta di un islam standardizzato e senza un’anima precisa, un islam di telepredicatori che offrono la propria opinione come valida per tutte le circostanze e le latitudini, un islam inflessibile che condanna come superstiziose e popolari tutte le forme tradizionali che la religione musulmana ha assunto e continua ad assumere nei suoi contesti d’origine. La modernizzazione, che nell’immaginario collettivo viene considerata come il rimedio obbligato per le sofferenze delle società contemporanee, in alcuni casi procura come effetto indesiderato proprio il contrario, in quanto accentua le divisioni radicali e favorisce sviluppi gravidi di un inquietante oscurantismo.
Un capitolo a sé nel difficile rapporto fra l’islam e la modernità è rappresentato dalle comunità musulmane stanziate in Occidente, sempre più numerose in Europa e in America. La pura e semplice integrazione di questi elementi nella cultura ospitante, sino a pochi anni orsono considerata necessaria e ineluttabile, viene oggi messa radicalmente in discussione. È sorto infatti il problema di una ‘identità islamica’ da preservare a prezzo di qualsiasi costo, benché questa identità – altro concetto tipicamente occidentale, estraneo al pensiero musulmano classico – rimanga ancora tutta da definire.
L’immigrazione musulmana in Occidente ha una storia piuttosto lunga e si è configurata in modi molto dissimili a seconda dei casi, sia a causa delle differenti aree di provenienza delle comunità di immigrati, sia per la diversa natura giuridica e le politiche culturali dei Paesi dell’Europa o dell’America verso i quali il flusso migratorio si è indirizzato. In Gran Bretagna, per es., circa l’80% dell’immigrazione proveniente dai Paesi islamici è quella del blocco indo-pakistano, in Francia la presenza più massiccia (83% ca.) è rappresentata dagli immigrati dell’Africa del Nord, in Germania dai turchi (70% ca.) e così via. Ogni Paese europeo, a sua volta, ha sviluppato pratiche di accoglienza diverse, in conformità con i principi giuridici dei rispettivi ordinamenti statali. Paesi come la Francia, in cui vige un criterio di cittadinanza basato sul diritto del suolo (ius soli), hanno concesso maggiori opportunità agli immigrati di ottenere lo status di cittadini, con tutte le conseguenze che ciò comporta sul piano dell’acquisizione dei diritti e dell’integrazione; laddove invece, come in Germania, prevale la nozione di diritto del sangue (ius sanguinis), l’immigrato rimarrà escluso da qualunque forma di riconoscimento giuridico e continuerà naturalmente a dipendere dalle istituzioni e dalle pratiche del proprio Paese di origine.
Ma il criterio della cittadinanza si è rivelato un elemento insufficiente a garantire sempre e in ogni caso un’integrazione indolore. La rivolta dei cittadini d’origine nordafricana nelle periferie delle grandi città francesi ha dimostrato come immigrati di terza o quarta generazione, che si supponeva ormai del tutto ‘assorbiti’ dal Paese ospitante, manifestino disagi tali da mettere in pericolo la stabilità sociale. In un’epoca di crisi identitarie, è sempre più frequente il ricorso alle matrici islamiche della propria origine per marcare la differenza con l’ambiente circostante. Si reagisce così ai fattori di ineguaglianza e di discriminazione rivendicando una radicale diversità di cultura, che assume l’islam come l’unico elemento forte di affermazione della propria specificità.
La crescente domanda di riconoscimenti identitari non si è concretata necessariamente in contrapposizioni violente. Molto più spesso essa ha assunto la forma di istanze pacifiche, attraverso le quali le diverse comunità musulmane in Occidente si ripropongono di ottenere dagli organismi pubblici dello Stato che li ospita una serie di garanzie e di diritti. Trattative con le istituzioni nazionali o con gli enti locali hanno riguardato problemi attinenti al diritto di famiglia, all’assistenza sanitaria, all’alimentazione, all’istruzione religiosa, alle necessità rituali, agli spazi cimiteriali, al rispetto delle festività, al sostegno spirituale negli ospedali o nelle carceri. La natura estremamente variegata di queste istanze – si va dai ricongiungimenti familiari alla richiesta di spazi per moschee e centri culturali – ha reso difficile un’impostazione omogenea e coerente delle problematiche. Le richieste vengono in genere accolte o negate più su base estemporanea che non nel quadro di una politica complessiva, che fornisca un quadro di riferimento preciso valido per tutti gli attori del processo. Un diritto riconosciuto da uno Stato non viene concesso in un altro, e talvolta in uno stesso Paese si assiste a differenze di trattamento di fronte alle medesime istanze. Risulta insomma difficile pensare a una comune politica europea o anche soltanto nazionale di fronte ai problemi dell’immigrazione musulmana, e gli esperimenti di normative generali cui si è tentato di dare vita non hanno sinora fornito risultati significativi.
In Italia, per es., la Costituzione consente un regime di concordato esclusivamente nel caso della religione maggioritaria del Paese, quella cattolica, mentre le altre forme religiose (incluse le confessioni cristiane non cattoliche) si sono viste aprire più di recente la possibilità di siglare delle intese, vale a dire delle forme minori di riconoscimento di prerogative e concessioni da parte dello Stato. Ma mentre alcune chiese protestanti e le comunità ebraiche sono riuscite a siglare forme di intesa con la Repubblica italiana, le comunità islamiche non hanno ancora ottenuto un analogo risultato. Ciò è dovuto in massima parte al problema della rappresentatività dell’islam, nel senso che le comunità musulmane in Italia non si sono accordate su una rappresentanza unica che potesse a nome di tutti interloquire con lo Stato. Le tre bozze di Intesa depositate presso il Ministero degli Interni da varie associazioni musulmane sono fra loro diverse e rispecchiano le divergenze culturali degli organismi che le hanno elaborate. In mancanza di una forma più unitaria di rappresentanza, è evidente che lo Stato italiano si trova nella difficoltà di individuare l’interlocutore più autorevole, e quindi l’Intesa con le comunità islamiche si trova al momento in una situazione di stallo di cui è difficile prevedere lo sbocco. A queste difficoltà di carattere tecnico si sono poi aggiunti ostacoli di natura politica, perché la crescente conflittualità sociale e culturale fra islam e Occidente ha fatto sì che parti consistenti dell’opinione pubblica avvertano una notevole diffidenza verso ogni forma di riconoscimento da parte dello Stato nei confronti del ‘nemico’ musulmano.
Se dunque i regimi giuridici e costituzionali dei vari Stati hanno rappresentato un fattore di complessità nel rapporto fra le comunità islamiche e i Paesi occidentali che le ospitano, un fattore ancor più rilevante sembra oggi costituito dalle barriere culturali che le parti tendono reciprocamente a erigere fra loro. Il confronto che si è visto emergere fra l’islam e l’Occidente si ripropone in maniera ancora più acuta nel nuovo contesto dell’islam in Occidente. È infatti proprio nelle aree della loro recente migrazione che le comunità musulmane hanno sollevato con maggior forza la questione della propria identità da tutelare e valorizzare. Al di fuori del loro ambiente d’origine, dove l’islam è quasi sempre la cultura dominante, questi musulmani si sono trovati nell’inedita condizione di costituire una minoranza e si sentono dunque tenuti a difendere in ogni modo possibile le proprie specificità. Il problema principale di questa identità collettiva da tutelare è rappresentato dall’estrema eterogeneità delle provenienze, nel senso che la comune appartenenza all’islam raramente riesce a cancellare tutte le differenze nazionali, sociali e culturali che ca-ratterizzano le variegate componenti dell’immigrazio-ne musulmana. L’identità islamica comune che do-vrebbe tenere insieme queste parti così diverse rischia in tal modo di essere piuttosto superficiale, e infatti il più delle volte si riduce a un insieme di idee e di atteggiamenti costruiti ad arte, insufficienti a ricreare nel nuovo contesto quella identità profonda che si è perduta lasciando il Paese originario.
Negli ultimi anni si è spesso ipotizzato che i fenomeni culturali della ‘contaminazione’ e del ‘meticciato’ fossero di per sé sufficienti a smussare le asperità di una contrapposizione fra identità radicali e violente. In realtà, gli esiti più destabilizzanti del fondamentalismo islamico sono stati rappresentati proprio da coloro che in Occidente hanno seguito tortuosi percorsi di acculturazione e di ricomposizione della propria identità. Se dunque i musulmani d’Europa o d’America non costituiscono nella loro maggioranza un elemento di inevitabile conflittualità con l’Occidente, è anche vero che non bisogna riporre eccessive speranze nei cosiddetti nuovi islam, che per il solo fatto di essere cresciuti sul suolo occidentale sarebbero garanzia di una pacifica convivenza globale.
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